"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 4 marzo 2012

Strettamentepersonale. 4 - 4 marzo 1943 -.

Dice che era un bell'uomo e veniva,
veniva dal mare
parlava un'altra lingua,
però sapeva amare
e quel giorno lui prese a mia madre
sopra un bel prato
l'ora più dolce prima di essere ammazzato.
Così lei restò sola nella stanza,
la stanza sul porto
con l'unico vestito ogni giorno più corto
e benché non sapesse il nome
e neppure il paese
mi aspettò come un dono d'amore fin dal primo mese.
Compiva 16 anni quel giorno la mia mamma
le strofe di taverna,
le cantò a ninna nanna
e stringendomi al petto che sapeva,
sapeva di mare
giocava a fare la donna con il bimbo da fasciare.
E forse fu per gioco o forse per amore
che mi volle chiamare come nostro Signore.
Della sua breve vita è il ricordo più grosso
è tutto in questo nome
che io mi porto addosso.
E ancora adesso che gioco a carte
e bevo vino
per la gente del porto
mi chiamo Gesù bambino
e ancora adesso che gioco a carte
e bevo vino
per la gente del porto
mi chiamo Gesù bambino
e ancora adesso che gioco a carte
e bevo vino
per la gente del porto
mi chiamo Gesù Bambino.

Trovo che le uniche parole vere, frasi non fatte, nella tristissima circostanza dell’ultimo saluto al grande Lucio, siano quelle, delle quali mi ha fatto prezioso dono, del dottor Ennio Nicotera – “il compagno Ennio” -  che ci rende, affettuosamente e con  un carico enorme di nostalgia, un Lucio Dalla vivo, giovane e vibrante d’impegno politico e sociale come lo è stato nel corso della Sua intera vita. È il ricordo personale del dottor Nicotera che contribuisce a renderci quel Lucio Dalla che immancabilmente cercheremo nei tempi a venire di ritrovare nelle Sue stupende, struggenti parole e nella Sua musica intramontabile. Addio, Lucio.
                                                               
(…). Altro ricordo di Bologna primi anni 60 anni. Era appena giunta la notizia che era stato giustiziato nella spagna franchista un oppositore del regime, Julian Grimau. Il partito si mobilitò subito e nel giro di poche ore organizzò in Piazza Maggiore (la piazza grande di Dalla) una manifestazione molto partecipata. Un grande popolo decise di sfilare per Via Indipendenza, una delle più importanti vie bolognesi che parte da  Piazza Maggiore. Ricordo Lucio Dalla a quei tempi già noto a Bologna, piccolo brutto e senza parrucca in prima fila accanto al vecchio sindaco Dozza gridare lo slogan "Spagna Si, Franco No".

sabato 3 marzo 2012

Storiedallitalia. 6 Il Paese ha bisogno di una svolta.

Quando diconsi i cosiddetti casi della vita. Si dia il caso che stia soggiornando da un bel po’ di tempo in quel di C******. Si dia il caso che, quando le mareggiate non infuriano sull’amena costa di C*****, io sia un abituale frequentatore del suo bellissimo e lunghissimo lungomare dal quale si gode lo spettacolo unico delle sette sorelle isole. Si dia il caso che da qualche giorno abbia visto spuntare, su quel lungomare, un gigantesco manifesto pubblicitario, un tre per sei, tanto per intenderci. Si dia il caso che l’iscrizione in esso contenuta mi abbia interessato sin dalla prima lettura. Si dia il caso che, metabolizzato convenientemente l’interesse, si sia sviluppata un certa curiosità per il gigantesco manifesto pubblicitario. Si dia il caso che l’iscrizione che in esso campeggia al centro della sua vastità, “Il Paese ha bisogno di una svolta”, abbia vinto la mia reticenza ad attraversare la sede stradale. Si dia in caso che, un bel mattino, io abbia attraversato quella sede stradale per farmi da presso all’immenso manifesto pubblicitario. Si dia il caso che fossi interessato a sapere quale partito avesse avuto quella balzana, peregrina idea “di una svolta”. Si dia il caso che il manifesto pubblicitario avesse sulla sua sinistra l’immagine di una gamba, una sola, s’indovina di giovine essere umano, infilata in un jeans, a rendere, forse, l’idea di un qualcuno in cammino; verso dove? Si dia il caso che esso, il manifesto tre per sei, avesse in basso sulla destra una circonferenza barrata, così come si barrano i simboli elettorali. Si dia il caso che, nella predetta circonferenza, ci fosse scritto solamente “stockfamilyshoppingvillage”. Si dia il caso che, nel manifesto in questione, si facesse riferimento a fantomatiche “Elezioni primavera/estate 2012 N****** 3 marzo sabato e domenica orario continuato”. Si dia il caso che quello sia solamente uno squallido manifesto pubblicitario commerciale. Cosa dedurne? Quale l’idea e lo stimolo subliminale da trasmettere agli incauti frequentatori di quel lungomare che si erano prefissi i suoi creatori? Mi sfugge e l’una e l’altro. Non mi sfugge però che esso contenga un’amara verità che attiene alla politica del bel paese. E la verità è che si vuol far passare l’idea diffusa nell’antipolitica che la politica sia meramente un mercato. Un mercato di voti. Un mercato di case all’insaputa. Un mercato di escort. Un mercato di oggetti di lusso. Un mercato di costosissime automobili. Un mercato di qualsivoglia altro che la politica, ovvero questa politica sinora praticata, si procaccia anche per affermare uno status simbol del potere. Di chi la responsabilità? Affermava Ugo Ojetti in “Soltanto un giornalista” di Indro Montanelli: “(…). …il nostro è un Paese di contemporanei senza antenati né posteri. Cioè senza passato e senza futuro “. Senza memoria. Senza responsabilità. Le responsabilità ci sono. Eccome. Le portano i tanti ma non tutti, i tantissimi protagonisti di questa politica vissuta al limite della decenza e della legalità. Ne ha scritto argutamente, come sempre, Guia Soncini sul settimanale “D” del quotidiano la Repubblica col titolo “Verità-finzione Dieci a zero” – che di seguito trascrivo in parte –, tanto per prendere a prestito e parafrasare quell’altro bugiardo titolo - 25 a 0 - di un quotidiano che così titolava un editoriale a commento della recente sentenza di Milano a carico del signor B. Signori, chi mai potrà dare una svolta a questo naufragato Paese? Pensiamoci bene o si affonderà tutti.

(…). Non guardo neanche gli appunti, vado a memoria. Il comandante che, accusato di aver abbandonato la nave che affondava, batte il fino ad allora inarrivabile vertice di John Belushi che, nei Blues Brothers, imputava la responsabilità del suo ritardo a un'invasione di cavallette: il capitano Schettino dice di essere stato catapultato dentro la scialuppa. Il sindaco che, con una città ferma per l'imprevedibile evento di una nevicata in febbraio, dà la colpa alla vegetazione locale: "I pini di Roma non sono abituati alla neve, è una questione botanica", ha sillabato serissimo Gianni Alemanno in un talk show, tra un equivoco su centimetri e millimetri di quelli che avrebbero fatto la felicità di Aurelio De Laurentiis e una confusione tra il sale grosso e quello fino che non può aver fatto bene al manto stradale. Il piano per uccidere il Papa, nientemeno: scritto in tedesco, "così l'avrebbero decifrato in pochi". Un qualunque collegamento televisivo di Lavitola, dalla latitanza, a parlare di pescheria o (testuale) del "problema della figa". Il tesoriere di un partito che s'infratta tredici milioni di euro su venti di saldo senza che nessuno se ne accorga, essendo i dirigenti del partito stesso troppo signori per badare ai soldi (suvvia, non è che quando la colf rientra con la spesa una si metta a contare il resto, sarebbe volgarissimo). Tutto questo, e molto altro ancora, sui giornali e nei programmi d'attualità italiani degli ultimi mesi. E sono i mesi senza Berlusconi al governo. Ci siamo raccontati per anni che era colpa sua. Che aveva reso i colori della realtà talmente psichedelici da ammazzare qualunque possibile finzione. Che, una volta normalizzata la situazione, avremmo recuperato la capacità di raccontare la realtà. Pochi giorni prima delle dimissioni di Silvio Berlusconi da capo del governo, venne fuori una notizia di quelle che lo rendevano uno statista scarsino ma un intrattenitore inarrivabile: Gheddafi, prima di morire, avrebbe mandato a palazzo Grazioli una hostess (sì, insomma: una delle fanciulle di bell'aspetto mandate a rallegrarlo quando era stato in visita ufficiale a Roma) recante un bigliettino con una richiesta di aiuto fatta a Silvio in nome dei vecchi tempi. Poi venne fuori che in realtà non era una hostess ma amici comuni, ed è sempre fastidioso quando un dato di realtà si intromette in una buona storia, ma prima della correzione della leggenda io avevo fatto in tempo a pensare che era per cose come queste, che mi sarebbe tanto mancato. E invece. Schettino. L'apparizione di Francesco Schettino su una scena orfana di Silvio Berlusconi è paragonabile, per mancanza di rispetto della gavetta, a quella di Pupo alla conduzione di Affari tuoi. Quando arrivò Pupo a sostituirlo, Paolo Bonolis era considerato il più inarrivabile dei conduttori televisivi, inizio e fine del clamoroso successo di quel quiz. Che continuò ad andare bene anche con uno televisivamente semisconosciuto fino all'attimo prima. L'entrata in scena di Francesco Schettino ha spazzato via ogni memoria dei siparietti berlusconiani più rapidamente di quanto l'entrata su carro egizio di Madonna al Superbowl abbia fatto dimenticare Lady Gaga. Al terzo "biscaggina", in platea era già tutt'un "Silvio chi?" (siamo un pubblico di ingrati, va detto). Schettino è intrattenimento longseller, in gergo tecnico. È fatto per durare, non per bruciarsi nel weekend di uscita. Un mese dopo, ancora ci interessavamo alla moldava, agli arresti domiciliari con la moglie tradita, a eventuali figli del peccato (siamo un pubblico cui piacciono i romanzi d'appendice). Nel frattempo, però, era arrivato Alemanno. Vestito da doposci. Che, con l'aria di non essere affatto ironico, con l'inconsapevolezza di chi parodiava la parodia, diceva al giornalista che gli rinfacciava la sua impreparazione davanti alla neve: "Sono andato a dormire alle tre di notte e mi sono svegliato alle sei del mattino!". Era impossibile non pensare a Quelo, il personaggio di Corrado Guzzanti: "Ma tu lo sai a che ora mi so' svejato io stamattina? Alle sette meno un quarto! La bambina ha vomitato!". È stato guardando Alemanno vinto dalla neve, che ho capito che il cinema italiano non può farcela a sceneggiare la realtà, la satira italiana non è più rianimabile, e Corrado Guzzanti ha le sue ragioni per battere la fiacca. Guardare mezz'ora di talk-show o sfogliare un giornale, per un raccontatore di storie, per un inventore di personaggi, è deprimente. Non puoi fare di meglio. Potresti prendere la storia e metterla in scena così com'è, devi solo fare il casting, e non è difficile: Schettino è già Christian De Sica, Favino sarebbe un interessantissimo Alemanno. Ma c'è il problema dei tempi di produzione. A sbrigarti molto, puoi uscire in sala a settembre. E, per allora, chissà quante battute più memorabili, personaggi più strepitosi, archi narrativi più immaginifici avrà prodotto un qualunque telegiornale in una giornata delle più tranquille.

giovedì 1 marzo 2012

Strettamentepersonale. 3 Cari ricordi di scuola.

Da Piccola città di Francesco Guccini: Piccola città, vetrate viola, primi giorni della scuola, la parola ha il mesto odore di religione; vecchie suore nere che con fede in quelle sere avete dato a noi il senso di peccato e di espiazione: gli occhi guardavano voi, ma sognavan gli eroi, le armi e la bilia, correva la fantasia verso la prateria, fra la via Emilia e il West...

Da La locomotiva di Francesco Guccini: Conosco invece l'epoca dei fatti, qual'era il suo mestiere:i primi anni del secolo, macchinista, ferroviere, i tempi in cui si cominciava la guerra santa dei pezzenti sembrava il treno anch'esso un mito di progresso lanciato sopra i continenti, lanciato sopra i continenti, lanciato sopra i continenti...

Strane, stranissime situazioni combina la vita, come questa dell’uno di marzo. Lucio Dalla ci ha lasciati. Un altro grande vecchio (69 anni il prossimo 4 di marzo) abbandona per sempre questi scenari terreni lasciandoci innumerevoli frutti della Sua intelligenza, della Sua infinita creatività. Ero molto legato a Lucio Dalla. Mi mancherà. La strana situazione alla quale dianzi accennavo è che avevo per oggi in mente di scrivere di Francesco Guccini. Un mito. Pochi anni ci separano anagraficamente – 1940/1946 -; ambedue abbiamo attraversato, dagli anni quaranta in poi, il secolo ventesimo. Ne siamo stati spettatori entrambi, ma Francesco Guccini ne è stato anche un interprete, un cantore, un testimone importante che ha colorato la nostra fantasia, ha arricchito il nostro immaginario. Molto mi lega a Francesco Guccini, ma soprattutto una propensione per quegli ideali di giustizia e di equità che appartengono, in una certa forma, solo alla gente che si dichiara di “sinistra”. Per tale motivo ho amato ed amo tuttora, alla mia non più verde età, la musica ed i testi delle Sue canzoni. Ne volevo parlare, di Francesco Guccini, in questa data, dopo aver letto lo stralcio proposto dal quotidiano la Repubblica e tratto dall’ultima Sua fatica letteraria “Dizionario delle cose perdute” – Mondadori Editore (2012) pagg. 140 € 10,00 -; avevo scoperto che anche i ricordi di fanciulli ci accomunano, in una percezione della vita e delle cose della vita stessa che arricchisce e completa quella condivisione di ideologie e pensieri forti che tanto sostegno e conforto hanno dato alla mia personale esperienza di vita. Mi ero lasciato andare anni addietro, nella presentazione del mio volume “I professori” – AndreaOppureEditore (2006) pagg. 190 € 8,00 – ad un ricordo scolastico dell’infanzia che la magia della scrittura di Francesco Guccini ha perentoriamente richiamato alla memoria a conferma di quella percezione delle cose della vita che sento di condividere con l’impareggiabile artista. Scrivevo in quel mio lavoro letterario: E’ tornare con i ricordi ad un fanciullo goloso, al riparo del ripiano di un nero banco scolastico di legno, come lo erano ai tempi della mia fanciullezza. Una leccornia amorevolmente infilata nella cartelletta dalla mamma premurosa, il suo gustarne l’infinita prelibatezza, al riparo dagli occhi vigili di un canuto maestro. Un ricevere, inattesa, una pesante campana di ottone, strumento di richiamo solenne ed imperioso al silenzio per noi scolaretti, sulla parte del capo non protetta dal ribaltabile ripiano nero del banco. Un improvviso riemergere del fanciullo di allora con le gote rigonfie, un palpitare del cuore come non mai, un sentirsi colpevole ed inerme per un atto compiuto con l’infinità semplicità di tutti i fanciulli di questo pianeta chiamato Terra. Un ricordo che ritorna ancora chiaro dopo tanti e tanti lustri, a fissare in una perenne e folgorante immagine una oramai lontana giornata di scuola, che il trascorrere veloce del tempo non cancellerà mai più. Di seguito riporto, in parte, lo stralcio tratto dalla lettura del quotidiano la Repubblica.

(…). Ma facciamo, come nei romanzi d'appendice, un passo indietro. Nelle scuole di allora c'erano i banchi. Di legno, monumentali, credo pesantissimi. A due posti (tu e il tuo compagno di banco, il famoso compagno di banco. Ma chi era, il mio compagno di banco, alle elementari? E il vostro?), avevano il ripiano a scrittoio ribaltabile, laccato (laccato?) di un mortifero nero lucido, tanto per far vedere che la scuola non era lì per divertire o far divertire ma per promettere, dalla prima alla quinta almeno, dolore e sofferenza, che lì non si scherzava. Perché era anche scomodissimo sedere su quei sedili di legno, antisalutare, e partivano scoliosi da coltivarsi poi per tutta una vita, lì immobili o quasi per quattro ore di fila, se non la breve pausa, alzando una timida mano, per andare in bagno - che poi, almeno nel mio caso, era un volgare gabinetto. Quando ci lasciavano andare. Il probabile progetto didattico degli adulti però cozzava con l'istintivo anarchismo dei bambini (di noi, allora, bambini), e il ripiano a scrittoio era non levigato e polito come ogni Alta Autorità Scolastica (mai stati, evidentemente, bambini, loro) avrebbe desiderato e sognato, ma era un intreccio di segni, scavi, calanchi e Grandi Canyon, scritte anche oscene (oscene come può immaginarsele un bambino, naturale), ottenuto in anni e anni di incessante e metodico lavoro di intere generazioni, di ere geologiche diverse, realizzato in maniera artigianale ma efficace con le punte più disparate, da un banale chiodo al più sofisticato coltellino. A volte anche con la punta di un semplice pennino (ma del pennino parlerò fra poco). Per i lavori di incisione si andava da un banale sfregio a più complesse losanghe, ghirigori, costruzioni di quadrati e rettangoli, fino a scritte vere e proprie come un sobrio Culo o il più ricercato Gianni puzza. Il piano inclinato finiva con un'asse in pari (sempre nera) che aveva al centro e all'estrema destra (i mancini non dovevano esistere in natura) un buco. Era il sito per il calamaio. Questo, di vetro spesso, coi bordi ingrossati nella parte superiore per appoggiarsi al foro e la parte inferiore tondeggiante a paiolo, veniva riempito di inchiostro (nero, ovvio) da un solerte bidello che periodicamente, con un enorme boccione, provvedeva al rabbocco. Non so che inchiostro fosse, forse era del più fino e puro ottenuto dai Laboratori e distillerie di Stato, che distillavano in partenza essenze pregiate e a volte anco odorose per la gioia di noi piccoli tesi nello sforzo di imparare (a leggere, scrivere e far di conto), solo che, o il bidello in parte lo vendeva e riempiva il boccione con un inchiostro di terza categoria, o dentro al calamaio avveniva un misterioso processo chimico per cui spesso l'inchiostro si trasformava in una massa maleolente e putrida, colma di strane e malvagie creature che, catturate dal pennino intinto, lo abbandonavano appena raggiunta la superficie e si trasferivano immediatamente sulla candida pagina del quaderno e tutta l'insozzavano. O magari si trattava soltanto di pezzetti di carta che, inseriti nel calamaio così da intingersi di inchiostro per poi essere allegramente lanciati contro un altro compagno, erano sfuggiti dalle mani bambine e lì dentro avevano trovato la morte e la putrefazione. E non bastavano i pennini più sofisticati per evitare tale scempio (da cui erano misteriosamente esenti gli alunni più bravi). (...).