"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 24 maggio 2014

Cosecosì. 81 Europa al tempo dei giullari.



Europa non è perfetta. Europa non è la dea che abita un eburneo empireo. Europa non è la mitica figlia del re dei Fenici. Europa siamo noi. E se Europa è imperfetta lo è per le imperfezioni che riempiono la nostra umanità. Europa è perfettibile. Ma affinché migliori ha bisogno di un’umanità che sia nuova. Non certo l’umanità del secolo ventesimo con le sue immani tragedie. E neppure l’umanità che ha preceduto quella. Ma di Europa si parla poco come se fosse disdicevole il solo nominarla. Ché se Europa è divenuta una baldracca lo si deve a chi non ha saputo allevarla. Poiché se si vuole che Europa diventi la nobile signora che tutti attendono non è concesso a nessuno che ci si disinteressi del suo avvenire. Europa ha bisogno di gambe forti e lunghe per sopravanzare il tempo della “crisi” che devasta.
Ha scritto Agnes Heller – “La nostra casa non diventi un museo” - sul quotidiano la Repubblica del 21 di maggio:  (…). …se chiedi a un qualsiasi europeo dell’Europa, ti risponderà che la sua patria, la sua nazione è in Europa. Qualcuno aggiungerà anche che l’Europa è la sua casa più grande. È un’esperienza comune, ogni volta che un europeo torna da un altro continente, di provare la sensazione di essere tornati a casa. Se insistete a chiedere a quell’europeo cosa significa l’Europa per lui (o lei), vi risponderà citando l’Unione Europea, la democrazia, ma anche aspetti della civiltà, come le regole nel vestire, il tipo di famiglia, il cibo preferito e così via. (…).  Quando ero giovane io era diverso. Io ho vissuto in Paesi totalitari, in un’Europa di campi di concentramento e campi di sterminio. Quando Thomas Mann visitò l’Ungheria, il più grande poeta di quell’epoca, Attila József, scrisse un poema in suo onore, che si concludeva così: «Siamo estasiati di vedere finalmente tra gli uomini bianchi un europeo». Per noi a quel tempo c’erano due Europe: l’Europa dei campi di sterminio, dei massacri, delle guerre, e l’Europa della poesia, dell’arte. L’altra Europa. In termini filosofici distinguevamo, senza conoscere quelle parole, tra l’Europa empirica e l’Europa trascendente. L’Europa trascendente era l’Europa della cultura umanista, della poesia, di un altro mondo. L’Europa empirica era il nostro mondo reale fatto di guerra, lager, fame e morte. L’Europa trascendentale era la promessa. Per la sua stessa esistenza e come consolazione. (…). L’Europa è sempre stata — tra le altre cose — anche un museo, almeno da quando i re hanno cominciato a collezionare quadri, da quando i papi hanno invitato gli architetti a creare grandi cattedrali, da quando i borghesi hanno cominciato ad andare ai concerti e da quando Gutenberg ha scoperto la stampa. Ma quando tutto questo avveniva, l’Europa era ancora solo un piccolo continente, e il prezioso concetto di “Europa” non era ancora venuto alla luce. (…). …la democrazia liberale europea non è un semplice museo. La democrazia europea, se eccettuiamo l’Atene antica, non è molto vecchia. La democrazia in America è più vecchia, più stabile, anche più popolare. Ma rimaniamo al tema dell’Europa come semplice museo. (…). …è il caso di distinguere fra turisti ricchi e rifugiati poveri. Per i rifugiati poveri in fuga, l’Europa è la Terra Promessa. I giovani sognano l’Europa, un continente dove non si corra il rischio di morire, dove lavorare e studiare. L’Europa è un semplice museo soltanto per i turisti ricchi. (…). Fra le migliaia di turisti, ce ne saranno sempre almeno tre che cominceranno a contemplare, che non vedranno soltanto il passato dell’Europa reificato nei musei, ma anche il presente vivo e il futuro. L’utopia, o per usare le parole di Adorno, «la promessa di felicità». (…). L’Europa diventerebbe un puro e semplice museo se dovesse scomparire anche la fantasia, lo spirito creativo degli europei, se gli europei dovessero limitarsi a starsene seduti sugli antichi allori, se l’ispirazione ricevuta dal passato dovesse lentamente morire, se la democrazia liberale dovesse diventare una questione di abitudine. Sì, l’Europa potrebbe diventare un semplice “museo all’aria aperta”: ma speriamo che non accada. Ágnes Heller è una signora nata Budapest il 12 di maggio dell’anno 1929. Nella Sua vita ha fatto per mestiere il filosofo. Oggi, avanti negli anni, rappresenta ancora, per la lucidità del Suo pensiero, quella corrente della cosiddetta «Scuola di Budapest» che ha fatto parte del marxismo detto del "dissenso comunista" nell'Europa orientale. Nata e vissuta nell’Europa venuta fuori dalla “grande guerra” sopravvisse all'Olocausto ed ebbe modo di vedere e vivere l’Europa dei “campi di concentramento e campi di sterminio”.Quella “Memoria” angoscia ancor’oggi la Sua vita ed il Suo pensiero. Ágnes Heller ha visto. Ágnes Heller ha coscienza e memoria di un’altra terribile Europa. Europa non è perfetta. È perfettibile però. Solo che della sua perfezione si facciano carico tutti i cittadini d’Europa e non solo coloro che avranno il privilegio di sedere sugli scranni più alti del suo parlamento. Europa non sarà la baldracca dell’oggi solo se le visioni e le speranze degli europei cammineranno sulle gambe robuste e lunghe di quei giganti il pensiero profondo dei quali ha intravisto Europa proprio al tempo delle macerie ancora fumanti dell’ultimo grande sterminio. Scriveva uno di quei giganti, Altiero Spinelli, nella Sua autobiografia – “Come ho tentato di diventare saggio” -: Assieme a questi pastori, fieri come principi e primitivi come selvaggi, per i quali il pasto fondamentale era sempre stato pane e formaggio, e la modesta vita di Ventotene appariva quasi sontuosa, c’erano una diecina di intellettuali che avevano studiato nelle più famose università d’Europa, parlavano tre o quattro lingue oltre le loro due ed erano stati confinati per aver tentato di organizzare una resistenza nazionale. Costoro stabilirono senza alcuna difficoltà buoni rapporti con i prigionieri italiani, sviluppando relazioni politicamente preferenziali, chi con i comunisti, chi con i giellisti, uno, Lazar Fundo, con me. Di Fundo sento il dovere di parlare qui (…). Era il più autorevole fra tutti gli albanesi, poiché aveva un’esperienza politica lunga e complessa, che mancava non solo ai pastori musulmani, ma anche agli intellettuali, i quali erano stati attratti solo di recente nella politica spinti dalla loro avversione per l’invasore fascista. Fundo era diventato comunista a Parigi durante i suoi studi universitari. Poiché alla sua fede si aggiungevano l’intelligenza e la conoscenza di non poche lingue, il suo impegno politico era andato oltre l’Albania, e quando Dimitrov era stato arrestato dopo l’incendio del Reichstag, Fundo era a Berlino come uno dei suoi collaboratori. Sfuggito all’arresto era rientrato a Mosca ove lavorava nell’Internazionale. Quando si aprì l’era delle grandi purghe, lui, fedele comunista, ma educato nell’atmosfera culturale libera dei paesi democratici e intellettualmente curioso, avendo frequentato non pochi degli oppositori di Stalin ed avendo provato una tal quale coperta simpatia per loro, fu sottoposto a lunghi e spossanti interrogatori da parte di una commissione della cistka del Comintern. (…). Vedeva come misteriosamente sparivano intorno a lui questo e quel compagno, comprese il pericolo che stava correndo e tenacemente negò sempre tutto quel che i suoi inquisitori insistevano a volergli fare ammettere, di aver cioè espresso il tale o tale proposito alla tale o tal altra persona. (…). Poiché seppe continuare a negare, l’inchiesta su di lui fu lasciata cadere. (…). A Ventotene si era avvicinato in modo naturale agli excomunisti, ai giellisti ed ai socialisti con i quali parlava sovente della perversione del regime di Stalin. Oppure passeggiava snello, dritto, bello con capelli biondi al vento, mormorando a bassa voce le parole di Platone che stava leggendo in greco, cercando presso i saggi antichi la serenità d’animo che il fallimento della sua esperienza comunista gli aveva tolta, e che non trovava da nessuna parte altrove”. Sulle gambe di quei giganti rinchiusi nel confino di Ventotene ha camminato Europa. Oggigiorno è sulle nostre gambe, di tutti, nessuno escluso, che camminerà Europa. Purché quelle gambe non siano le gambe di gnomi nani e ballerine. Alle urne!

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