E…100. 100 “riflessioni” in “scriptamanent” come una
narrazione dei giorni passati. Da “La
lezione del 2 giugno” di Michele Ainis, pubblicato sul quotidiano la
Repubblica del 2 di giugno dell’anno 2016: (…). …la Costituzione rappresenta la carta
d’identità di un popolo, ne riflette il vissuto, ne esprime i valori. Ma noi
italiani la conosciamo poco: non la studiamo a scuola, non la pratichiamo quasi
mai da adulti. Sarà per questo che siamo diventati incerti sulla nostra stessa
identità. Sarà per questo che ci specchiamo nella Costituzione come su un vetro
infranto, da cui rimbalza un caleidoscopio d’immagini parziali, segmentate. È
l’uso politico della Carta costituzionale, nel tempo in cui la politica
consiste in una lotta tra fazioni. Di conseguenza, alle nostre latitudini
ciascun tentativo di riforma aggiunge ulteriori divisioni, quando sulle regole
del gioco occorrerebbe viceversa il massimo di condivisione. Ecco perché cade a
proposito questo 70° compleanno della Repubblica italiana. Fu battezzata
anch’essa con un referendum, il 2 giugno 1946. Quel giorno ogni elettore
ricevette una scheda con due simboli: una corona per la monarchia; una testa di
donna con fronde di quercia per la repubblica. E il referendum spaccò il Paese
in due come una mela; perfino l’esito venne contestato, tanto che il dato ufficiale
si conobbe soltanto il 18 giugno, dopo i controlli della Cassazione. Tuttavia
dalla frattura è germinata l’unità. C’è forse qualcuno, settant’anni più tardi,
che non si riconosca nella Repubblica italiana? D’altronde lo stesso referendum
del 1946 svolse una funzione pacificatrice. Intanto, la soluzione referendaria
fu negoziata con la monarchia. In secondo luogo, essa evitò una conta
all’interno dell’area moderata, divisa a metà fra monarchici e repubblicani; e
infatti De Gasperi ne fu strenuo sostenitore. In terzo luogo, il referendum
permise di saldare due Italie e due generazioni, i vecchi e i giovani, gli
operai del nord e i contadini del sud, convocati per la prima volta dinanzi a
un’urna elettorale. E infine i vincitori seppero rispettare i vinti, senza
calpestarli sotto un tacco chiodato. Non a caso, i primi due presidenti della
nuova Repubblica furono entrambi uomini di simpatie monarchiche: Enrico De
Nicola e Luigi Einaudi. Che lezione si può trarre da quei remoti avvenimenti?
Una su tutte: la democrazia non deve aver paura dei conflitti, perché dai
conflitti nascono i diritti. Però nessuna democrazia può sopravvivere in un
conflitto permanente, che s’estende alle stesse norme costituzionali. Come
regolarmente ci succede in questo primo scorcio di millennio. Nel 2001 la
riforma del Titolo V fu approvata dal centro-sinistra con una maggioranza
risicata (4 voti alla Camera, 9 al Senato). Nel 2005 la devolution del centro-
destra passò con 8 voti di scarto.
Nel 2016, all’atto del voto finale sulla riforma del bicameralismo, le opposizioni hanno abbandonato l’aula: il massimo di ripulsa. Eppure non è vero, non è del tutto vero, che ci dividiamo sempre tra guelfi e ghibellini. Nel 2012, all’epoca del governo Monti, la riforma costituzionale sul pareggio di bilancio fu timbrata all’unisono, e in appena tre mesi, dal nostro Parlamento. Perché infuriava la crisi dei mercati, perché l’Italia si sentiva sotto assedio. Morale della favola: riusciamo a stare uniti solo durante un’emergenza. Ma la disunione è in se stessa un’emergenza. Anche perché non s’accanisce sui principi, bensì sulle loro concrete applicazioni. Siamo tutti d’accordo sul superamento del bicameralismo paritario, salvo questionare su quanto divenga dispari il Senato. Tutti desideriamo una giustizia più efficiente, però giudici e politici si scaricano addosso le colpe dell’inefficienza. Siamo tutti disposti a riconoscere i diritti delle coppie gay, ma al contempo scateniamo la guerra civile sulle nozze omosessuali o sulla stepchild adoption. Conclusione: non abbiamo bisogno d’un teologo, e nemmeno di un filosofo. Ci serve un ingegnere.
Nel 2016, all’atto del voto finale sulla riforma del bicameralismo, le opposizioni hanno abbandonato l’aula: il massimo di ripulsa. Eppure non è vero, non è del tutto vero, che ci dividiamo sempre tra guelfi e ghibellini. Nel 2012, all’epoca del governo Monti, la riforma costituzionale sul pareggio di bilancio fu timbrata all’unisono, e in appena tre mesi, dal nostro Parlamento. Perché infuriava la crisi dei mercati, perché l’Italia si sentiva sotto assedio. Morale della favola: riusciamo a stare uniti solo durante un’emergenza. Ma la disunione è in se stessa un’emergenza. Anche perché non s’accanisce sui principi, bensì sulle loro concrete applicazioni. Siamo tutti d’accordo sul superamento del bicameralismo paritario, salvo questionare su quanto divenga dispari il Senato. Tutti desideriamo una giustizia più efficiente, però giudici e politici si scaricano addosso le colpe dell’inefficienza. Siamo tutti disposti a riconoscere i diritti delle coppie gay, ma al contempo scateniamo la guerra civile sulle nozze omosessuali o sulla stepchild adoption. Conclusione: non abbiamo bisogno d’un teologo, e nemmeno di un filosofo. Ci serve un ingegnere.
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