Da "Sono
uno sconfitto, non un vinto. Abbiamo perso la guerra del '900", intervista
di Antonio Gnoli al filosofo Mario Tronti pubblicata sul quotidiano la
Repubblica del 28 di settembre dell’anno 2014: (…). Si aspettava che la
storia -
la sua intendo - sarebbe finita così? "Ci si aspetta
sempre il meglio. Poi giungono le verifiche. Sbattere contro i fatti senza
l'airbag può far male. Sono stato comunista, marxista, operaista. Qualcosa è
caduto. Qualcosa è rimasto. Ho capito e applicato la lezione del realismo
politico: non si può prescindere dai fatti".
E i fatti parlano oggi di una grande crisi.
"Grande e lunga. Ci riguarda, a livelli diversi, un po' tutti. Dura da
almeno sette anni e non c'è nessuno in grado di dire come se ne uscirà. Viviamo
un tempo senza epoca".
Cosa vuol dire? "C'è il nostro tempo,
manca però l'epoca: quella fase che si solleva e rimane per il futuro. La
storia è diventata piccola, prevale la cronaca quotidiana: il chiacchiericcio,
il lamento, le banalità".
L'epoca è il tempo accelerato con il
pensiero. "Non solo. È il tempo che fa passi da gigante. Si verifica
quando accadono cose che trasformano visibilmente i nostri mondi vitali".
(…). È un addio all'idea di progresso?
"Il progressismo è oggi la cosa più lontana da me. Respingo l'idea che
quanto avviene di nuovo è sempre meglio e più avanzato di ciò che c'era
prima".
Fu una delle fedi incrollabili del marxismo.
"Fu la falsa sicurezza di pensare che la sconfitta fosse solo un episodio.
Perché intanto, si pensava, la storia è dalla nostra parte".
E invece? "Si è visto come è andata,
no?".
Si sente sconfitto o fallito? "Sono uno
sconfitto, non un vinto. Le vittorie non sono mai definitive. Però abbiamo
perso non una battaglia ma la guerra del '900".
E chi ha prevalso? "Il capitalismo. Ma
senza più lotta di classe, senza avversario, ha smarrito la vitalità. È
diventato qualcosa di mostruoso".
(…). Quando ha scoperto la sua parte?
"Ero giovanissimo. Alcuni l'attribuiscono al mio operaismo degli anni
Sessanta. Vedo in giro anche degli studi che descrivono il mio percorso".
In un libro di Franco Milanesi su di
lei -
non a caso intitolato Nel Novecento ( ed. Mimesis) - si
descrive il suo pensiero. Quando nasce? "Ancor prima dell'operaismo sono
stato comunista. Un padre stalinista, una famiglia allargata, il mondo della
buona periferia urbana. Sono le mie radici".
In quale quartiere di Roma è nato?
"Ostiense che era un po' Testaccio. Ricordo i mercati generali. I cassisti
che vi lavoravano. Non era classe operaia, ma popolo. Sono dentro quella storia
lì. Poi è arrivata la riflessione intellettuale".
(…). Dove ha fallito il '68? "C'è stata
una doppia strada, entrambe sbagliate. Da un lato si è radicalizzato in modo
inutile e perdente giungendo al terrorismo. Per me che sono appassionato del
tragico nella storia lì ho visto l'inutilità e l'insensatezza della
tragedia".
E dall'altro? "Alla fine il '68 fu il
grande ricambio della classe dirigente. La corsa a imbucarsi
nell'establishment".
Niente male come ironia della storia.
"Sono i suoi paradossi e le sue imprevedibilità".
E il mito della classe operaia? La
"rude razza pagana" come disse e scrisse. "Non era certo quella
che noi pensavamo. Gli operai volevano l'aumento salariale, mica la
rivoluzione. Fu una delle ragioni che mi spinsero a scoprire le virtù del
realismo politico".
Fu un addio alle illusioni? "Vedevamo
rosso. Ma non era il rosso dell'alba, bensì quello del tramonto".