La cosa che stupisce assai è che
Matteo e Beppe possano piacere al contempo. E che questa rivelazione o scoperta
da contezza della intuita mancata crescita di un pubblico che poi si reca alle
urne e determina risultati elettorali strabilianti, come quelli della ultima
votazione per le politiche. Strabilianti nel senso che diviene difficilissimo
trovarci una ragione, un umore, un senso che sia, donde ne deriva l’indecoroso
scenario di un paese che si barcamena nell’eterno “vogliamoci bene” o
peggio ancora del “tengo famiglia”. Da un buonismo da strapazzo e da un familismo
amorale non c’è che attendersi risultati del genere, ovvero che Matteo e Beppe
possano piacere allo stesso tempo. Ed ho potuto constatarlo chiacchierandone
amorevolmente con giovani cittadini elettori che sono cresciuti e sono vissuti
all’ombra dei moderni partiti “personali” o “padronali”. E la vicenda
dello streaming ne è la prova lampante. A sorreggermi nella personale
convinzione che ci sia un oscillare a fasi alterne, confuso, poco ragionato,
frutto di quella che vado da tempo definendo la “scarnificazione del pensiero” collettivo,
del pendolo del consenso tra i due punti estremi presi in considerazione –
Matteo e Beppe – è stata la lettura della acuta analisi – “Due generazioni allo streaming” – che Massimo Recalcati ha fatto sul
quotidiano la Repubblica dopo la sceneggiata che passerà alla storia come lo
scontro dello streaming. Ed è avvenuto che in quella amorevole chiacchierata il
pendolare del consenso ora verso l’uno ora verso l’altro mi ha dato la misura
della scomparsa dall’orizzonte di quella idea di partito o di partiti che hanno
concorso a sorreggere le nostre certezze giovanili, i nostri sogni e le nostre
idealità per essere sostituita, quell’idea, da una rappresentazione della
politica – si veda il caso della defenestrazione di Enrico Letta avvenuta fuori
dal parlamento o si veda il caso delle espulsioni dei recalcitranti onorevoli
M5S decise dai padroni della piattaforma web – che non potrà in alcun modo
concorrere alla realizzazione di una democrazia più matura e più compiuta. Ha
scritto Massimo Recalcati, che è uno psicoterapeuta di scuola lacaniana, nella
Sua analisi: (…). …l’attimo che costituisce il focus di tutta la scena è quando
Grillo dà del “ragazzo” al Presidente incaricato. Soffermiamoci un momento su
questo passaggio ai miei occhi decisivo. «Sei solo un ragazzo, certe cose non
le sai, lascia fare a me che ho quarant’anni di esperienza». Questo, più che la
dichiarazione di non essere democratico, che non ha stupito nessuno, deve
davvero colpire. Ma come? Un leader che ha saputo mobilitare con forza i
giovani restituendo a loro il sogno del cambiamento, si rivolge al Presidente
incaricato definendolo con tono chiaramente paternalistico e, insieme, come
spesso accade a chi assume toni paternalistici, dispregiativo. Questo è un
punto di grande interesse clinico nel dialogo tra i due, o, meglio, nel
monologo soverchiante di Grillo. Chi viene chiamato ragazzo è un uomo di 39 anni,
padre di tre figli, capace di assumersi responsabilità istituzionali enormi, di
guidare una grande città e un grande partito. Chiamarlo “ragazzo” non svela
solo una megalomania di fondo del leader del M5S, ma manifesta inconsciamente
il fantasma padronale che lo anima profondamente. Questo padre dichiara che non
ha tempo da perdere per discutere coi figli. Non solo coi figli d’altri - tale
è Matteo Renzi -, il che potrebbe anche essere plausibile, ma nemmeno con i
propri. Per questo usa il mandato ricevuto democraticamente dal suo popolo per
fare uno show che sarebbe semplicemente fuori luogo se non avesse una ricaduta
politica che coinvolge fatalmente le sorti del nostro paese. «Sei solo un
ragazzo!», urla il padre orco a chi immagina non sia degno di interloquire con
lui. «Sei solo un ragazzo, taci! Lascia che parli Io!». Quante volte abbiamo
ascoltato dai nostri pazienti questa rappresentazione sadicamente autoritaria
della paternità. “Sei solo un ragazzo!” è sempre il pensiero inconscio (o
conscio?) del padre-padrone che nutre nel profondo di se stesso un odio
radicale della giovinezza e che mostra con orgoglio di fronte all’entusiasmo di
chi comincia una nuova avventura («ti spiego cosa vorremmo fare» prova a dire
Matteo Renzi) le medaglie che gli danno il diritto di oscurare la parola del
suo giovane interlocutore («Taci! Ho quarant’anni di esperienza più di te!»).
(…). Da buon padre-padrone travestito da adolescente rivoltoso, Grillo ha
rivelato pubblicamente non solo la sua estraneità nei confronti delle
consuetudini e delle regole democratiche, ma il fatto che può fare quello che
vuole della volontà del suo stesso popolo costituito, in gran parte, di
“ragazzi”. Vogliono che vada a discutere di politica e di programmi con Renzi
per provare a dare una mano per salvare il nostro paese? Sono solo dei ragazzi,
non hanno quarant’anni di esperienza. Lasciate fare a me. Lasciate che sia io a
mostrarvi come me ne fotto della democrazia. (…). E questo solo per
dire di quel Beppe del quale non ho mai nutrito stima o considerazione alcuna.
Un padre-padrone che finge l’ascolto dei più giovani ma che non rinuncia ad
essere il “dominus” indiscusso ed incontrastato. E volendo non essere
troppo di parte mi corre l’obbligo di sottoporre alla cortese vostra attenzione
qualcosa che riguarda l’altro polo di oscillazione del pendolo del cosiddetto
consenso, quel Matteo che, a detta dell’antropologa Amalia Signorelli -
intervistata da Antonello Caporale per “il Fatto Quotidiano” - “Fate attenzione, è un baby Berlusconi”:
(…).
“Comprendo che sia venuto il momento di imboccare una via d’uscita, tentare
almeno di intravederla. L’analisi dei disastri italiani conta una grandissima
bibliografia e non se ne può più. Siamo stanchi dei nostri difetti, della
nostra precaria etica pubblica, dei nostri scandali. Ed è anche vero che
specialmente noi intellettuali subiamo il costante pessimismo,
l’insoddisfazione perenne. E sto zitta quando mi dicono: finalmente questo
Renzi è un portatore sano di energia, è giovane, ha la linfa vitale e ci
prospetta un futuro senza i vincoli, i retaggi del passato. È un fenomeno
politico da osservare con attenzione, non c’è dubbio”.
Da quel che intuisco adesso
arriva la mazzata che lo annienta. “Ah ah! Il fatto, semplice e insieme
straordinario, è che ancora non abbiamo capito nulla dei programmi. Queste
riforme mensili oggettivamente fanno ridere per la loro banalità, la
superficialità e anche l’inadeguatezza di un tempo di gestazione così modesto.
E la squadra di governo che ha formato non appare affatto monumentale. E se
tutto questo è vero affidiamo a lui la salvezza in virtù di cosa?”.
È il governo del Ghe Renzi mì, un
po’ come successe con Berlusconi. E ci sono modalità espressive di una
personalità straripante che lo fanno assurgere almeno come un “vice unto del
Signore”. “Concordo col suo pensiero. E mi pare che Renzi abbia subìto così
densamente l’egemonia culturale berlusconiana da vederlo nutrito
prevalentemente di quella”.
È andato alla Ruota della
Fortuna, ha gareggiato con Mike di fronte! “Uno che va alla Ruota della fortuna
conferma la sua attrazione per quel modello di successo, che passa dalla
televisione, e che si fa modello di vita”.
Il ventennio berlusconiano non si
chiude mai. Davvero siamo a un clone? “Mi faccia fare un passo indietro. Non mi
è piaciuta neanche un po’ la conduzione della crisi da parte del presidente
Napolitano. Perché tenerla fuori dalle aule del Parlamento? Perché farla
gestire nei sotterranei di un partito? Perché dare a lui ciò che non si è
concesso agli altri?. Ora vengo alla sua domanda. Mi dicono che Renzi innova, e
cosa innova?”.
Non le sembra già tanto che abbia
rotto gli schemi, abbia prosciugato la palude, abbia disarticolato un potere
immobile: “Non contesto, però riduciamo la portata della dimensione della
rottura. Finora ha contrattato i posti con Alfano e Schifani. Ha inchiodato
Berlusconi a una profonda sintonia. Mi dia ancora qualche giorno di dubbio
sull’annunciata palingenesi, credo proprio di meritarlo”.
Non le garba il nuovo presidente
del Consiglio. “Bah! Diciamo che Renzi ha ottenuto una primazia conquistata con
le armi tipiche delle società post-moderne: alla visibilità è corrisposto il
successo, al successo il consenso. I fattori dovrebbero invece avere un ordine
diverso: illustro le mie idee, guadagno il consenso e poi ottengo il successo.
Prima c’era l’ideale come carattere collettivo. Si stava col Pci, non con
Togliatti. E si poteva cambiare l’Italia solo stando in quel partito. Oggi
esiste l’unica proiezione individuale: non c’è gruppo, comunità, partito. Ieri
si combatteva per una causa oggi per una persona. E così siamo giunti alla fine
senza conoscere l’inizio, abbiamo applaudito il film senza averlo visto. Ci è
bastata una suggestione, una promessa, una intuizione”.
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