(…). La deturpazione funesta delle parole, lo stratagemma d'illudere il popolo imbellendo la realtà e inventandosi, per decerebrarci, un'attualità del tutto sfasata rispetto a ciò che davvero è attuale, cioè urgente, emergente: per decenni ci eravamo assuefatti a questo, e abbiamo finito col chiamarlo politica. È ora di restituire, a quest'ultima, il severo verbo vero che le si addice. (…). Ne discussero i filosofi dell'antichità greca, e diedero al dire-tutto il nome di parresia: un vocabolo che torna negli Atti degli apostoli (Pietro e Giovanni rischiano la morte, pur di testimoniare il vero e la libera coscienza del cristiano). Chi parlava senza blandire o mimetizzarsi era chiamato parresiasta. Senza parresia, scrive Foucault, siamo sottomessi alla follia e all'idiozia dei padroni: la pòlis ha bisogno di verità, per esistere e salvarsi. (…). …l'apprendimento del parlare-vero è lento, sempre scabroso. Si perdono privilegi, ci si espone alle critiche dei sofisti (gli economisti). Nella democrazia ateniese, secondo Socrate e Demostene, si rischiava la vita. (…). Ci vuole coraggio per firmare le proprie parole, parlando-vero. Chi lo possiede non ha la vita facile, deve esser cauto se non vuol ricadere nel parlar-falso. (…). È quanto scrive, con la Sua solita lucidità ed incisività, Barbara Spinelli nel Suo editoriale Il coraggio della verità, editoriale pubblicato sul quotidiano la Repubblica che ho trascritto in parte. L’esercizio della verità è un esercizio di lunga lena; non ci si improvvisa a dire la verità tutto d’un colpo. È un esercizio di lunga lena al pari della democrazia, che non la si conquista tutta d’un botto, ma dopo un lungo navigare nelle acque infide del populismo e della demagogia. L’esercizio della verità si coniuga strettamente con l’esercizio della democrazia; laddove il primo non divenga regola diffusa di vita non si può, in alcun modo, dire esserci la democrazia. Laddove i reggitori della cosa pubblica amino utilizzare, travisandole, le parole, per costruire la verità più confacente e gradevole per i cittadini sottoposti, in quel luogo la democrazia risulta essere priva di qualsivoglia spirito suo nobile e non avrà mai modo alcuno per interrare profonde radici. Il doveravatetutti è un ripercorrere a ritroso la storia, ma la storia piccola, con l’iniziale minuscola minuscola, poiché minuscola fu al tempo la storia del bel paese. Storia minuscola e falsa, di lustrini e cocottes, che ha utilizzato le parole per l’obnubilazione delle menti e delle coscienze. A quel tempo del doveravatetutti, il 14 di ottobre dell’anno 2010, ne scriveva Gustavo Zagrebelski sul quotidiano la Repubblica nel Suo La neolingua del Cavaliere, un Suo prezioso dizionario dal quale traggo di seguito le ultime due voci.
«Fare-lavorare-decidere». La «discesa» dalla quale abbiamo iniziato a che cosa mira? La rigenerazione ch´essa promette in che cosa consiste? Non nella salvezza delle anime, né nell´elevazione civile della società e nemmeno nella potenza della Nazione o dello Stato, come fu per diverse «discese salvifiche» in altri tempi e luoghi. Lo dice ancora una volta il linguaggio del nostro tempo, così impregnato di aziendalismo e produttivismo. L´idea che la vita politica si basi su un legame sociale che-certamente- implica ma non si esaurisce in benessere materiale, consumi, sviluppo economico, è totalmente estranea al modo di pensare attuale e alla lingua che l´esprime. L´Italia è «l´azienda Italia» e tutti devono «fare sistema», «fare squadra» perché possa funzionare. Basterebbe pensare alla politica delle «tre I», slogan lanciato a suo tempo per sintetizzare il senso delle riforme nella scuola italiana: inglese, Internet, impresa. Dalla scuola si bandiva quella cosa così evanescente, ma così importante per tenere insieme una società senza violenza e competizione distruttiva, che è la cultura. La scuola, davvero, si orientava verso il «saper fare», cioè verso la produzione di «risorse umane» finalizzate allo «sviluppo» dell´azienda e da utilizzare intensivamente fino al limite oltre il quale ci sono gli «esuberi». La politica, a sua volta, è venuta configurandosi come il logico prolungamento di questa concezione del bene sociale. Così, il governo diventa il «governo del fare» il cui titolo di merito «assoluto» è di avere posto fine al «teatrino della politica» e di andar facendo. «Fatto» diceva un non dimenticato spot pubblicitario governativo costruito su un timbro sonoramente impresso su qualche foglio di carta. Per «fare», però, occorre «lavorare» e, così, quello che lavora, non quello che chiacchiera, è il governo buono. Bisogna «lasciarlo lavorare». Chi si mette di traverso, cioè «rema contro» la squadra di canottieri che fa andare la barca non è un oppositore ma un potenziale sabotatore, uno che non ama l´Italia. (…). Ora, l´ideologia aziendalista del fare e del lavorare mette in evidenza, esaltandolo, il momento esecutivo e ignora, anzi nasconde il momento deliberativo. Chi decide, in che modo decide e che cosa decide? Tutto questo è «assolutamente» fondamentale in democrazia perché rappresenta il momento formativo e partecipativo delle scelte politiche. La logica aziendalista, trasportata in politica, fa dell´efficienza l´esigenza principale: efficienza per l´efficienza. Il fare per il fare: attivismo. Tante leggi, tante riforme: è la quantità a essere messa in mostra. Viene meno il rapporto tra il fare e il «che cosa fare», un rapporto che presuppone una divisione tra il realizzare e il determinare l´oggetto da realizzare. Viene meno il fine dell´agire. (…). Alla medesima logica appartiene il «decidere», per esempio nell´espressione «democrazia decidente», che ha preso piede anche nel lessico di parte di forze politiche d´opposizione (…). Anche qui ciò che viene passato sotto silenzio è ciò che dovrebbe garantire che non si operi male. Forza delle parole: il mezzo, cioè l´efficienza (fare, lavorare, decidere), da mezzo quale è, diventa il fine.
«Politicamente corretto». (…). Negli anni appena trascorsi è stata condotta vittoriosamente una battaglia semantica contro la dittatura del «politicamente corretto», accusato di conservatorismo, ipocrisia e perbenismo. I tabù linguistici sono caduti tutti. Perfino la bestemmia è stata «sdoganata» perché qualunque parola deve essere «contestualizzata». I contesti sono infiniti. Così ogni parola è infinitamente giustificabile. Il degrado è pervasivo, e ha contagiato anche chi non l´ha inaugurato e anzi, all´inizio, l´ha deplorato. Così, ci si è assuefatti. Ma il risultato non è stato una liberazione, ma un nuovo conformismo, alla rovescia. Oggi è politicamente corretto il dileggio, l´aggressione verbale, la volgarità, la scurrilità. È politicamente corretta la semplificazione, fino alla banalizzazione, dei problemi comuni. Sono politicamente corretti la rassicurazione a ogni costo, l´occultamento delle difficoltà, le promesse dell´impossibile, la blandizia dei vizi pubblici e privati proposti come virtù. Tutti atteggiamenti che sembrano d´amicizia, essendo invece insulti e offensioni. I cittadini comuni, non esperti di cose politiche, sono trattati non come persone consapevoli ma sudditi, anzi come plebe. Cosicché le posizioni sono ormai rovesciate. Proprio il linguaggio plebeo è diventato quel «politicamente corretto» dal quale dobbiamo liberarci, ritrovando l´orgoglio di comunicare tra noi parlando diversamente, non conformisticamente, seriamente, dignitosamente, argomentatamente, razionalmente.
«Fare-lavorare-decidere». La «discesa» dalla quale abbiamo iniziato a che cosa mira? La rigenerazione ch´essa promette in che cosa consiste? Non nella salvezza delle anime, né nell´elevazione civile della società e nemmeno nella potenza della Nazione o dello Stato, come fu per diverse «discese salvifiche» in altri tempi e luoghi. Lo dice ancora una volta il linguaggio del nostro tempo, così impregnato di aziendalismo e produttivismo. L´idea che la vita politica si basi su un legame sociale che-certamente- implica ma non si esaurisce in benessere materiale, consumi, sviluppo economico, è totalmente estranea al modo di pensare attuale e alla lingua che l´esprime. L´Italia è «l´azienda Italia» e tutti devono «fare sistema», «fare squadra» perché possa funzionare. Basterebbe pensare alla politica delle «tre I», slogan lanciato a suo tempo per sintetizzare il senso delle riforme nella scuola italiana: inglese, Internet, impresa. Dalla scuola si bandiva quella cosa così evanescente, ma così importante per tenere insieme una società senza violenza e competizione distruttiva, che è la cultura. La scuola, davvero, si orientava verso il «saper fare», cioè verso la produzione di «risorse umane» finalizzate allo «sviluppo» dell´azienda e da utilizzare intensivamente fino al limite oltre il quale ci sono gli «esuberi». La politica, a sua volta, è venuta configurandosi come il logico prolungamento di questa concezione del bene sociale. Così, il governo diventa il «governo del fare» il cui titolo di merito «assoluto» è di avere posto fine al «teatrino della politica» e di andar facendo. «Fatto» diceva un non dimenticato spot pubblicitario governativo costruito su un timbro sonoramente impresso su qualche foglio di carta. Per «fare», però, occorre «lavorare» e, così, quello che lavora, non quello che chiacchiera, è il governo buono. Bisogna «lasciarlo lavorare». Chi si mette di traverso, cioè «rema contro» la squadra di canottieri che fa andare la barca non è un oppositore ma un potenziale sabotatore, uno che non ama l´Italia. (…). Ora, l´ideologia aziendalista del fare e del lavorare mette in evidenza, esaltandolo, il momento esecutivo e ignora, anzi nasconde il momento deliberativo. Chi decide, in che modo decide e che cosa decide? Tutto questo è «assolutamente» fondamentale in democrazia perché rappresenta il momento formativo e partecipativo delle scelte politiche. La logica aziendalista, trasportata in politica, fa dell´efficienza l´esigenza principale: efficienza per l´efficienza. Il fare per il fare: attivismo. Tante leggi, tante riforme: è la quantità a essere messa in mostra. Viene meno il rapporto tra il fare e il «che cosa fare», un rapporto che presuppone una divisione tra il realizzare e il determinare l´oggetto da realizzare. Viene meno il fine dell´agire. (…). Alla medesima logica appartiene il «decidere», per esempio nell´espressione «democrazia decidente», che ha preso piede anche nel lessico di parte di forze politiche d´opposizione (…). Anche qui ciò che viene passato sotto silenzio è ciò che dovrebbe garantire che non si operi male. Forza delle parole: il mezzo, cioè l´efficienza (fare, lavorare, decidere), da mezzo quale è, diventa il fine.
«Politicamente corretto». (…). Negli anni appena trascorsi è stata condotta vittoriosamente una battaglia semantica contro la dittatura del «politicamente corretto», accusato di conservatorismo, ipocrisia e perbenismo. I tabù linguistici sono caduti tutti. Perfino la bestemmia è stata «sdoganata» perché qualunque parola deve essere «contestualizzata». I contesti sono infiniti. Così ogni parola è infinitamente giustificabile. Il degrado è pervasivo, e ha contagiato anche chi non l´ha inaugurato e anzi, all´inizio, l´ha deplorato. Così, ci si è assuefatti. Ma il risultato non è stato una liberazione, ma un nuovo conformismo, alla rovescia. Oggi è politicamente corretto il dileggio, l´aggressione verbale, la volgarità, la scurrilità. È politicamente corretta la semplificazione, fino alla banalizzazione, dei problemi comuni. Sono politicamente corretti la rassicurazione a ogni costo, l´occultamento delle difficoltà, le promesse dell´impossibile, la blandizia dei vizi pubblici e privati proposti come virtù. Tutti atteggiamenti che sembrano d´amicizia, essendo invece insulti e offensioni. I cittadini comuni, non esperti di cose politiche, sono trattati non come persone consapevoli ma sudditi, anzi come plebe. Cosicché le posizioni sono ormai rovesciate. Proprio il linguaggio plebeo è diventato quel «politicamente corretto» dal quale dobbiamo liberarci, ritrovando l´orgoglio di comunicare tra noi parlando diversamente, non conformisticamente, seriamente, dignitosamente, argomentatamente, razionalmente.
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