Don Luigi Ciotti, presidente di Libera, ha pubblicato il 4 di dicembre sul quotidiano l’Unità un editoriale - tratto dal volume La speranza non è in vendita (2011) Giunti editore pagg. 128 € 10 - che ha per titolo Non siamo tutti uguali. Di seguito lo trascrivo nella quasi sua interezza, condividendone sia i contenuti che l’ispirazione che ne ha guidato la stesura. Mi va di evidenziare, soprattutto, là dove l’illustre estensore torna a parlare della presenza degli ultimi nella scala sociale, quegli ultimi che imbarazzano la vista di lor signori - di melloniana memoria - ma non sommuovono le coscienze loro per un rinnovamento profondo e più equo delle nostre società e del cammino che esse perigliosamente percorrono. E quel continuo Suo accennare alla presenza degli ultimi gli rende merito grande per l’incessante Suo impegno nel sociale che ne rende la figura Sua luminosa e fuori dai canoni consueti. È che è la persona nella sua dignità umana ad essere stata calpestata da un sistema economico che, in nome dell’efficienza e della redditività più estrema, ha consentito lo stravolgimento dei rapporti economici a tutto beneficio di quel capitalismo della finanza che impietosamente presenta il conto che tutti devono, e dico devono, concorrere ora a pagare con moneta sonante. Della condizione di disagio che l’essere umano vive in un tempo di crisi ne ha scritto, sul settimanale L’Espresso, il professore di Neuroeconomia dell’Università San Raffaele di Milano Matteo Mortellini: - La maggior parte delle persone pensano che il rapporto con il denaro appartenga al campo del razionale, invece scatena emozioni come l'orgoglio, l'onore, il senso di ingiustizia, la paura, la rabbia, l'invidia. A pesare sul nostro cervello sono i cambiamenti relativi, non quelli assoluti: una nuova tassa, l'aumento del prezzo della benzina, non importa quanto pesanti, vengono codificati immediatamente dal nostro cervello in termini di perdite. E, per come ci siamo evoluti, le perdite pesano psicologicamente oltre il doppio dei guadagni; in particolare l'evidenza neuroeconomica mostra che esse attivano quell'area del nostro cervello, l'amigdala, che fiuta i pericoli che possono mettere a repentaglio la sopravvivenza della nostra specie. In secondo luogo pesa il confronto con gli altri: la disuguaglianza ci rende più infelici dell'austerità -. La disuguaglianza, per l’appunto.
Tutti, anche quelli che per anni hanno ostentato ottimismo, parlano ormai di crisi economica e di paura del futuro. Chi sta nel sociale, sul territorio, sulla strada lo tocca con mano da tempo e ne ha segnalato, inascoltato, le avvisaglie. È una crisi da cui non si uscirà facilmente. Se ne uscirà solo - a dispetto di chi, dopo averla provocata, ne promette il superamento grazie a una nuova crescita dietro l’angolo - con trasformazioni sociali profonde. E, soprattutto, non chiudendo gli occhi. Perché la crisi non è uguale per tutti. Non è uguale per i vecchi che frugano nelle pattumiere e per i 200.000 acquirenti annui di auto di lusso da 100.000 euro e più. Non è uguale per i milioni di giovani senza lavoro o con lavori finti e per chi incrementa rendite miliardarie, evadendo ogni forma di tassazione. Non è uguale per chi muore di lavoro nero e pericoloso pagato quattro euro all’ora e per chi si arricchisce sfruttando quel lavoro. Non è uguale per l’operaio che guadagna 1.000 euro al mese e per l’amministratore delegato che guadagna più di quattrocento volte tanto. La crisi è una lente di ingrandimento che mostra anche a chi non vuole vedere due mondi diversi e divaricati (accompagnati da una zona grigia che slitta sempre più verso la povertà). Due mondi che non si parlano, dove la parte soddisfatta della società sembra vivere come problema la presenza e la visibilità degli ultimi. Vista dalla strada la crisi non riguarda né il prodotto interno lordo (il mitico Pil), né il crollo delle borse, troppo lontani per poter essere misurati e compresi. Vista dalla strada la crisi riguarda le condizioni di vita, sempre più difficili, delle persone. L’economia ha le sue leggi e i suoi saperi. Ma se non servono a migliorare le condizioni di vita delle persone, sono leggi e saperi inutili. Parliamo, allora, delle condizioni delle persone. Su sette miliardi di donne e di uomini che abitano il pianeta, due miliardi vivono - quando vivono - in condizioni di povertà assoluta, con un reddito giornaliero al di sotto di due dollari (cioè di un euro e mezzo); chi vive in condizioni di povertà relativa, poi, è la maggioranza; e ogni anno muoiono di fame - nella indifferenza dei più - sei milioni di bambini. Con la crisi, il problema della povertà è diventato centrale anche nel ricco Occidente. Così, in Italia, vivono in condizioni di povertà relativa (corrispondente a un reddito di 983 euro mensili per una famiglia di due persone) quasi otto milioni di persone; un italiano su tre (uno su due al Sud) non è in grado di far fronte a una spesa imprevista di 700-750 euro nell’anno. È povero un bambino ogni quattro ed è disoccupato un giovane su tre. Un giovane su cinque è così sfiduciato e frustrato che il lavoro ha smesso di cercarlo. In termini di valore reale i livelli delle retribuzioni diminuiscono, e - come avvenuto nello scorso ottobre a Barletta - si può morire di sottolavoro. Lo spettro della povertà poi, un tempo limitato a chi era privo di occupazione, lambisce ormai una quota crescente di lavoratori. (…). Di fronte alla crescita del disagio esistenziale, si sta consolidando la tendenza a rimuovere o a governare in maniera repressiva i fenomeni di cui non si ha più cura, ignorando il disagio e la sofferenza delle persone. È accaduto - sta accadendo - per la povertà, per la marginalità, per la devianza, per l’immigrazione. Il lavoro, quando c’è, è privato del suo ruolo sociale e della dignità, anche simbolica, che ha avuto finché è stato riconosciuto come elemento essenziale della nostra identità. Ma un lavoro subordinato al profitto, ridotto a mezzo per garantire la ricchezza di pochi e - nella migliore delle ipotesi - la semplice sussistenza degli altri, impoverisce la vita individuale e quella sociale. Insieme alle relazioni umane, il lavoro è la base della nostra identità. Senza il rispetto delle attitudini, delle passioni e dell’intelligenza delle persone, il lavoro non contribuisce alla costruzione di una società,ma al massimo produce aggregazioni, dove ciascuno trova posto (quando lo trova) non in base alle sue capacità ma alla sua funzionalità, valutata secondo princìpi di pura e semplice convenienza economica. È il meccanismo che ha governato la cosiddetta flessibilità, concetto con cui per anni si sono giustificate le leggi - loro sì inflessibili - del mercato: la disponibilità delle persone ad adattarsi alle attività più disparate senza garanzie contrattuali e senza la possibilità di fare del lavoro il nucleo intorno a cui costruirsi sicurezza materiale e dignità sociale. Sono i diritti a garantire la trasformazione dello sviluppo economico in progresso sociale. La disuguaglianza, quindi, non è solo un’offesa alla loro sacralità, una lacerazione dell’etica. È un controsenso economico. La disuguaglianza non conviene a nessuno. L’attuale situazione di crisi è la dimostrazione di come un sistema fondato sulle disparità e su profitti non equamente distribuiti finisce per impoverire tutti. (…). Ci siamo illusi che la modernità avesse voltato pagina. Non è stato così, soprattutto negli ultimi tempi, in cui persino molte fortune di partiti e formazioni politiche sono state giocate sulla propaganda di idee e progetti di esclusione degli ultimi e dei non omologati. (…). Il problema della società diventa - torna ad essere - la presenza degli ultimi: i lavavetri, e con essi, i matti, i tossicodipendenti, i mendicanti, gli ambulanti senza licenza, i venditori di fiori o di fazzoletti, gli zingari, i barboni, i questuanti, le donne sfruttate sui bordi delle strade, in un elenco potenzialmente senza fine. A infastidire i benpensanti non è più la povertà ma la sua visibilità. (…). Per anni ci è stato detto che il libero mercato sarebbe stato in grado non solo di regolarsi grazie a una presunta mano invisibile, ma addirittura di produrre un effetto a cascata di cui tutti avrebbero beneficiato. Era - a voler essere indulgenti - un’illusione, ma ribadita con tale insistenza da diventare una specie di dogma. Le analisi che vanno per la maggiore dicono che la malattia economica va curata facendo tornare i conti a suon di tagli e di sacrifici che, guarda caso, riguardano sempre la spesa pubblica e i servizi sociali. Solo così - si dice - il sistema può riprendere fiato, la gente consumare, e l’economia del Paese tornare a essere competitiva. Andare avanti - vorrebbero farci credere - è impossibile, se non ritornando indietro, a quando eravamo alle prese con la rivoluzione industriale ed erano ancora di là da venire le conquiste del secolo scorso in tema di lavoro: dignità, salario, sicurezza, diritto di sciopero, equa proporzione tra tempo del lavoro e tempo della vita. Lussi, viene detto, che oggi non possiamo più permetterci, zavorre di cui dobbiamo al più presto disfarci, se non vogliamo soccombere nella corsa sfrenata allo sviluppo. Continuo a credere che non sia così.
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