Lo ricordate il Gianni
Boncompagni, quello della “Bandiera gialla”? Allora andava
forte la radio ed il Gianni faceva a quel tempo “audience”. Andò in onda,
la “bandiera
gialla” intendo dire, per la prima volta il 16 di ottobre dell’anno
1965. La TV aveva appena fatto capolino. Ed il buon Gianni la tirò tanto per le
lunghe da fare l’ultima trasmissione il 9 di maggio dell’anno 1970. Il “boom”
intanto aveva preso piede e la gente cominciava a sentirsi realizzata. E poi
vennero i terribili anni ’70. Ora il buon Gianni si diletta a scrivere su “il
Fatto Quotidiano” ed alla data del 4 di febbraio ha sfornato la noticina di
costume, ma non solo, che propongo – “Crisi
addio, ora tutti ai Caraibi: lo dice Letta” – : No, non è ottimismo sfrenato, è
proprio la realtà dei fatti. Letta e i suoi la vedono così. L’hanno detto anche
agli emiri: ormai è fatta: siamo a posto, ci manca giusto un mezzo punto e
siamo praticamente come la Germania. Tre su tre arrivano a fine mese senza
nessuna tribolazione, andiamo in vacanza a sciare, oppure ai Caraibi a prendere
il sole, si cambia la macchina che ormai ha 50.000 chilometri,
molti mangiano i tartufi anche se non sono i migliori, e se dobbiamo essere
sinceri, solo qualcuno ce la fa a malapena ad arrivare alle fine del mese, anzi
già al 28 hanno finito i soldi e non vanno neppure al cinema. Insomma ce
l’abbiamo fatta anche ‘sta volta. Eppure pochi giorni fa sembrava che tutto
stesse per crollarci addosso e invece ora basta guardare la faccia sorridente
del nostro Letta per sentirci bene. Meno male. Vai a vedere che anche
il Letta junior, l’ineffabile, abbia preso il morbo di dire fregnacce del tipo “i
ristoranti sono pieni” e “gli aerei non ce la fanno a portare i
nostri vacanzieri in giro per il mondo”? Non sia mai! Saremmo al
delirio di potere! E la cosa non starebbe proprio bene! Anche perché in tanti
stanno lì ad arricciare il naso. E, tanto per fare un esempio, c’è quel bel
tipo che per nome fa Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria, che nella
trasmissione "In mezz'ora" del piccolo mostro casalingo si è
lasciato andare a dichiarazioni del tipo «I numeri, a partire dalle previsioni del
Centro studi di Confindustria, fino ad ora sempre azzeccate, non ci permettono
di guardare con ottimismo verso il futuro. La «Frazione di un punto (un
aumento del Pil stimato dal governo per il 2014 tra lo 0,6 e lo 0,7% n.d.r.) che
non basta a creare occupazione e a far ripartire il Paese». «Ritorneremo
ai livelli pre-crisi solo nel 2021 se continuiamo con questo trend. Servono
interventi per far ripartire l'economia. Per far tornare a crescere
l'occupazione serve una crescita del 2% l'anno. Non pensiamo che sia possibile
nel 2014». «O si cambia passo con il governo esistente o ad un certo punto andiamo
a votare». Eppure quella di Giorgio Squinzi è una voce che conta. O no?
E poi ci sono quelli che certe previsioni le fanno per mestiere. I cosiddetti
tecnici. Uno come Marco Panara, che scrive per il settimanale economico-finanziario
“Affari&Finanza”, il 27 di gennaio ha osato scrivere – “Ripresa? Non ci sarà senza l’industria” – ma non ditelo
all’ineffabile: (…). …secondo quello che si coglie a Davos (…) la percentuale elevata
di disoccupazione e sottoccupazione giovanile è percepita come non solo legata
alla congiuntura negativa di questi anni ma invece strutturale. Ciò pone un
problema enorme, per i giovani che entrano troppo tardi nel mondo del lavoro, e
ancora più tardi in maniera stabile, e per l'intera società. Quei giovani
avranno redditi mediamente più bassi per tutta la loro vita lavorativa e
pensioni drammaticamente più basse. Li condanna a questa povertà relativa il
fatto che se arrivano sulla soglia dei trent'anni senza che le imprese o essi
stessi abbiano investito su di loro saranno scavalcati in carriera dalla
generazione successiva. La società nel suo complesso, tenendo una quota
rilevante delle nuove generazioni ai margini del mercato del lavoro, riduce la
sua capacità di innovazione e distrugge una parte della crescita potenziale
futura. Poiché il fenomeno è strutturale, la ragione che lo determina è più
profonda dalla caduta del Pil di questi anni. È, cominciamo a capirlo, nella
difficoltà di adattamento delle società al cambiamento rapido del modello di
sviluppo. (…). L'esito è che una o più generazioni restano in mezzo a questo
processo. Vale per la scuola, per i meccanismi del mercato, per
l'organizzazione della società, per la scelta di quello che si produce e di
come lo si produce. Le terapie non sono pronte né risolutive, tuttavia dal
confronto internazionale emerge che nei Paesi nei quali la disoccupazione
giovanile è meno drammatica, è più diffuso il bilinguismo ed è più intensa e
strutturata l'interazione tra formazione e lavoro. Sono indicazioni da seguire.
Ecco, è quel che si è fatto nei paesi nei quali la formazione e la
cultura hanno mantenuto il loro posto privilegiato anche nei momenti più bui
della “crisi” in atto. Anzi ed a maggior ragione si è guardato alla
formazione, alla ricerca ed alla cultura come strumenti unici ed indispensabili
per arricchire di nuovi e più alti tassi di innovazione tecnologica le
produzioni manifatturiere a quant’altro potesse smuovere un mercato stagnante
se non morente. A nessun politico o imprenditore degli altri paesi è mai
passata per la mente l’insana idea che la cultura non possa essere elemento di
stimolo e di traino per la fuoruscita dal lunghissimo tunnel di questi anni. E
l’ineffabile sembra percorrere ancor oggi la strada sbagliata. Gira per il
mondo “mendicando” investimenti e risorse per un progetto di paese
che frana su di ogni fronte. Scrive ancora Marco Panara – lo avrà letto il “pezzo”
l’ineffabile primo ministro? -: Il passaggio ulteriore è capire quale
modello di sviluppo sta prendendo forma intorno a noi per adeguare rapidamente
le nostre società alle sfide che pone. Questo modello non è ancora chiaro ma si
cominciano a cogliere alcuni orientamenti. Il primo è il ruolo della
manifattura: sta tornando dall'Asia il lavoro manifatturiero, (…). Il fenomeno
si comincia a vedere in alcuni paesi, è una ottima notizia ma non basta per
cambiare il trend. L'attività manifatturiera, anche dove cresce, non crea
occupazione, al massimo assorbirà in alcuni settori parte di quella che viene
espulsa da altri. (…). Tuttavia, soprattutto nelle economie mature, stanno
cambiando i meccanismi di consumo. Anche qui un esempio: i cinquantenni di oggi
tra le aspirazioni dei loro 18 anni avevano la macchina. I diciottenni di oggi
all'auto pensano poco o nulla. I produttori di auto dovranno tenerne conto.
Nella lista della spesa possibile o desiderata dei diciottenni di oggi occupano
spazio viaggi e concerti, download di musica e film, happy hour e grandi
mostre. Si spende più per fare che per comprare e questo vuol dire che aumenta
lo spazio dei servizi, che devono essere sofisticati, avanzati e operare in
mercati aperti. (…). Ecco il punto: invece delle solite diatribe dell’”antipolitica”
– intesa come la pratica perdente di scacciare quella che è la politica buona
al servizio del “bene comune” - quale idea di paese l’esecutivo del “rimando”
ha pensato ed ha proposto ai suoi amministrati? Se ne ha notizia? Marco Panara:
L'aumento
delle disuguaglianze, (…), è legato a questa trasformazione del modello di
sviluppo. La manifattura è sempre più ad alta intensità di capitale, che deve
finanziare l'innovazione, la tecnologia e l'internazionalizzazione, quindi la
quota delle ricchezza prodotta che va a remunerare il capitale è crescente. Nei
servizi ad alto valore aggiunto, dalla finanza alla consulenza, la
concentrazione dei redditi è fortissima, mentre al grosso dell'occupazione che
è nei servizi a basso valore aggiunto di ricchezza ne va molto poca. Se a
questo aggiungiamo l'effetto moltiplicatore della finanza per chi investe in
essa i propri capitali si arriva alla situazione attuale caratterizzata da una
concentrazione spaventosa della ricchezza e da disuguaglianza crescente. La
quale crea problemi etici e sociali ma anche economici. I molti che hanno
redditi troppo bassi non sono in grado di spendere abbastanza da tenere in
piedi le nostre economie, mentre i relativamente pochi che guadagnano
moltissimo riversano nell'economia reale solo una piccola parte dei redditi
mentre il resto lo accumulano. La conseguenza di questo meccanismo è che
all'economia reale non arriva abbastanza denaro da consentire una crescita
stabile (non alimentata da bolle finanziarie o da liquidità artificiale) in una
società stabile. Per questo a Davos se ne preoccupano. La soluzione però non
l'hanno ancora trovata. Quelli che a Davos! E quelli che stanno nei
palazzi del potere de’ noantri? L’ineffabile si è entusiasmato a quello 0,1
d’aumento del Pil nell’ultimo trimestre 2013. “Urca”! Anzi “wow”, ché l’inglesismo è forse più
facilmente recepibile e capito in un paese che ha saputo scarnificare il
pensiero complesso come nessun altro al mondo.
Nessun commento:
Posta un commento