Da “Basta
con le banche, il destino dell’Unione lo scelgano i popoli” di Jürgen
Habermas, sul quotidiano la Repubblica del 23 di giugno 2015: (…). L’unione
monetaria resterà instabile finché non sarà integrata da un’unione bancaria,
economica e fiscale. In altri termini, se non vogliamo che la democrazia sia
palesemente ridotta a puro elemento decorativo, dobbiamo arrivare ad un’unione
politica. (…). L’esito elettorale greco è quello di una nazione la cui netta
maggioranza insorge contro l’opprimente e avvilente miseria sociale imposta al
paese dall’austerità. In quel voto non c’è nulla da interpretare: la
popolazione rifiuta la prosecuzione di una politica di cui subisce il
fallimento sulla propria pelle. Sorretto da questa legittimazione democratica,
il governo greco sta tentando di ottenere un cambio di politica nell’Eurozona;
ma a Bruxelles si scontra coi rappresentanti di altri 18 paesi che giustificano
il loro rifiuto adducendo con freddezza il proprio mandato democratico. Il velo
su questo deficit istituzionale non è ancora del tutto strappato. Le elezioni
greche hanno gettato sabbia negli ingranaggi di Bruxelles, dato che in questo
caso gli stessi cittadini hanno deciso su un’alternativa di politica europea
subita dolorosamente sulla propria pelle. Altrove i rappresentanti dei governi
prendono le decisioni in separata sede, a livelli tecnocratici, al riparo
dell’opinione pubblica, tenuta a bada con inquietanti diversivi. Le trattative
per la ricerca di un compromesso a Bruxelles sono in stallo, soprattutto perché
da entrambi i lati si tende a incolpare gli interlocutori del mancato esito nei
negoziati, piuttosto che imputarlo ai difetti strutturali delle istituzioni e
delle procedure. Certo, nel caso di specie siamo di fronte all’attaccamento
cieco ostinato a una politica di austerità giudicata negativamente dalla
maggior parte degli studiosi a livello internazionale.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
giovedì 25 giugno 2015
mercoledì 17 giugno 2015
Lamemoriadeigiornipassati. 14 “Tsunami silenzioso”.
Ora che lo “tsunami silenzioso” – inteso come gigantesca
“ondata” di esseri umani che da una sponda all’altra dell’antico Mare tentano
di ri-conquistare una speranza di vita nuova – si abbatte sulle nostre coste sollecitando
nei nostri nativi gli atteggiamenti peggiori in fatto di rapporti umani, trovo
necessario e giusto proporre un lavoro dello scrittore-giornalista Ettore
Masina, ovvero una Sua “Lettera” – la numero 104, per come
abitualmente le catalogava – che risale al mese di gennaio dell’anno 2005, lettera
che è espunta delle notazioni personali, pur pregevolissime, e di altre parti,
per renderne più spedita la lettura, e senza nulla togliere, lo spero,
all’essenza di un messaggio Suo affinché “famiglie, scuole, comunità di fede,
associazioni culturali ma anche legami d'amore o d'amicizia, reti di libera
informazione, gruppi di solidarietà devono
diventare i luoghi di una speranza difficile ma testarda: la quale
scopre nel suo cammino che la vita è bella quando si apre a essere dono”.
Traggo quindi dalla “Lettera104” del gennaio 2005:
martedì 16 giugno 2015
Oltrelenews. 48 “Clima&Petrolio”.
Da “Effetto
serra i giochi pericolosi degli apprendisti stregoni” di Federico Rampini,
sul settimanale “Affari&Finanza” dell’8 di giugno 2015: Quaranta
dollari per tonnellata: è la carbon tax che sarebbe necessaria per ridurre le
emissioni di CO2 in misura tale da rallentare il cambiamento climatico. Ma
nessuna grande nazione è disposta a varare una carbon tax di questa entità. Gli
economisti spiegano che siamo in presenza di una classica situazione da
free-rider, come si chiama chi sale in bus senza pagare il biglietto. Una
carbon tax così elevata avrebbe forti costi sull’economia nazionale, ma i
benefici andrebbero al resto del mondo. In un’ottica di interesse egoistico e
di breve periodo, ciascuno calcola che conviene che siano altri a pagare.
Questo spiega perché i progressi nella lotta alle emissioni carboniche siano
insufficienti. La frustrazione spinge gli esperti a cercare un altro tipo di
soluzione: la geo-ingegneria. Tecnologie che rallentino il cambiamento
climatico senza passare attraverso la riduzione delle emissioni di CO2. Molti
progetti sono stati esaminati in un rapporto della National Academy of
Sciences, “Climate Intervention: Reflecting Sunlight to Cool Earth”. La maggior
parte delle soluzioni di geo-ingegneria punta a riflettere la luce del sole,
cioè a rinviarla al mittente per attenuarne l’effetto riscaldante. Si tratta di
imbiancare la terra: le pareti dipinte di bianco garantiscono un ambiente più
fresco perché il bianco riflette la luce, l’assorbe di meno dei colori scuri.
Un altro paragone è quello con le eruzioni vulcaniche. Dopo il vulcano Pinatubo
nelle Filippine (1991) ci fu un abbassamento di mezzo grado
nella temperatura della terra. Il Pinatubo aveva proiettato nella stratosfera
20 milioni di tonnellate di anidride solforosa, le cui particelle rispecchiano
i raggi del sole e schermano la terra. I progetti di geo-ingegneria puntano a
provocare l’equivalente artificiale delle eruzioni usando mezzi tipo cannoni o
missili che lancino nella stratosfera particelle di zolfo. Il rapporto
dell’Academy mette in guardia contro i rischi che corriamo giocando agli
apprendisti stregoni. Le finte eruzioni vulcaniche affronterebbero solo un
problema – la temperatura – ma lascerebbero intatti altri effetti
dell’inquinamento come l’acidità degli oceani. Né siamo sicuri che i benefici
delle eruzioni artificiali sarebbero equamente ripartiti su tutte le zone del
mondo. Questo apre la possibilità che le geo-ingegneria sia usata per scopi
bellici: manipolando il clima per colpire i propri nemici.
domenica 14 giugno 2015
Oltrelenews. 47 “Salvinichi?”.
Da “Renzi ha
finito le metafore, aiuto” di Daniela Ranieri, su “il Fatto Quotidiano” del
29 di novembre dell’anno 2014: (…). Ma adesso qualcuno comincia a
sospettare che l’abuso di metafore sia un’abile strategia per mascherare la
mancanza di strategie. Matteo ha unito un naturale istinto affabulatorio a un
uso bellico, di sfondamento, della supercazzola di Monicelli. Nativo televisivo
coi riflessi da Ruota della fortuna, ha mostrato la sua marcia in più rispetto
al più grande inventore di sineddochi e di racconti paralleli al vero della storia
italiana (quello de “i ristoranti sono tutti pieni”) portando alla ribalta un
linguaggio inaudito, fresco, tutto giochi di parole e rime spassose.
Intelligenza rapida, talento da battutista, propensione alla vanagloria: gli
ingredienti c’erano tutti per fare di uno scalatore da sezione di provincia il
narratore di una nuova nazione, fuori dalla gora della crisi e dei tecnicismi
fallimentari. Ed è nato Matteo Renzi: a metà tra il cazzaro da Bar dello Sport
e il grande statista, lui stesso metafora vivente (ultima spiaggia,
rottamatore), Matteo ha pescato nei simboli più potenti dell’immaginario
nazionale una caterva di metafore efficaci, mediaticamente pro-attive,
familiari e gagliarde, per forma e lunghezza destinate a finire nei titoli dei
giornali e nei 140 caratteri di Twitter. E ha funzionato, finora. Dài Matteo,
facce ’n’altra metafora. (…).
giovedì 11 giugno 2015
Cosecosì. 98 “I tecnici”.
“I tecnici”, “esperti”
ma non troppo. Oggi sarebbe il caso che non si parlasse di loro. Ché ben altri
affanni stanno ad assediare ed insidiare le nostre già magre esistenze.
Parliamo allora degli “esperti”. Non capisco perché oggi
li si voglia nomare “tecnici”. Forse per il fatto che la tecnica abbia invaso così
prepotentemente, stravolgendole, le nostre esistenze? Bisogna pur riconoscere
che essa, la tecnica intendo dire, ha reso un tantino più semplice la nostra
vita. È che è stata la politica ad avere decretato l’abbandono del termine “esperti”
per rifugiarsi in quell’equivalente oggigiorno di gran moda. Ma forse dietro
l’ambiguità della scelta si nasconde l’imbroglio. E l’imbroglio sta nel fatto che
quelli della “casta” – copyright di quel grande che è Gian Antonio Stella; e
maledizione torniamo a parlare di quelli! –, che risultano non essere esperti
in nulla, hanno trovato molto meglio definire
“tecnici” i momentanei soccorritori alle loro deficienze, termine
che lascia tutto nel vago in un malandato paese nel quale di “tecnici”
se ne ritrovano a milioni, basti pensare a tutti i “tecnici” che dal lunedì
al sabato sera disquisiscono di tattiche,
moduli e quant’altro afferisce al disincantato, corrotto mondo del
calcio. Cosicché utilizzando a piene mani come “fonema” il termine “tecnici”
si dice e non si dice di un qualcuno chiamato all’ardua impresa, e tutto resta
nell’ambiguo, stante proprio quella moltitudine di “tecnici” che albergano spensierati
nelle ridenti contrade del bel paese. Che in più quel “tecnici” ha il pregio di
poter essere appiccicato a chicchessia. Tanto è vero che, in quelle ridenti e
verdi contrade, sia potuto accadere che i “tecnici” abbiano mutato in un sol
giro di danza la loro pelle e siano divenuti arditamente di quelli della “casta”
mostrandone le insufficienze, le megalomanie e la spaventevole sfrontatezza.
Una piroetta di quei voltagabbana dei “tecnici” che non abbisogna di
esempi per essere confermata, tanti ce ne sono stati nei decenni passati, di
esempi intendo dire, che pur volendone scacciare il ricordo pessimo che hanno
dato nel loro operare una traccia indelebile rimarrà nell’immaginario
collettivo per l’eternità.
lunedì 8 giugno 2015
Oltrelenews. 46 “Vae victis”.
Da “Impresentabili.
E mezza Italia fugge dalle urne” di Silvia Truzzi, intervista a Enzo
Bianchi priore di Bose su “il Fatto Quotidiano” del 2 di giugno 2015: (…). Diceva
Bertrand Russell che “senza moralità civile le comunità periscono; senza
moralità privata la lorosopravvivenza è priva di valore”. (…). Padre Bianchi
che cosa pensa del fatto che in questo turno elettorale abbia scelto di votare
un cittadino su due? - Nella nostra società c’è crisi di fiducia e questa
incapacità a porre fiducia negli altri, nella polis e in una convergenza
politica si aggrava nei confronti dei politici perché questi oggi risultano
sovente inaffidabili: ogni giorno veniamo a conoscenza di accuse di corruzione
e di illegalità… Sovente, poi, anche quando i politici non sono corrotti,
risultano cattivi maestri per il loro stile: anziché essere esemplari, non
aiutano né la qualità della convivenza né la formazione di un consenso
politico. Ci sono cattivi maestri che disprezzano le istituzioni, delegittimano
gli avversari politici, appaiono arroganti nel linguaggio e nei comportamenti,
non sopportano le critiche e agiscono da capi di una corte da loro stessi
creata, fino a gestire il potere in modo egocentrico. Quando i politici
chiedono atti di fede nella loro persona senza mostrare un progetto elaborato
dall’insieme delle istanze sociali e con un’alta qualità di socialità, allora
risultano inaffidabili. Sono veramente pochi i politici che nel tempo mostrano
di meritare il potere che esercitano -. Quali sono secondo lei le circostanze e
gli atteggiamenti che più separano il popolo dalla politica? - Ormai la
distanza dal popolo è enorme, perché la classe politica si mostra incapace di
ascoltare i bisogni più profondi delle persone, di pensare al futuro del Paese
e di interpretare il potere in modo coerente con una democrazia matura e
plasmato da un autentico servizio alla polis. Sempre più autoreferenziali,
sempre più caratterizzati da un comportamento ostentato proprio di chi ritiene
di non dover rendere conto ai cittadini, di fatto alimentano una separazione e una lontananza nei loro
confronti.Quando dei politici mostrano di non aver vergogna e di non voler
rispondere alla giustizia, quando sono incapaci di mantenere una postura
irreprensibile secondo la nostra Costituzione e le leggi dello Stato, allora
non meritano la fiducia. Così sono sempre più numerosi i cittadini che, turbati
e scandalizzati, ricorrono al voto di protesta o trascurano le loro
responsabilità civili oppure smettono di interessarsi della cosa pubblica -. Qualche
speranza che la situazione cambi? - Già da anni lamentavo di come stessimo
andando verso una deriva, verso una barbarie sempre più profonda. Mi pare che
non ci siamo ancora arrestati su questo cammino: si ripetono gli stessi errori,
le stesse persone più volte condannate vengono presentate ugualmente al voto
dei cittadini.Così questi, piuttosto che dare un assenso a persone di cui
diffidano perché prive di qualità morale, nella loro impotenza disertano le
urne. Oggi è prassi diffusa sfuggire alle responsabilità della vita sociale e
pubblica: dominauna rinuncia sistematica alle risposte che ciascuno è chiamato
a dare, ma se manca la responsabilità, allora la polis viene corrosa e non ci
sono più legami sociali. Ci potrà essere speranza solo se si inizia a metter
fiducia nella communitas della quale si fa parte e se si sa rinnovare
quotidianamente questo atto di fiducia. Ma per questo occorrerebbero anche
progetti sociali, politiche e visioni tesi non all’interesse contingente e
particolare. I cittadini devono poter scegliere i propri rappresentanti tra
persone oneste, preparate e capaci di esemplarità civile -.
sabato 6 giugno 2015
Oltrelenews. 45 “Finanza vs economia”.
Da “Troppa
finanza poca economia” di Marco Panara, sul settimanale “Affari&Finanza”
del 27 di ottobre dell’anno 2014: La più sintetica fotografia del nostro tempo
difficile è nel rapporto tra due numeri, nella cui gigantesca differenza si
annidano gran parte dei pericoli che ci minacciano. Il primo è 75 bilioni di
dollari, 75 mila miliardi, l’ammontare del prodotto lordo mondiale nel 2013. Il
secondo è 993 bilioni di dollari, 993 mila miliardi, l’ammontare delle attività
finanziarie globali alla fine dello scorso anno. Oggi ambedue i numeri sono già
più alti, e quando nei prossimi mesi avremo i dati del 2014 dovremo cominciare
a familiarizzarci con un nuovo termine: trilione, fino ad oggi utilizzato solo
dagli informatici per contare i bit della capacità di calcolo e dagli astronomi
per misurare la distanza tra le stelle. Dal 2015 lo useremo anche in economia
per dare un nome a quella inquietante montagna di attività finanziarie che avrà
superato il picco del milione di miliardi, un trilione appunto.
venerdì 5 giugno 2015
Cronachebarbare. 35 “Trilaterale e democrazia decisionista”.
Càspita se non capita in questi giorni liquidi. Capita
che all’improvviso veda il viso e lo sguardo dell’interlocutore cambiare quella
espressione assorta e pensosa che avevano
assunto all’inizio del discorrere. Ché dell’esercizio della dialettica “quellichelasinistra”
ne avevano fatto un segno distintivo, unico nel panorama della cosiddetta “buona
politica”, monopolizzandolo quasi quel segno, vessillo da esibire con
grandissimo orgoglio in contrapposizione alle altre pubbliche rappresentazioni della
politica che della dialettica se ne facevano beffa se non altro ancora. E si scorga
su quel viso ed in quello sguardo farsi largo una espressione non più assorta e
pensosa, bensì ilare, di finta considerazione e comprensione del ragionare dell’interlocutore,
di commiserazione, espressione che è ad un passo dal compatimento dell’altro con
quell’atteggiamento tipico di quelli che non menano un passo se non per dire
che “così va il mondo”. E poiché esistono ancora nel buon lessico di “quellichelasinistra”
parole e termini che erano in un tempo andato - per “quellichelasinistra”
- verità incrollabili e che nel tempo
liquido presente sono capaci invece, più di ogni altra cosa al mondo, di
indurre quell’insana ilare commiserazione, ecco come un riflesso pavloviano
comparire, con sopracciglio aggrottato, quello sguardo di compatimento al solo
accennare a quello straordinario “1789” ed a quell’anelito di libertà
che ne venne dalla Francia liberata da un “feudalesimo” ancora imperante. E così
pure nel ricordare e nominare quell’incredibile “1848” che vide la comparsa
di quel “Manifesto” – “spettro” nell’Europa del tempo - redatto
a quattro mani dal “moro” di Treviri. E quel riflesso ancora quando si va a
ricordare l’anno “1948”, ovvero l’anno che diede alla luce qualcosa di veramente
straordinario, quella che è stata definita la “Dichiarazione universale dei
diritti umani”. Accade così di citare – maldestramente – la Nadia
Urbinati che sul quotidiano la Repubblica del 22 di maggio scorso ha scritto in
“I rischi di chi decide senza deliberare”:
giovedì 4 giugno 2015
Oltrelenews. 44 “Rimettianoiinostridebiti”.
Da “Perché
il consumismo spiega tutto del nostro tempo” di Giorgio Bocca, sul settimanale
“il Venerdì di Repubblica” del 21 di dicembre dell’anno 2010: L’ideologia
dominante del tempo in cui viviamo non è socialista o liberista, ma consumista,
vale a dire un’abbondanza che ricopre e nasconde tutto, per il comodo dei
ricchi e la rassegnazione dei poveri. In che consiste? Nel non dar tregua ai
viventi, nel riempire ogni spazio ancora lasciato al pensiero critico. Come una
nevicata di marzo con fiocchi larghi e pesanti che rende il monto tutto uguale.
Ogni giorno, su tutti i media dell’universo, fotografie e biografie, opere e nome
di uno scrittore sconosciuto che ha venduto un milione di copie del suo ultimo
libro negli Stati Uniti e in altri mercati non controllabili, e che sia vero
non importa, basta che la gente lo creda. E tutti si sentano come un Jack
London che scrive il suo capolavoro in una notte al lume di candela, destinato
all’immortalità. La fortuna è per tutti a ogni angolo di strada. C’è il regista
che sta girando il film della sua vita e dall’archivio è già salita in
redazione la sua biografia, nota a tutti , scritta si direbbe da sempre, e lui
è vezzeggiato da tutti i giornali. Per quanto tempo? Uno o due giorni di
copertine e di interviste, e poi via nell’abbondanza che ricopre ogni cosa come una nevicata di marzo. Il
sociologo De Rita ha detto una verità che spiega tutto o quasi del nostro
tempo: viviamo nell’abbondanza, i consumi sono in crisi perché non ci manca
nulla, i poveri davvero poveri, quelli che non hanno i soldi per acquistare ai
saldi, sono una minoranza, una grande minoranza, ma che non ha più diritto di
apparire, di contare nella società. Il consumismo ossessivo è la forma attuale
della conservazione sociale del denaro e dei privilegi. Nell’era
dell’abbondanza alla gente non basta il necessario, vuole o sogna
l’eccezionale, il lussuoso, lo strano. Guardate le riviste di moda. Nei tempi
della modestia pubblicavano i modelli per la gente povera, i cappellini, le
camicette disegnate da modiste di provincia, da copiare con la macchina da
cucire comprata a rate. Adesso, nel tempo del consumismo divorante, ci sono le
sfilate dei sarti famosi con i modelli non solo per i ricchi, ma per i
ricchissimi, da sogno per la stessa moda, pellicce e ornamenti da nababbi che
pochi naturalmente compreranno o indosseranno, ma che molti ormai desiderano. E
non si desiderano solo gli abiti, anche i modelli e le modelle: efebi e dee che
vivono solo nelle fantasie che la gente
ha della ricchezza. Ma non scherziamo sul consumismo ossessivo: è oggi la forma
più sicura di investimento. I bisogni normali sono limitati al mangiare,
dormire, avere un tetto. Ma i bisogni immaginari sono infiniti, e cadono su di
noi come una nevicata di marzo con i fiocchi larghi che coprono tutto.
mercoledì 3 giugno 2015
Oltrelenews. 43 “Ripresa-ripresina”.
Da "La
ripresa c'è ma è troppo debole, a trainarla finora è solo l'export" di
Eugenio Occorsio, intervista alla economista Lucrezia Reichlin - della London
Business School – pubblicata sul quotidiano la Repubblica del 28 di febbraio
2015: "Il dato dell'Istat, e il moderato ottimismo che ha generato, non
mi stupiscono perché è quasi fisiologico che un'economia si riprenda dopo una
recessione. I segnali positivi sono cominciati ad arrivare da ottobre ma, dato
il ritardo con cui i dati sono stati pubblicati, si può stimare che l'economia
abbia ricominciato a marciare fin da settembre". (…). Certo, è una
"ripresina", ma per noi che eravamo abituati al segno negativo... È
solo una questione di cicli? "Con la mia società di ricerca Now casting
economics che analizza i dati in tempo reale, stimiamo anche cifre più alte,
+0,16%, una previsione più ottimistica di quella della Commissione europea. Non
scordiamoci però che la ripresa dell'Italia è più anemica di quella della
Spagna, della Francia e della Germania. In senso relativo non andiamo bene. E
questo è particolarmente preoccupante perché noi siamo il paese che, dopo la
Grecia, ha avuto la maggiore perdita di Pil (e produzione industriale) dalla
crisi del 2008". (…). Renzi naturalmente si attribuisce buona parte del
merito. È riuscito a iniettare almeno un po' di fiducia, di dinamismo? "Renzi
ha tanti meriti e sicuramente l'ottimismo aiuta in economia. A mente fredda,
però, non direi che si possa facilmente identificare un nesso tra le sue
politiche e la ripresa. La ripresa italiana è correlata a quelle delle altre
economie europee. E' in parte anche da attribuire alla ripresa Usa, molto
robusta, e alle politiche della Bce che hanno agito su tasso di cambio e costo
del credito, e ancora al ribasso del prezzo del petrolio e a una minore
incertezza sulla crisi europea". Quando andrà a regime il Jobs Act ci
saranno risultati visibili in termini di occupazione? "Speriamo! Non
scordiamoci però che per gli investitori i fattori chiave sono burocrazia,
corruzione e sistema giudiziario. Bisogna andare avanti su tutti i
fronti". (…). Quali saranno gli effetti positivi del QE e qual è la
possibilità di un vero trasferimento all'economia reale con l'uscita dalla
deflazione? "L'effetto del QE in qualche modo c'è già stato. Nel momento
stesso in cui una politica del genere è annunciata e quindi attesa, si riflette
subito su tasso d'interesse e tasso di cambio. Ne stiamo già beneficiando. Ma
uscire dalla deflazione non sarà facile. Il mercato del lavoro è ancora molto
debole, gli investimenti e la crescita della produttività molto bassi. Una
crescita trimestrale di 0,16% che fa sperare un tasso per il 2015 intorno
all'1% non è del tutto confortante".
martedì 2 giugno 2015
Capitalismoedemocrazia. 53 “Lupi a Wall Street”.
Scriveva Antonio Gramsci in una Sua lettera del 9
di febbraio dell’anno 1924 – riportata in “La
formazione del gruppo dirigente del Partito Comunista Italiano” di Palmiro
Togliatti (pagg. 196-197) -: Nei paesi a capitalismo avanzato, (…), la
classe dominante possiede delle riserve politiche e organizzative che non
possedeva per esempio in Russia. Ciò significa che anche le crisi economiche
gravissime non hanno immediate ripercussioni nel campo politico. La politica è
sempre in ritardo e in grande ritardo sull’economia. Un vaticinio dinnanzi
allo squagliarsi della politica a fronte di una crisi economica che è divenuta planetaria
gli esiti della quale non si intravvedono ancora. E sì che di guru se ne sono
susseguiti a bizzeffe che intravvedevano “luci in fondo al tunnel” e quant’altre
amenità che si sono dissolte con un niente dinnanzi ad una “crisi” per la quale
non servono gli artefizi finanziari per venirne a capo. Ora dato per scontato
che una certa parte politica sia da vedere schierata tout-court con l’esistente,
ciò che colpisce è la cecità e la mancata azione di contrasto da parte di
quella politica che avrebbe dovuto fronteggiare l’esistente per arginarne l’azione
dirompente e distruttiva di risorse economico-finanziarie a tutto vantaggio
della speculazione più selvaggia ed a-morale. Chiude il Suo reportage - “Waal
Street. Tornano i lupi” – pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 26 di
maggio scorso Federico Rampini con questa osservazione: I lupi sono tranquilli, hanno
dalla loro un ceto politico acquiescente, e un mondo del risparmio
anestetizzato dai rialzi delle Borse. Fino al prossimo... incidente di
percorso.
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