Da “Minzolotti”
di Marco Travaglio, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 17 di marzo 2017: Tecnicamente,
quello inscenato ieri in Senato da Pd, Forza Italia e frattaglie varie è un
atto eversivo, un abuso di potere, un colpo di Stato contro la Costituzione,
svuotata di uno dei suoi principi cardine: l’uguaglianza di tutti i cittadini
di fronte alla legge. Un golpe nero che abolisce lo Stato di diritto e
legittima l’arbitrio del più arrogante, torcendo in senso antidemocratico la
regola delle democrazie parlamentari fondate sulla maggioranza. (…). Sette mesi
fa l’ex direttore del Tg1 è stato condannato in via definitiva a 2 anni e 6
mesi per peculato nel processo sulle spese personali pagate con la carta di
credito della Rai. E una legge dello Stato, la Severino, approvata nel 2012 da
tutti i partiti, stabilisce che i parlamentari condannati a più di 2 anni decadono
ipso facto dal seggio, rimpiazzati dal primo dei non eletti: il voto della
Camera di appartenenza è una semplice presa d’atto della sentenza e delle
conseguenze, senz’alcun margine di discrezionalità (come il Pd sbandierava ai
quattro venti nel 2013, quando cacciò B. da Palazzo Madama). Dunque da sette
mesi Minzolini incassa stipendi e accumula contributi pensionistici abusivi. E,
col voto di ieri, continuerà a farlo sedendo sullo scranno di un altro: le sue
dimissioni sono fumo negli occhi, visto che non scatteranno finché non saranno
approvate dall’aula, che di solito le respinge (almeno al primo scrutinio).
Campa cavallo: intanto finirà la legislatura. (…). …quanto accaduto ieri è
molto (…) grave: nel ’93 spettava al Parlamento valutare il fumus persecutionis
per dare o negare l’autorizzazione a procedere, oggi la decadenza di un
pregiudicato è automatica. La Severino non piace ai partiti che 5 anni fa la
votarono? La aboliscano e se ne assumano la responsabilità. Non vogliono che i
politici delinquenti vengano indagati? Ripristinino l’autorizzazione a
procedere e ne paghino le conseguenze. Quello che non possono fare è calpestare
una legge dello Stato nella stessa aula che l’aveva approvata; porsi al di
sopra delle (loro) regole; e rivendicare il diritto di farlo ogni volta che
vogliono con la forza dei numeri del neonato Forza Pd (peraltro falsati da una
legge elettorale incostituzionale). Magari la reazione non sarà la violenza
evocata da Di Maio, né la gente in piazza (per mancanza di stampa libera). Ma
il re è nudo. Chi l’altroieri straparlava di “innocenza fino a condanna
definitiva” ieri ha salvato un condannato in via definitiva. Chi si illudeva di
arginare l’avanzata dei “barbari” le ha spalancato le porte. E chi strillava
alla “gogna” ci ha infilato spontaneamente la testa. Se nessuno tira le
monetine, è solo perché la gente le ha finite, o teme che lorsignori si
freghino pure quelle.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".
venerdì 17 marzo 2017
giovedì 16 marzo 2017
Cronachebarbare. 43 “Quelli che si auto-sospendono”.
Quelli che si auto-sospendono. Quelli
che rappresentano il distillato meglio riuscito di quella “casta” di politici
che infestano, come la peggiore gramigna, le ubertose contrade del bel paese. Quelli
che han perso il decoro della funzione e gettano a palate il discredito sulla politica
“tout court”. Quelli che aggrappati ai loro scranni pensano di dover rispondere
ai loro facilitatori. Quelli che del popolo sovrano se ne fanno, come suol
dirsi, un baffo. Quelli che per i quali non ci sono risultati di elezioni o risultati
di referendum che li faccia retrocedere dal loro mal-costume, tanto in essi
risulta inveterata l’albagia dei potenti, degli arroganti per consolidato mestiere.
Scriveva Francesco Merlo in “Dimissioni”
pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 14 di febbraio dell’anno 2013: (…).
Le dimissioni (…) salvaguardano l’Istituzione, stabiliscono la differenza tra
l’Istituzione e il suo funzionario, tra la Chiesa e il papa, tra il Regno e il
re, tra la Repubblica e il presidente, tra la Banca e il governatore, tra il
generale e l’Esercito, tra il direttore e il Giornale, ed è la stessa differenza
che c’è tra la Specie e l’individuo. “ Le dimissioni”: termine ignoto
ai malmostosi della “casta”, putribondi figuri e figuranti del potere peggiore.
Salvaguardare “l’Istituzione”? Non è nei loro propositi. E poi, a favore di
chi? Si risponde unicamente al “capo” del momento. Tutto il resto sono
inutilità, vetero-assembleariste sorpassate. Rottamate. Scriveva ancora
Francesco Merlo: (…). Del resto si lascia non solo quando ci si sente ‘al di sotto, ma
anche quando ci si sente ‘al di sopra’, (…). Ci sono lavori che sono svolti con
spirito dimissionario. Gli insegnanti, per esempio, demotivati e maltrattati,
non potendosi dimettere dal lavoro, si dimettono dall’attaccamento al lavoro.
In questi casi le vere dimissioni suonano come il tributo della consapevolezza
alla dignità. D’altra parte le dimissioni possono essere liberatorie e
redditizie, perché l’ufficialità impedisce di coltivare l’ umanità. Ci si
dimette per immettersi nella pienezza dei sentimenti, delle emozioni. Ci si può
dimettere da manager per immettersi nel padre di famiglia, nell’amico. Ci si
può dimettere dalla direzione di un giornale per curare se stessi, i parenti,
gli amori, la scrittura, i viaggi, lo studio, gli affari. Francesco Giuseppe
fingeva di essere sordo, si dimetteva cioè dalla acusticità, per non dover
commerciare verbalmente e intellettualmente con i suoi cortigiani. E lo scrittore
Guido Morselli, che morì suicida, vale a dire dimissionario dalla vita,
raccontò nel romanzo ‘Divertimento 1889’ che Umberto I di tanto in tanto si
‘dimetteva’ da re e si mescolava alla gente. Ne 1900 fu poi assassinato, vale a
dire ‘dimesso’, dall’ anarchico Bresci, il quale, a sua volta, l’anno dopo ‘si
dimise’ togliendosi la vita in galera. (…). Del resto il prete può spogliarsi,
mai dimettersi; ottiene la dispensa, non l’annullamento. E il Pontefice non può
‘dismettere’ i suoi ponti. Non è previsto
un Pontefice Cincinnato in ritiro operoso, in romitaggio tra gli amati
libri elevati a feticci. L’uomo di Dio
deve pregare e non potrà più cedere alla vanità dello studioso, un Pontefice
non può tornare professore, il suo unico privilegio sarà denudarsi sino a
diventare la propria anima ben prima della morte del corpo e l’arrivo nel
Paradiso dove Dante incontra Beatrice: <Avete il Nuovo e Vecchio Testamento
/ e il pastor della Chiesa che vi guida / questo vi basti a vostro
salvamento>. (…). Persino Celestino V,
secondo i pettegolezzi d’epoca, veniva ossessionato durante la notte dai
cardinali che, nascosti sotto il letto, gli mormoravano <dimettitti,
dimettiti>. Fratello maggiore delle dimissioni è il suicidio, condannato
dalla Chiesa con la dannazione eterna. E spesso le dimissioni, proprio come il
suicidio, sono ricatti, minacce retoriche: <O fate così o me ne vado>. In
Italia abbiamo inventato le ‘quasi dimissioni’ che, come il tentato suicidio,
sono un imbroglio morale. C’è infatti una sola maniera, secca e definitiva, per
uccidersi, come c’è una sola maniera per dimettersi: tornarsene a casa e farsi
dimenticare. (…). Mi va di ricordare ancora una volta quel tale signore
teutonico a nome Uli Hoeness che, condannato in primo grado per un reato
tributario, non acconsentì al suo legale di intraprendere la via dell’appello e
si “dimise”
dalla “vita libera” presentandosi, all’indomani della condanna, dinnanzi il
portone dell’istituto penitenziario di quel paese per scontare la pena
inflittagli a nome del popolo tedesco derubato. Trascorrendo così ben quattro
anni di “galera”, interamente scontati. Mentre nel bel paese della mala-politica
si apprestava, ad un signore condannato per lo stesso reato, l’indecoroso
palcoscenico di una dimora per anziani in quel di Cesano Boscone. Con tanto di
telecamere e microfoni postati all’uscita della stessa dimora pronti a carpire l’alto pensiero di un pubblico,
riconosciuto tale da un legittimo tribunale, frodatore. Ignorato il termine “dimissioni”
nell’era avvelenata della mala-politica è diventata diffusissima la “pratica”
della “auto-sospensione”.
mercoledì 15 marzo 2017
Scriptamanent. 80 “Il populismo della paura”.
Da “Il
populismo della paura” di Roberto Toscano, pubblicato sul quotidiano la Repubblica
del 15 di marzo dell’anno 2016: (…). Populismo? Certo, se per politica
populista intendiamo il dare risposte semplici a problemi complessi e dire alla
gente quello che la gente vuole sentire, non quello che è giusto dire. (…). Il
populismo è sempre esistito, e si può anzi dire che costituisca una componente
di ogni ricerca del consenso. Va anche aggiunto che i politici con tasso di
populismo uguale a zero non hanno mai avuto molto successo, mentre lo stesso
non si può certo dire degli iper-populisti, disinvoltamente incuranti sia della
coerenza che della logica, ma spesso vincenti. E allora ha più senso passare
dalla forma al contenuto. Il populismo che in tutta Europa, e non solo in
Germania, è diventato un serio fattore è un populismo molto specifico: il
populismo della paura. Paura d’invasione da parte di centinaia di migliaia di
persone che vengono a rubarci il lavoro in tempi di stentata crescita economica
e a competere sul terreno dei benefici sociali in un momento in cui il welfare
tende ad essere ridotto. La paura non ha solo una natura economica, ma tocca la
sfera dell’identità culturale (gran parte dei migranti sono musulmani) e della
sicurezza (quanti terroristi possono infiltrarsi fra i migranti?). Tutti
problemi reali ai quali andrebbero date risposte serie in termini sia di
razionalità politica sia di sostenibilità economica, ma senza dimenticare chi
siamo come europei. O forse verrebbe da dire come credevamo di essere, visto
che in quasi tutti i paesi dell’Unione sembra aumentare una deriva xenofoba che
minaccia di distruggere la nostra identità molto di più che non la comparsa del
velo islamico nelle nostre strade o di minareti nei nostri paesaggi. Il
populismo della paura parte dai problemi reali per passare a proposte del tutto
fantasiose. «Chiudere le frontiere»: come se l’esperienza non avesse
abbondantemente dimostrato che i movimenti di popolazione possono essere
regolati, non totalmente impediti, e che non si è ancora inventato un confine
davvero invalicabile. «Proibire l’ingresso dei musulmani»: dimenticando che in
Europa già ci sono milioni di musulmani come prodotto dell’eredità coloniale
(Regno Unito, Francia) o delle esigenze economiche (Germania), tanto che
sarebbe giusto parlare non solo di migranti musulmani, ma anche di “musulmani
europei”. «Sospendere Schengen»: una prospettiva che minaccerebbe di essere
fatale per l’Unione Europea, e che per noi italiani risulterebbe
particolarmente negativa, dato che ci troveremmo nelle condizioni in cui si
trova la Grecia, dove sono bloccati migliaia di rifugiati senza sbocco. (…). Risposte
semplici (e insensate) a problemi complessi. Ma i dirigenti politici che
cavalcano la paura, anzi la stimolano sistematicamente, hanno un’agenda che va
oltre il problema delle migrazioni.
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