Tratto da “Equità,
welfare e Keynes: la ricetta della Svezia dove solo il 2% è diventato più
povero” di Federico Rampini, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 15
di agosto dell’anno 2016: (…). Il Rapporto del McKinsey Global
Institute sull'impoverimento generazionale, (…), esalta il modello scandinavo
come antidoto alla regressione del tenore di vita che affligge le economie più
avanzate. E mette il nostro paese all'indice, il peggiore di tutto l'Occidente
per la performance economica misurata nell'arco di un decennio. "Ad una
estremità c'è l'Italia dove i redditi sono rimasti fermi o sono diminuiti per
la quasi totalità della popolazione. Al polo opposto c'è la Svezia dove solo il
20% della popolazione ha avuto i propri redditi bloccati o ridotti". Così
si legge nella recente indagine intitolata "Poorer than their parents? A
new perspective on income inequality" (Più poveri dei genitori? Una nuova
prospettiva sull'ineguaglianza dei redditi). Questa citazione si riferisce
peraltro ai "redditi di mercato", cioè prima di calcolare l'impatto
degli ammortizzatori sociali, delle tasse, di tutte le politiche pubbliche sui
bilanci delle famiglie. Quel che interessa ancora di più, è il risultato finale
in tasca ai cittadini, sono i "redditi disponibili": quelli che
rimangono dopo l'intervento del fisco e l'eventuale aiuto del Welfare. Ebbene,
alla fine il divario tra Svezia e Italia si accentua ancora di più. Il ristagno
o impoverimento decennale passa dal 97% fino a quasi il 100% degli italiani.
Mentre per gli svedesi si scende dal 20% al 2% della popolazione "bloccata
o impoverita". Eppure tutti i paesi esaminati nell'indagine (Nordamerica
ed Europa occidentale) hanno subito lo stesso shock esterno: dopo la crisi
finanziaria globale del 2008 il Pil si è ridotto in tutte le economie senza
eccezione. Il Rapporto McKinsey è molto dettagliato su ciò che fa la differenza
tra i due estremi di Italia e Svezia. Il modello svedese si fonda su una serie
di ricette originali. A cominciare dai rapporti di forze sociali. "Il 68%
dei lavoratori svedesi sono sindacalizzati", un record in tutto
l'Occidente. Questo li ha resi capaci di spostare in loro favore la
distribuzione nazionale del reddito, la ripartizione della "torta"
fra profitti e salari. È un tema centrale, perché nell'insieme dell'Occidente
questo è un periodo dominato da una dinamica del tutto opposta: "I
profitti delle imprese sono saliti ai livelli record dagli ultimi tre decenni,
+30% rispetto al 1980". Torna in primo piano la battaglia distributiva,
che era stata al centro dell'attenzione negli anni Settanta, poi fu contrastata
dal liberismo che dava la priorità alla crescita. Da Ronald Reagan e Margaret
Thatcher in poi, si è imposto il dogma secondo cui non conta la diseguaglianza
tra i ricchi e il resto della società, perché "quando sale la marea alza
tutti i battelli, grandi e piccoli". Più di trent'anni dopo, lo studioso
delle diseguaglianze Thomas Piketty sconfigge il padre del neoliberismo Milton
Friedman. Un eccesso di diseguaglianze contribuisce alla "stagnazione
secolare", bloccando la crescita. Lo stesso Rapporto McKinsey è generoso
di riconoscimenti verso Piketty: a conferma che ormai l'attenzione alle
diseguaglianze è trasversale, non è un tema "ideologico". (La società
McKinsey, nota soprattutto per le consulenze d'impresa, non ha fama di essere
un think tank radicale). Il modello Svezia, (…), contiene vari altri
ingredienti che si riconducono all'importanza dell'intervento pubblico. Sono
state messe in opera "normative per proteggere i salari". Dopo la
crisi finanziaria globale il governo svedese "ha operato d'intesa con i
sindacati per raggiungere accordi di riduzione temporanea degli orari di
lavoro, in alternativa ai licenziamenti, in modo da mantenere alti livelli di
occupazione". Sono state "aumentate le assunzioni con contratti a
tempo determinato nei servizi pubblici", sempre al fine di contrastare
l'aumento della disoccupazione. "Sono stati ridotti gli oneri sociali e il
cuneo fiscale per le imprese. Sono stati offerti incentivi fiscali per le
assunzioni di giovani e disoccupati di lungo periodo". (…). Le lezioni
dalla Svezia comunque non mancano; insieme con le difficoltà ad esportarle da
Stoccolma a Roma. Da una parte il "paradiso svedese" è la conferma
della bontà delle ricette keynesiane: in una recessione o in una prolungata
stagnazione, lo Stato è l'unico ad avere la capacità di rianimare un'economia
esangue. La Svezia ha più autonomia nel decidere politiche di bilancio
neo-keynesiane, in quanto non fa parte dell'Eurozona e quindi non è sottoposta
alle stesse rigidità (rifiutò di entrare nell'euro con il referendum del 2003).
La Svezia parte anche da una situazione di bilancio molto più florida della
nostra: il suo debito pubblico era inferiore al 40% del Pil prima della grande
crisi, è aumentato da allora, ma rimane ben inferiore ai livelli italiani. Ha
un'evasione fiscale tra le più basse del mondo; e una spesa pubblica
notoriamente efficiente, poco viziata da clientelismi e sprechi. Un modello
davvero, in tutti i sensi.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".
mercoledì 15 agosto 2018
martedì 14 agosto 2018
Sullaprimaoggi. 15 “«La propensione della finanza a delinquere»”.
Tratto da “Dieci
anni dopo: così la crisi ha diviso il mondo” di Federico Rampini,
pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 9 di agosto dell’anno 2017: (...). La finanza domina il mondo più che mai, anche grazie ad un'alleanza di ferro
con i giganti delle tecnologie digitali. Inoltre la Grande Crisi ci ha lasciato
in eredità una svolta politica inaudita. Donald Trump non sarebbe alla Casa
Bianca, se quella maxi-recessione non avesse generato disastri economici,
sofferenza sociale, un profondo senso di ingiustizia mescolato a risentimento,
che il populismo di destra ha cavalcato con efficacia. L'antefatto? La crescita
americana era già segnata dalle diseguaglianze sociali (una patologia in
peggioramento costante da 30 anni); classe operaia e ceto medio faticavano a
mantenere il tenore di vita. Il sistema bancario "curò" quegli
squilibri a modo suo: speculandoci sopra. Wall Street facilitò l'accesso alla
casa in modo scriteriato. Mutui ad alto rischio venivano concessi a debitori in
situazioni precarie, che al primo shock congiunturale sarebbero diventati
insolventi. I banchieri si disinteressavano degli enormi rischi accumulati,
spalmandoli sul mercato, nascondendoli dentro complicati titoli strutturati.
Sullo sfondo, altri macro-squilibri: l'eccesso di risparmio in paesi
esportatori come Cina e Germania, protagonisti di un vasto
"riciclaggio" dei surplus commerciali. Episodi di iperinflazione
delle materie prime. In un clima torbido, con controlli inadeguati e conflitti
d'interessi a gogò, arrivò il Dies Irae: prima il crac di alcuni fondi
immobiliari Bnp (9 agosto 2007), qualche mese dopo l'insolvenza di Bear
Stearns, un anno dopo il crac di Lehman. Una spirale di panico, seguita dal
contagio all'economia reale in tutto l'Occidente. Si salvò solo la Cina,
irrobustendo il dirigismo di Stato. Dieci anni dopo, il paesaggio sembra
irriconoscibile. L'economia americana è nell'ottavo anno di crescita
consecutiva, il pieno impiego è vicino. Eppure l'8 novembre ha prevalso la
narrazione trumpiana su un paese allo sfascio. Il candidato più catastrofista
della storia ha conquistato i voti dei metalmeccanici, i cui posti di lavoro
erano stati salvati da Barack Obama. Una volta al potere, Trump ha riempito la
sua Casa Bianca di uomini (e una donna) della Goldman Sachs. E sta lavorando
per smantellare i controlli su Wall Street introdotti dal suo predecessore, la
legge Dodd-Frank. Le banche si riconquistano un pezzo alla volta la libertà di
far danno. Non che fossero veramente rinsavite negli ultimi anni. Malgrado le
multe miliardarie la propensione della finanza a delinquere non è diminuita:
alcuni degli scandali più gravi (come la manipolazione del Libor di Londra)
sono avvenuti diversi anni dopo il 2007. Dalla Deutsche Bank alla Popolare di
Vicenza e Banca Etruria, l'Europa non si è dimostrata migliore. Certo alcune
falle del sistema sono state tappate, i requisiti di capitalizzazione (leggi:
solidità) delle banche sono più severi. Tuttavia Obama dovette ammettere che
"nessun banchiere è finito in prigione" per i disastri del 2009, e la
causa la indicò nelle leggi sbagliate, piegate agli interessi delle lobby. (...). Le élite
progressiste sono apparse troppo spesso organiche agli interessi della finanza.
Fu proprio questa una scintilla iniziale dell'ondata di populismo. Precursore
di Trump fu il Tea Party. Movimento radicale di una destra anti-tasse e
anti-Stato, nacque nel 2009 per protestare contro il maxi- salvataggio delle
banche di Wall Street: 800 miliardi sborsati dai contribuenti. È vero che
quell'operazione si saldò in pareggio e perfino con un piccolo guadagno per le
finanze pubbliche, molti anni dopo. Ma nel 2008-2009 ci fu un'ecatombe di
piccole imprese, una carneficina di posti di lavoro, e con loro lo Stato non fu
così solerte e generoso. Poi arrivò una terapia d'eccezione: il
"Quantitative easing" della banca centrale, quando la Federal Reserve
comprò titoli in quantità enormi per inondare l'economia di credito a buon
mercato. Un'alluvione da 4.000 miliardi solo negli Stati Uniti; in ritardo, la
ricetta fu copiata dalla Bce. Ha funzionato a metà. La crescita rimane
"sub-ottimale", nettamente inferiore rispetto all'Età dell'Oro tra
gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta. La finanza continua a esercitare un peso
eccessivo, prelevando rendite parassitarie dall'economia reale. Il mondo
galleggia sulla liquidità creata dalle banche centrali. Gli stessi Padroni
della Rete, le "cinque sorelle" Facebook, Apple, Amazon, Netflix,
Google privilegiano la finanza sull'innovazione. (Le diseguaglianze più estreme
si registrano proprio nella Silicon Valley). Ci sono gli ingredienti di una
stagnazione secolare perché si sono guastati i motori storici dello sviluppo
capitalistico: demografia, diffusione di potere d'acquisto, progresso della
produttività, decollo di paesi emergenti. E ora che i repubblicani al potere a
Washington lanciano ai banchieri il segnale del "liberi tutti" con la
deregulation finanziaria, un nuovo incidente non è davvero da escludere.
lunedì 13 agosto 2018
Riletture. 06 “La «stagnazione secolare», «la farfalla e i kalashnikov»”.
Tratto da “La farfalla e i kalashnikov” di Massimo Fini, pubblicato su “il
Fatto Quotidiano” del 13 di agosto dell’anno 2011: (…). Una volta si diceva che il
battito d’ali di una farfalla in Giappone poteva provocare una catastrofe
nell’emisfero opposto. Era un’iperbole per esprimere il concetto che
l’eco-sistema-Terra è integrato e ogni sua componente è interdipendente. Un
battito d’ali di farfalla sposta dell’aria che muove un moscerino che cambia la
sua traiettoria e quella di un passero che gli faceva la posta e così via.
Rimaneva comunque un’iperbole perché la forza d’attrito a un certo punto
spezzava queste concatenazioni. Nel mondo globale invece l’iperbole si è
realizzata in economia, attraverso il denaro che, essendo virtuale, non conosce
l’attrito. Enormi masse di denaro si spostano ogni giorno, ogni ora, ogni
minuto da una parte all’altra del mondo senza trovare ostacoli. In un mondo
integrato e globale il battito d’ali di una farfalla americana, per restare
alla nostra metafora, può avere conseguenze devastanti in ogni angolo del
pianeta. Ne restano fuori solo quelle popolazioni, ormai delle mosche bianche,
che, o per rifiuto consapevole o per altro, non sono entrate nel mercato
internazionale (certamente gli indigeni delle Isole Andemane possono farsi un
baffo di questi tsunami monetari). Lo abbiamo visto con la crisi dei “subprime”
americani del 2008 che è rimbalzata in Europa provocando il default
dell’Irlanda e della Grecia e che poi, come un’onda di ritorno, ha colpito di
nuovo gli Stati Uniti mentre in Europa le defaillances irlandese e greca hanno
intaccato il Portogallo, la Spagna, hanno aggredito l’Italia e domani,
probabilmente, tutto il vecchio continente. Ma il contraccolpo colpisce anche i
paesi cosiddetti emergenti dell’Asia. La cosa più inquietante, anzi disperante,
è il senso di impotenza che dà questo sistema. Nessuno, individuo o Stato, è
più arbitro del proprio destino. Tu puoi aver lavorato una vita, con fatica e
con coscienza, e basta un battito d’ali in una qualsiasi parte del mondo per
distruggere, d’un colpo, il tuo lavoro, la tua fatica, i tuoi risparmi (che
sono “forza-lavoro”, energia tesaurizzata e messa da parte). Ma le leadership
mondiali si ostinano a parare ogni nuova crisi immettendo nel sistema altro
denaro inesistente (nel senso che non corrisponde a nulla, questo è il senso
dell’innalzamento legale del debito pubblico americano, che è come se uno che
ha tutti i parametri del sangue sballati decidesse di essere guarito perché li
ha portati a un livello più alto) che va ad aumentare lo tsunami della massa
monetaria che, al prossimo colpo, si abbatterà su di noi con una violenza ancor
più devastante. Finché, fra non molto, arriverà il colpo del ko che nessun
trucchetto contabile riuscirà a mascherare. Possibile che sia così difficile da
capire che non dobbiamo più crescere ma decrescere, che non dobbiamo
modernizzare ma smodernizzare, che dobbiamo allentare la morsa
dell’integrazione globale? Il mondo occidentale (inteso in senso lato perché
ormai quasi tutti i paesi sono coinvolti nel modello di sviluppo a crescita
esponenziale partito dall’Europa, in Inghilterra, a metà del XVIII secolo) si
rifiuta di capire, perché considera irrinunciabili gli standard di benessere
acquisiti. E allora si droga di denaro. Non comprende che se non pilota una
decrescita graduale di questo benessere lo perderà tutto d’un colpo per quanti
sacrifici, e massacri, possa pretendere dalle popolazioni. Quando la gente
delle città, crollato il sistema del denaro, si accorgerà che non può mangiare
l’asfalto e bere il petrolio, si riverserà alla ricerca di cibo nelle campagne
dove si saranno rifugiati i più previdenti, provvedendosi dell’autosufficienza
alimentare oltre che di un buon numero di kalashnikov per respingere queste
masse di disperati.
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