Nell’era del trumpismo imperante (fino
a quando?) un “allarme”, se così è lecito dire, si leva da quel mondo che è
stato incubatrice e culla di quella “crisi globale” che ancor oggi
attanaglia e svuota le nostre vite. Ed a quell’”allarme” donano forza i tanti proclami
e le tante intimidazioni rese al resto del genere umano da quell’uomo “ridicolo”
assiso alla suprema carica di quel paese. A lanciare quell’allarme è la breve
corrispondenza di Federico Rampini, corrispondenza pubblicata sul numero del
settimanale A&F del 22 di maggio, che ha per titolo “Usa, torna il debito: indice di fiducia, ma mina vagante per nuove
crisi”: Ha raggiunto un nuovo record
storico di 12.700 miliardi il debito delle famiglie americane. E con questo
siamo ritornati per la prima volta al di sopra dei livelli pre-crisi. Al primo
posto nell'alimentare questa escalation dei debiti individuali ci sono i mutui
casa che rappresentano il 71% del totale; sono seguiti dai prestiti bancari
agli studenti per pagarsi l'università (11% del totale), poi dalle
rateizzazioni auto (9%) e dagli scoperti sulle carte di credito (6%). È un
fenomeno che ha due facce, positiva e negativa: 1) Da un lato è considerato un
indicatore di ritrovata fiducia nell'economia e nella proprie prospettive di
reddito, quando i consumatori tornano a indebitarsi; a sua volta questo
"consumo finanziato coi debiti" è un motore di crescita; 2)
Storicamente però sappiamo come i periodi di boom nei debiti sono spesso stati
la premessa per dei crac finanziari, il caso più drammatico fu proprio il 2008
quando il crac sistemico fu preceduto da un'anomala crescita dei mutui subprime
con cui tante famiglie meno abbienti accedevano al sogno della casa ma senza
avere i mezzi per ripagare i debiti. Spendere e indebitarsi "like drunken
sailors", come marinai ubriachi, è una colorita espressione idiomatica in
uso qui negli Stati Uniti. Suona un po' offensiva, non so se contro i marinai o
contro le famiglie a basso reddito, però rende l'idea... Questi dati riportano
alla luce due temi, uno congiunturale e l'altro strutturale. Il primo è la
durata di questa crescita americana ormai giunta all'ottavo anno consecutivo. È
una delle riprese più lunghe della storia, anche se non è certo una delle più
vigorose (siamo sempre nella "stagnazione secolare" con tassi di
crescita che sono una frazione rispetto al trentennio dell'ultima età aurea del
capitalismo, dagli anni Cinquanta agli anni Settanta). Questo però significa
anche che aumentano le probabilità statistiche che ci stiamo avvicinando alla
prossima recessione. E un'idigestione di debiti, insieme con un rialzo dei
tassi della Fed, è uno scenario tipico da recessione. Il tema strutturale
riguarda il modello di sviluppo che domina in Occidente: troppe diseguaglianze,
e anche dove c'è crescita e "apparente piena occupazione" i redditi
ristagnano o diminuiscono. Il credito a gogò è lo strumento con cui questo tipo
di capitalismo maschera il problema.
La corrispondenza di Federico Rampini torna comoda per tornare a parlare dei “mali” di questo capitalismo “finanziarizzato” che promuove ed incoraggia i “consumi per i consumi” e per riproporre, in questa “sfogliatura”, un testo postato nella domenica 31 di luglio dell’anno 2011, tanto per dire che l’esperienza di una crisi indomabile non ha dato nessuna lezione:
La corrispondenza di Federico Rampini torna comoda per tornare a parlare dei “mali” di questo capitalismo “finanziarizzato” che promuove ed incoraggia i “consumi per i consumi” e per riproporre, in questa “sfogliatura”, un testo postato nella domenica 31 di luglio dell’anno 2011, tanto per dire che l’esperienza di una crisi indomabile non ha dato nessuna lezione:
“(…). Per sfruttare la psicosi da raggi ultravioletti, la giapponese
Uniqlo offre una linea completa, dalle calze ai copricapo, di indumenti con
protezione antisolare incoporata, fibre che non permettono ad alcun raggio di
raggiungere la pelle. Inteso come raggio del sole perché purtroppo una linea
che protegga da altre e ben più micidiali radiazioni presenti al momento in
Giappone ancora non è disponibile. La Timberland ha lanciato scarpe deodoranti,
che annullano, senza ricorrere a spray o solette, ogni sgradevole odor di
piedi. La Levi's ha pensato a tutti coloro che in questa stagione girano in
bicicletta, attività che spesso produce un effetto secondario conosciuto dagli
scienziati come sudore. Il suo abbigliamento è antibatterico, essendo appunto i
batteri la causa dello spiacevole aroma ascellare, e anche antipolvere e
riflettente. Arriverete a destinazione freschi, puliti e alleggeriti, anche nel
portafoglio. Per soli (soli?) 70 dollari più tasse i clienti preoccupati da
qualche cedimento nelle forme potranno ricorrere a un nuovissimo indumento che
all'apparenza potrebbe sembrare il solito mutandone aderente stretch, del tipo
detto compression short perché promette di comprimere l'incomprimibile, ma
invece nasconde un inedito prodigio tecno-farmacologico. È prodotto dalla
Lytess, marca che vuole richiamare nel proprio nome il suono agognato di lite,
leggero, e offre una nuovissima fibra microincapsulata - cito testuale - con
caffeina capace di stimolare la riduzione del grasso sottocutaneo. Come fare un
bidet nel caffè, grosso modo. Alla signora che invece fosse ormai stanca delle
solite Manolo Blanhik o Jimmy Choo da seicento euro che tanto ce le hanno
tutte, Max Kibardin, uno scarparo venuto dalla Siberia (ecco un altro dei danni
collaterali provocati dal collasso dell'Unione Sovietica) propone, per clienti
con inclinazione musicale, le calzatura chitarra elettrica. Sono scarpe con
tacchi a stiletto, a spillo altissimi, zattera sulle punte e tre corde che corrono
ai lati dalla caviglia alla pianta, che realmente emettono accordi e suoni
mentre si cammina. Trasformerebbe, tra l'altro, anche le vie battute da
professioniste in gradevoli concerti rock gratuiti. Per chi fosse scettico, il
sito dove ammirarle ed eventualmente ordinarle è refinery29.com: cercare guitar
shoe. Batterie non incluse. La perfetta signora trendy americana di questa
tarda estate 2011 dovrebbe dunque sfoderare la propria carta di credito per
girare corazzata da indumenti giapponesi anti raggi UV, indossare sotto mutande
alla caffeina e camminare sprigionando accordi di chitarra dalle scarpe
siberiane. Che, avendo purtroppo anche la tecnologia i propri limiti, suonano
bene, ma nulla possono contro l'odor di piedi.” Avete appena finito di leggere l’ultima corrispondenza dagli Stati
Uniti d’America di Vittorio Zucconi, corrispondenza che ha per titolo “Vestiti antisolari e scarpe che suonano” apparsa sull’ultimo
numero del supplemento “D” del quotidiano “la Repubblica”. Vi è sembrata banale
ora che il “default” sembra
abbattersi senza pietà su quel grande paese? Eppure esso, intendo dire il “default”, è la conseguenza di un
vivere sopra le righe, di uno scialacquare beni e risorse che grida allo
scandalo. Che grida vendetta. Ma il tanto atteso anche se indesiderato “default” ben poca cosa andrà a
sottrarre ai consumatori che sembra di vedere attraverso la sempre raffinata e graffiante
scrittura dell’illustre opinionista. Il “default”
ammazzerà gli altri, gli indifesi, coloro i quali non hanno concorso, se non
marginalmente, alla creazione del grosso buco che divora quel paese ma anche
tutti gli altri paesi dell’Occidente progredito e cristianizzato. Ad essi verrà
a mancare l’essenziale, a quelli della corrispondenza le inutilità di questo
porco mondo. Anche Andrea Satta, che è
un fine musicista ed uno scrittore di vaglia, ha un bel po’ di tribolazioni a
causa di questo “default”. E si
interroga su di esso, sul “default”
intendo dire, ché ben altri interrogativi avrebbe invece voglia di porsi e per
i quali vorrebbe trovare le giuste risposte. Ma tant’è: il mondo d’oggi vive
con l’incubo del “default”, e di
esso si ha da parlare. Sarà vero? O è solamente il frutto di un’invenzione
mediatica? È che esso si scaricherà, sempre del “default” si parla, si scaricherà, come prima asserivo, sugli
ultimi, su quegli ultimi che si sono illusi, in questo quindicennio o ventennio
abbondante, di essere approdati nel migliore dei mondi possibili, tutto lustrini
e paillettes, ove anche all’ultimo, ma proprio all’ultimo dei terrestri, si è
fatto credere di concorrere allegramente, in nome dell’obbligo del consumo, con
quelli descritti nella corrispondenza di Zucconi, a creare il Leviatano, il mostro
che divorerà in un sol boccone la civiltà dell’effimero e dell’inutile divenuto
essenziale assai. Di seguito trascrivo la riflessione di Andrea Satta che ha per titolo “State tranquilli gli americani non falliranno” – titolo che mi dice
tanto di rassegnazione più che di un auspicio - ed è stata pubblicata sul
quotidiano l’Unità. Una volta che sia passata la psicosi del “default”, quale altra trovata
mediatica ci attende? Ché a dettar le regole, da sempre, sono “lor signori” ed a tutti gli altri non
resterà che stare a guardare ed a raccogliere le briciole. Che ne faremo del “default”? Bella domanda! Riuscissimo
almeno a far capire ai tanti che, da che mondo è mondo, ci sono sempre quelli,
pochini per la verità, che stanno sopra e poco o nulla hanno da perdere e la moltitudine, tanti
ma proprio tanti, che devono stare sotto a quelli e zitti! “Amen”, nel senso ebraico di “certamente”
(zitti): “Insomma io la vivo male.
Inadeguato, come se tutti avessero da sempre capito e io no. Io non ci riesco
proprio a farcela da solo, leggere il problema mi stona. Forse nel mio buio,
però, un lume lo ha acceso un’ intervista ascoltata a Radio Radicale. Un
giornalista che si occupa di economia spiegava default, la parola che tutti
fanno finta di conoscere da sempre nell’applicazione di questi giorni. Il
default degli Stati Uniti dipende dal fatto che i Repubblicani, per motivi di
rivalsa politica, non vogliono trovare un accordo con i Democratici e fare la
solita legge che sbriglia un po’ il debito pubblico (che in America ha un tetto
massimo e nel resto del mondo no) e quindi, pur di mettere in croce Obama,
strozzandolo dentro il suo sogno di stato sociale di comunità che si aiuta, pur
di fargli la pelle, si manda in fallimento lo Stato. Un fallimento tecnico, mi
pare di aver capito, come se io andassi in bancarotta perché un mio amico, al quale
devo mille euro, invece di dire come sempre: - Vabbe’, dai, firma qua anche
stavolta, me li ridarai …- me le richiedesse sull’unghia. Per carità, diritto
sacrosanto, ma per il motivo per cui possono fallire gli Stati Uniti, sarebbe
già fallito praticamente chiunque e, a rimorchio di questa battaglia politica
interna, si crea tutto il subbuglio che imbratta il mondo in questi giorni.
Boh. Sarò troppo elementare, ma perché dovrei diventare esperto di storie
simili? Perché la mia vita dovrebbe dipendere da tutto questo? A me sembra già
surreale che lo starnuto di un cavallo in Danimarca affoghi di debiti il popolo
argentino … e poco affascinante che tutti si occupino di questi temi senza, in
fondo, poterci fare nulla, che tutti facciano finta di aver capito. E da
quando? Quale era la notte in cui dormivo? Gli americani vanno falliti? Gli
Americani? Quelli che ancora oggi, nell’immaginario di tutti, vogliono dire
soldi e benessere, sorriso a mille denti e moglie carina, auto grandi e muscoli
gonfi, moto grosse e computer? Sono quelli gli americani? Gli Americani che se
arrivano loro si vince sicuro? Che è come avere tre portieri e cinque
centravanti? Che più ce n’è e meglio è?Quelli che se si rompe si butta, che
compri tre panini e ne sprechi quattro, che se non vendi schiatti e quelli che
se stai male crepi? Sono quelli gli Americani? E vanno falliti? Alla stazione
Ostiense, di questo parlavo, in attesa del treno, con una dipendente delle
Ferrovie, io in partenza con Geo per Campiglia Marittima, biciclette al seguito...
- Non capisco perché - mi diceva lei - la gente passivamente accetti di
viaggiare ammassata così, senza protestare e perché, in questa stazione, da
anni non funzionano più le scale mobili, ma ci sono venti schermi giganti al
plasma …-. Siamo noi gli americani?”
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