"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 10 agosto 2017

Quodlibet. 13 «La Rivoluzione ed il “diritto alla resistenza”».




Da «Il guaio è che abbiamo smesso di pensare alla rivoluzione», intervista di Stefano Feltri al professor Paolo Prodi pubblicata su “il Fatto Quotidiano” del 10 di agosto dell’anno 2015: «Se non c'è passato non c'è nemmeno futuro. E questo si traduce in una crisi visibile delle istituzioni democratiche: manca l'idea di progetto, il mutamento rimasto è quello delle tecnologie. Ma si cambia senza sapere dove si va».
Professor Prodi, cos'è una rivoluzione? - I colpi di Stato non sono mai mancati, la lotta di chi non ha potere contro chi ha potere esiste dalle civiltà mesopotamiche. Ma non è la rivoluzione. Quello che ha distinto l'Occidente dalle altre civiltà è la capacità di progettare un modello sociale nuovo. Spesso con gli aspetti tragici della sommossa, certo, ma all'interno di una visione di sviluppo -.
Perché questo è avvenuto soltanto in Occidente? - La rivoluzione francese e l'illuminismo sono il culmine di un processo secolare che ha distinto il potere politico da quello economico e da quello sacro. Nelle antiche civiltà il palazzo e il tempio tendevano a coincidere. Con il cristianesimo si sviluppa il dualismo del “date a cesare quel che è di cesare e a Dio quel che è di Dio” che nel medioevo diventa lotta tra papato e impero, con la nascita del potere economico come un potere di tipo nuovo, non legato al possesso della terra -.
Perché lei parla della distinzione tra profezia e utopia come una svolta decisiva? - Nell'Antico testamento si sviluppa l'idea di profezia come espressione di una volontà di un dio super partes. Non identificato col potere, ma che si mette in dialettica con esso e ne condanna gli abusi. È questa l'idea che mette le sue radici anche nel cristianesimo. La Chiesa diventa profezia istituzionalizzata: il profeta non è più isolato, ma diventa una comunità. Che non si identifica con il potere, anche se spesso finisce per entrarvi in combutta. Non voglio dire che la teocrazia non è esistita, anzi. Ha messo la testa fuori in Occidente in ogni generazione, il potere sacro ha sempre cercato di impadronirsi di quello politico ed economico, ma in Occidente non si sono mai identificati l'uno con l'altro. Questo ha prodotto una fibrillazione, una tensione continua, che ha portato allo sviluppo dell'idea di rivoluzione. E si arriva alla decapitazione di Carlo I nel 1648 -.
E l’utopia? - La prima utopia è quella di Thomas More. È la progettazione di una società “felice”. Che riempie il contenuto rivoluzionario di un nuovo potenziale. Non si parla più di profezia legata alla “fine dei tempi”, la profezia si storicizza e diventa utopia. La storia della salvezza diventa “progresso”, movimento -.

venerdì 4 agosto 2017

Uominiedio. 23 “Salvate il crociato Scalfari”



Prima sorprendente asseverazione propria di un attempato neofita: Gli atei. (…). L’ateo è una persona che non crede in nessuna divinità, nessun creatore, nessuna potenza spirituale. Dopo la morte, per l’ateo, non c’è che il nulla. Da questo punto di vista sono assolutisti, in un certo senso si potrebbero definire clericali perché la loro verità la proclamano assoluta. Anche quelli che credono in una divinità (cioè l’esatto contrario degli atei) ritengono la loro fede una verità assoluta, ma sono infinitamente più cauti degli atei. “Più cauti” non direi. Non per nulla quegli uomini di religione “più cauti” si sono macchiati di quelle atrocità che oggi definiremmo “contro l’umanità”. Ammenoché non si voglia impudicamente sostenere che “roghi”, “crociate”, “missioni”, “inquisizioni” siano state compiute per l’umanità intera e con quell’umanità necessaria ispirata – forse - dalla “santità” dello “spirito santo”. E molto timidamente l’attempato neofita arriva a sostenere che – e ci mancava pure che non lo facesse - “quasi sempre dietro il motivo religioso c’erano anche altri e più corposi interessi, politici, economici e sociali, ma la motivazione religiosa era comunque la bandiera di quelle guerre, che furono molte e insanguinarono il mondo”. Ullallà “crociato” Scalfari. Seconda solenne asseverazione: “Gli atei - l’ho già detto - non sanno di essere poco tolleranti, ma il loro atteggiamento nei confronti delle società religiose è rigorosamente combattivo. La vera motivazione, spesso inconsapevole, è nel fatto che il loro Io reclama odio e guerre intellettuali contro religioni di qualunque specie. Il loro ateismo proclamato vuole soddisfazione, perciò non lo predicano con elegante pacatezza ma lo mettono in discussione partendo all’attacco contro chi crede in un qualunque aldilà, lo insultano, lo vilipendono, lo combattono intellettualmente. È il loro Io che li guida e che pretende soddisfazione, vita natural durante, non avendo alcuna speranzosa ipotesi di un aldilà dove la vita proseguirebbe, sia pure in forme diverse”. “O signore dal tetto natio”, mi verrebbe da canticchiare come in quella celeberrima romanza! Come si fa a scrivere simili inettitudini? Che di quell’ammenoché di cui dianzi si è scritto non si sono da sempre impregnate in notevole misura le religioni tutte, tutte, ovvero qualsivoglia spirito che dicasi religioso?

giovedì 3 agosto 2017

Lalinguabatte. 36 “ Interessa? “.


Per chi non avesse a mente il pregevolissimo lavoro cinematografico di Ettore Scola “C’eravamo tanto amati”, lavoro che è memoria di un paese che è stato e che non c’è più, lavoro che andrebbe recuperato alla memoria collettiva, “ interessa? “ è la perentoria domanda che un venditore di accendini e di quant’altre cianfrusaglie poneva agli avventori squattrinati della “ Osteria della mezza porzione “ in una Roma del primo dopoguerra. Oggi la domanda dovrebbe essere posta in questi termini: “interessa” sapere cosa sta avvenendo nel campo della economia globalizzata, della finanziarizzazione sfrenata, senza limiti, della vita e del destino di milioni e milioni di inconsapevoli cittadini di questo pianeta chiamato Terra? “Interessa” saperlo, o risulta meglio ignorare ogni cosa e continuare a credere ciecamente alle false sirene? False sirene che, nel caso del bel paese, sono impersonate dagli stessi reggitori della cosa pubblica, o meglio, dai cosiddetti governanti. Ma in un mondo così complesso, nel quale non riesce facile distinguere i campi che si contrappongono, le forze oscure che scendono in campo, cosa potranno mai governare coloro che sono stati chiamati all’arte suprema della politica? Purché la politica, ovvero l’arte di conciliare interessi diversi e contrastanti in società estremamente complesse,  sia ancora e rimanga lo scopo principale di quegli uomini e di quelle donne. Ho ritrovato, tra le mie carte, una interessante riflessione sulla condizione dei prestatori di manodopera nel mondo della globalizzazione a firma del professor Umberto Galimberti che ha per titolo “Sul mondo del lavoro“, che di seguito trascrivo: (…). La crisi che stiamo attraversando è stata generata dall'economia finanziaria che, a differenza dell'economia industriale, non ha davanti agli occhi persone in carne e ossa, biografie, famiglie legate al reddito da lavoro, ma solo flussi finanziari, che vorticosamente si muovono per creare profitto nel minor tempo possibile. I rappresentanti di questa economia generalmente non si suicidano o, se lo fanno, è solo per il loro collasso economico a cui era legata la loro identità. Nessun pentimento e nessuna considerazione per gli effetti che la loro brama di denaro ha determinato nella vita reale di imprenditori e di operai che operano nell'economia industriale, a cui le banche, che parlano più volentieri con gli operatori della finanza che con gli imprenditori bisognosi di prestiti, hanno per giunta sottratto ossigeno. A questa considerazione aggiungiamo il fatto che l'economia da locale o nazionale è diventata globale, con progressiva perdita delle relazioni umane e anche affettive che sono sempre esistite tra il datore di lavoro e i suoi lavoratori, quando questi mostravano competenza, professionalità, attaccamento al lavoro. La globalizzazione ha portato in primo piano il costo del prodotto che deve essere il più basso possibile perché l'impresa possa stare sul mercato. Ciò ha comportato la dislocazione della produzione con conseguente perdita dei legami territoriali che concorrono a creare e ad alimentare una sorta di familiarità tra imprenditori e lavoratori. Finanza da un lato e mercato dall'altro hanno portato in primo piano il valore delle merci e in secondo piano, quando non del tutto trascurato, il valore degli uomini. Di tutti gli uomini, siano essi imprenditori o lavoratori. La lotta di classe, che in età umanistica opponeva i due, come ben descritto da Hegel nella dialettica servo/signore, nell'età della tecnica finanziaria o mercantile non ha più ragione d'essere, perché sia il servo, sia il signore si trovano non più contrapposti l'uno all'altro, ma entrambi dalla stessa parte e hanno come controparte il mercato. Ma che cos'è il mercato? Non una volontà che si può piegare come in età umanistica era possibile piegare la volontà del signore, ma una pura e asettica razionalità, a cui non importa la sorte degli uomini, ma la miglior circolazione delle merci e del denaro al minor costo possibile. Contro questa razionalità, che ha espulso qualsiasi considerazione umana, come si fa a opporsi, con quali strumenti e con quali possibilità di successo? Il suicidio degli operai e (…) degli imprenditori, oltre alla dimensione tragica di un così drammatico evento, va considerato anche a livello simbolico, e precisamente come il più evidente segnale che dice a chiare lettere come nell'età della tecnica, che ha definitivamente chiuso l'età umanistica, l'uomo non conta più niente, è qualcosa di antiquato come dice Günther Anders, la cui sorte non interessa minimamente a quel generatore simbolico di tutti i valori che oggi si chiama denaro.”