"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 10 febbraio 2014

Storiedallitalia. 39 “Crisi addio, ora tutti ai Caraibi: lo dice Letta”.



Lo ricordate il Gianni Boncompagni, quello della “Bandiera gialla”? Allora andava forte la radio ed il Gianni faceva a quel tempo “audience”. Andò in onda, la “bandiera gialla” intendo dire, per la prima volta il 16 di ottobre dell’anno 1965. La TV aveva appena fatto capolino. Ed il buon Gianni la tirò tanto per le lunghe da fare l’ultima trasmissione il 9 di maggio dell’anno 1970. Il “boom” intanto aveva preso piede e la gente cominciava a sentirsi realizzata. E poi vennero i terribili anni ’70. Ora il buon Gianni si diletta a scrivere su “il Fatto Quotidiano” ed alla data del 4 di febbraio ha sfornato la noticina di costume, ma non solo, che propongo – “Crisi addio, ora tutti ai Caraibi: lo dice Letta” – : No, non è ottimismo sfrenato, è proprio la realtà dei fatti. Letta e i suoi la vedono così. L’hanno detto anche agli emiri: ormai è fatta: siamo a posto, ci manca giusto un mezzo punto e siamo praticamente come la Germania. Tre su tre arrivano a fine mese senza nessuna tribolazione, andiamo in vacanza a sciare, oppure ai Caraibi a prendere il sole, si cambia la macchina che ormai ha 50.000 chilometri, molti mangiano i tartufi anche se non sono i migliori, e se dobbiamo essere sinceri, solo qualcuno ce la fa a malapena ad arrivare alle fine del mese, anzi già al 28 hanno finito i soldi e non vanno neppure al cinema. Insomma ce l’abbiamo fatta anche ‘sta volta. Eppure pochi giorni fa sembrava che tutto stesse per crollarci addosso e invece ora basta guardare la faccia sorridente del nostro Letta per sentirci bene. Meno male. Vai a vedere che anche il Letta junior, l’ineffabile, abbia preso il morbo di dire fregnacce del tipo “i ristoranti sono pieni” e “gli aerei non ce la fanno a portare i nostri vacanzieri in giro per il mondo”? Non sia mai! Saremmo al delirio di potere! E la cosa non starebbe proprio bene! Anche perché in tanti stanno lì ad arricciare il naso. E, tanto per fare un esempio, c’è quel bel tipo che per nome fa Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria, che nella trasmissione "In mezz'ora" del piccolo mostro casalingo si è lasciato andare a dichiarazioni del tipo «I numeri, a partire dalle previsioni del Centro studi di Confindustria, fino ad ora sempre azzeccate, non ci permettono di guardare con ottimismo verso il futuro. La «Frazione di un punto (un aumento del Pil stimato dal governo per il 2014 tra lo 0,6 e lo 0,7% n.d.r.) che non basta a creare occupazione e a far ripartire il Paese». «Ritorneremo ai livelli pre-crisi solo nel 2021 se continuiamo con questo trend. Servono interventi per far ripartire l'economia. Per far tornare a crescere l'occupazione serve una crescita del 2% l'anno. Non pensiamo che sia possibile nel 2014». «O si cambia passo con il governo esistente o ad un certo punto andiamo a votare». Eppure quella di Giorgio Squinzi è una voce che conta. O no? E poi ci sono quelli che certe previsioni le fanno per mestiere. I cosiddetti tecnici. Uno come Marco Panara, che scrive per il settimanale economico-finanziario “Affari&Finanza”, il 27 di gennaio ha osato scrivere – “Ripresa? Non ci sarà senza l’industria” – ma non ditelo all’ineffabile: (…). …secondo quello che si coglie a Davos (…) la percentuale elevata di disoccupazione e sottoccupazione giovanile è percepita come non solo legata alla congiuntura negativa di questi anni ma invece strutturale. Ciò pone un problema enorme, per i giovani che entrano troppo tardi nel mondo del lavoro, e ancora più tardi in maniera stabile, e per l'intera società. Quei giovani avranno redditi mediamente più bassi per tutta la loro vita lavorativa e pensioni drammaticamente più basse. Li condanna a questa povertà relativa il fatto che se arrivano sulla soglia dei trent'anni senza che le imprese o essi stessi abbiano investito su di loro saranno scavalcati in carriera dalla generazione successiva. La società nel suo complesso, tenendo una quota rilevante delle nuove generazioni ai margini del mercato del lavoro, riduce la sua capacità di innovazione e distrugge una parte della crescita potenziale futura. Poiché il fenomeno è strutturale, la ragione che lo determina è più profonda dalla caduta del Pil di questi anni. È, cominciamo a capirlo, nella difficoltà di adattamento delle società al cambiamento rapido del modello di sviluppo. (…). L'esito è che una o più generazioni restano in mezzo a questo processo. Vale per la scuola, per i meccanismi del mercato, per l'organizzazione della società, per la scelta di quello che si produce e di come lo si produce. Le terapie non sono pronte né risolutive, tuttavia dal confronto internazionale emerge che nei Paesi nei quali la disoccupazione giovanile è meno drammatica, è più diffuso il bilinguismo ed è più intensa e strutturata l'interazione tra formazione e lavoro. Sono indicazioni da seguire. Ecco, è quel che si è fatto nei paesi nei quali la formazione e la cultura hanno mantenuto il loro posto privilegiato anche nei momenti più bui della “crisi” in atto. Anzi ed a maggior ragione si è guardato alla formazione, alla ricerca ed alla cultura come strumenti unici ed indispensabili per arricchire di nuovi e più alti tassi di innovazione tecnologica le produzioni manifatturiere a quant’altro potesse smuovere un mercato stagnante se non morente. A nessun politico o imprenditore degli altri paesi è mai passata per la mente l’insana idea che la cultura non possa essere elemento di stimolo e di traino per la fuoruscita dal lunghissimo tunnel di questi anni. E l’ineffabile sembra percorrere ancor oggi la strada sbagliata. Gira per il mondo “mendicando” investimenti e risorse per un progetto di paese che frana su di ogni fronte. Scrive ancora Marco Panara – lo avrà letto il “pezzo” l’ineffabile primo ministro? -: Il passaggio ulteriore è capire quale modello di sviluppo sta prendendo forma intorno a noi per adeguare rapidamente le nostre società alle sfide che pone. Questo modello non è ancora chiaro ma si cominciano a cogliere alcuni orientamenti. Il primo è il ruolo della manifattura: sta tornando dall'Asia il lavoro manifatturiero, (…). Il fenomeno si comincia a vedere in alcuni paesi, è una ottima notizia ma non basta per cambiare il trend. L'attività manifatturiera, anche dove cresce, non crea occupazione, al massimo assorbirà in alcuni settori parte di quella che viene espulsa da altri. (…). Tuttavia, soprattutto nelle economie mature, stanno cambiando i meccanismi di consumo. Anche qui un esempio: i cinquantenni di oggi tra le aspirazioni dei loro 18 anni avevano la macchina. I diciottenni di oggi all'auto pensano poco o nulla. I produttori di auto dovranno tenerne conto. Nella lista della spesa possibile o desiderata dei diciottenni di oggi occupano spazio viaggi e concerti, download di musica e film, happy hour e grandi mostre. Si spende più per fare che per comprare e questo vuol dire che aumenta lo spazio dei servizi, che devono essere sofisticati, avanzati e operare in mercati aperti. (…). Ecco il punto: invece delle solite diatribe dell’”antipolitica” – intesa come la pratica perdente di scacciare quella che è la politica buona al servizio del “bene comune” - quale idea di paese l’esecutivo del “rimando” ha pensato ed ha proposto ai suoi amministrati? Se ne ha notizia? Marco Panara: L'aumento delle disuguaglianze, (…), è legato a questa trasformazione del modello di sviluppo. La manifattura è sempre più ad alta intensità di capitale, che deve finanziare l'innovazione, la tecnologia e l'internazionalizzazione, quindi la quota delle ricchezza prodotta che va a remunerare il capitale è crescente. Nei servizi ad alto valore aggiunto, dalla finanza alla consulenza, la concentrazione dei redditi è fortissima, mentre al grosso dell'occupazione che è nei servizi a basso valore aggiunto di ricchezza ne va molto poca. Se a questo aggiungiamo l'effetto moltiplicatore della finanza per chi investe in essa i propri capitali si arriva alla situazione attuale caratterizzata da una concentrazione spaventosa della ricchezza e da disuguaglianza crescente. La quale crea problemi etici e sociali ma anche economici. I molti che hanno redditi troppo bassi non sono in grado di spendere abbastanza da tenere in piedi le nostre economie, mentre i relativamente pochi che guadagnano moltissimo riversano nell'economia reale solo una piccola parte dei redditi mentre il resto lo accumulano. La conseguenza di questo meccanismo è che all'economia reale non arriva abbastanza denaro da consentire una crescita stabile (non alimentata da bolle finanziarie o da liquidità artificiale) in una società stabile. Per questo a Davos se ne preoccupano. La soluzione però non l'hanno ancora trovata. Quelli che a Davos! E quelli che stanno nei palazzi del potere de’ noantri? L’ineffabile si è entusiasmato a quello 0,1 d’aumento del Pil nell’ultimo trimestre 2013. “Urca”! Anzi  “wow”, ché l’inglesismo è forse più facilmente recepibile e capito in un paese che ha saputo scarnificare il pensiero complesso come nessun altro al mondo.

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