Uno spettro s’aggira per le verdissime contrade del bel paese. E
non è lo spettro del “comunismo”, morto e sepolto, com’è,
sotto le sue stesse macerie ideali e materiali e che sopravvive solo nelle
ossessioni di qualche sprovveduto, attempato manutengolo della Storia; e non è
il “lumpenproletariat”
immaginato e tanto temuto dal barbuto uomo di Treviri. È qualcosa di peggio e
di più. È lo spettro del moderno uomo – al di là del genere - “dissociato”,
dissociato con sé stesso e con la propria coscienza d’appartenenza, del moderno
“proletario”
che sfugge alle classificazioni sociologiche e/o politologiche sinora conosciute
e che, per una parte, accetta di consegnare la fatica del proprio lavoro e le
speranze della propria vita futura migliore ad una contrattazione valoriale e
monetaria sempre più al ribasso con i padroni nuovi delle ferriere e che dall’altra,
al contempo, svende i propri diritti di cittadino, che gli appartengono dal
secolo dei lumi in poi, e che non ha più nulla da dire sui fatti importanti
della sua vita e sull’organizzazione politica, sociale e strutturale del suo
paese. Espropriato, volontariamente, o inconsapevolmente sino a qual punto è
arduo assai definire – “la democrazia non è uno sport da
spettatori. Se tutti stanno a guardare e nessuno partecipa, non funziona più”,
secondo il pensiero di Michael Moore - , di tutto ciò che rientri a buon titolo
nelle sue responsabilità di cittadino responsabile e riflessivo.
Ha scritto
tanto tempo addietro, nell’oramai remoto anno 2011, Giacomo Papi un pezzo che
ha per tritolo “I proletari” e che al tempo è stato pubblicato sul
supplemento “D” del quotidiano “la Repubblica”: (…). Nell'antica Roma, a partire
dal VI secolo a.C., i proletarii erano quei cittadini che, possedendo soltanto
la prole, i figli, venivano esentati dal pagare le tasse (Tito Livio, Ab Urbe
Condita, I, 42-43). Molti secoli dopo, il genio di Karl Marx applicò il termine
ai poveri della rivoluzione industriale, ma era un'espressione vecchia già
nell'800 perché soltanto nelle società agricole la prole rappresenta una
ricchezza. Chi la utilizza oggi che i figli sono un mutuo inestinguibile e i
privilegiati sono le coppie Dink (Double Income No Kids - Due Entrate Senza
Figli), può farlo solo per ignoranza o civetteria. I poveri, ovviamente,
esistono ancora, ma la loro condizione è esplosa in una serie di disagi non
riconducibili a un'unica tipologia. (…). …in Italia, a partire dagli ultimi
decenni del '900, la centralità storica del proletariato era stata rimpiazzata
da un nuovo tipo economico e culturale - che chiamerei il somatario - ovvero da
chi possiede o crede di possedere soltanto il proprio corpo. È una classe
sociale composta soprattutto, ma non esclusivamente, di giovani donne, che vive
in palestra, spiaggia, discoteca, happy hour e showroom. Sono somatari i trans
per strada, chi si ammazza di anabolizzanti e chi s'indebita per gonfiarsi le
labbra, sono somatarie le ragazzine dei casting televisivi e quelle alloggiate
a Segrate. Possono essere più o meno ricchi, avere più o meno successo, ma
restano gli ultimi, anche se credono di essere i primi. Quella del somatario è,
infatti, una condizione culturale prima che economica, che deriva dalla
convinzione profonda - assorbita attraverso decenni di televisione, moda e
pubblicità - che bellezza e giovinezza siano l'unico capitale su cui puntare.
La regola, anzi, è che meno cultura si possiede, tanto più corpo si crederà di
avere. Un eventuale manifesto del somatariato dovrebbe partire da cinque
proposizioni. 1) Il somatario si crede ricco perché concepisce il proprio corpo
come un bene di lusso; 2) Il somatario sa di possedere un capitale deperibile.
È conscio, perciò, che dovrà investire molto per mantenerlo giovane e bello. E
che deve sbrigarsi; 3) Poiché si autoconcepisce come merce, il somatario
circonda sempre il proprio corpo di oggetti di lusso (abiti griffati, gioielli,
auto) che diventano protesi di un corpo a un tempo animato e inanimato,
irripetibile e seriale, un po' come il guscio sul mollusco; 4) Il somatario
sarebbe sorpreso di essere chiamato sfruttato, perché la pubblicità gli ha
insegnato che la merce domina sempre chi la compra; 5) Poiché il corpo è per
definizione individuale, i somatari difficilmente potranno concepirsi come
classe sociale e lottare per obiettivi comuni. Viene in mente la profezia del
1926 di Gafyn Llawgoch, l'anarchico gallese: - Il socialismo perderà perché il
capitalismo convincerà i servi di essere padroni -”. Come riaccendere
la speranza di un risveglio del nuovo “proletario”, come far maturare la
consapevolezza della propria condizione che non è mutata di fatto dai tempi
della denuncia letteraria dei Dickens, degli Hugo, ché tale rimane nella
ineguale globalizzata distribuzione della ricchezza saldamente in mano ai pochi
avventurieri delle finanza creativa, risveglio dicevo che si dispera di
verificare? È il motivo per il quale il primo maggio lo si celebra sempre più
stancamente; non ci resta che il “concertone”! E del Giacomo Papi,
del quale si è già letto sopra la sempre bonaria e graffiante assai scrittura,
tale da poterlo oggigiorno annoverare, secondo la vulgata della novella scuola
di pensiero meglio conosciuta come “cambiareverso”, quale “gufo”,
“rosicone”
o meglio “disturbatore sociale” propongo di seguito la lettura di una “provocazione”,
tratta anch’essa, la provocazione intendo dire, dal pezzo che al tempo ha avuto
per titolo “Il 1° maggio. La lezione di
Erminio, uno che di lavori se ne intende”, pubblicato sempre sul
supplemento “D” del quotidiano “la Repubblica”: (…). Per milioni di esseri umani
consumare è diventato una specie di lavoro retribuito in merce invece che in
denaro. Anche perché è sempre più faticoso: confrontare le tariffe telefoniche,
tenere a bada bollette e abbonamenti, collezionare punti e carte fedeltà,
avventarsi sui saldi, controllare qualità, stagionalità e provenienza di ciò
che si mangia sono attività che richiedono competenze e attenzione prima
impensabili. I più fortunati possono sottrarsi all'angoscia del risparmio, ma
lo stress della scelta non lascia scampo a nessuno. In un supermercato di
Milano ho contato 127 tipi di yogurt (al netto dei gusti e confezioni) e 159
articoli in promozione. Dieci anni fa i torpedoni arrivavano al Duomo di Milano
dalla provincia, oggi dal Duomo partono due navette al giorno per l'outlet di
Serravalle Scrivia. Il consumo ci definisce oggi quanto e più del nostro
lavoro, che non rappresenta più l'unico metro del nostro successo e
rispettabilità. La crisi del lavoro affonda anche qui: nella sua progressiva
irrilevanza come fattore di cittadinanza sociale di fronte all'avanzata del
consumo. Parlando da Washington a una riunione del Fondo monetario
internazionale, il ministro Giulio Tremonti (siamo sempre nell’anno
2011 n.d.r.) ha risposto a chi gli chiedeva conto di una disoccupazione giovanile
al 30 per cento: "In Italia ci sono 4 milioni di immigrati, tra cui
moltissimi giovani che lavorano da mattina a sera e anche di notte. Il lavoro
non manca. Non mi risulta che tra i giovani immigrati ci sia
disoccupazione". È vero, ma se da decenni il messaggio è che il nostro
dovere è comprare - anche a credito, anche a rate - allora lavorare per due
soldi diventa un'attività antisociale. Gafyn Llawgoch, il grande anarchico
gallese, lo aveva previsto già nel 1926: - L'utopia segreta del capitalismo è
la ricchezza dispiegata, è un mercato pieno di compratori e traboccante di
merci dove nessuno sarà più in grado di fare altro che comprare -. (…). Bene.
Cosa fare al cospetto della “progressiva irrilevanza come fattore di
cittadinanza sociale” del lavoro al tempo del “jobsact”? Invocare la
“magna carta”? Inutile. Essa è quanto di più vecchio e stantio, quanto di più
“sovietico” ci possa essere ad imbrigliare l’azione travolgente dei reggitori
moderni della “cosa pubblica”. È vietato invocare la “carta”. E del resto quale
forza politica potrebbe ergersi a paladino della difesa della sacralità del
lavoro? I nuovi soggetti che cercano di ispirarsi a quella che un tempo era la
cosiddetta “sinistra” tentano, ma inutilmente, di sopperire al grande tradimento della vecchia guardia. Ha scritto di recente Curzio
Maltese sul settimanale “il Venerdì” del 10 di aprile ultimo – “Bergoglio come Piketty: la prossima guerra
sarà tra ricchi e poveri” -: (…). Il Papa dice, (…), cose di “sinistra”.
Parla di povertà, disoccupazione, sfruttamento, guerra. Francesco, gesuita
colto e intelligente, ha di sicuro letto (…) sulla trasformazione della società
in oligarchia, dove l’un per cento della popolazione, attraverso crisi periodiche
e ormai strutturali, si arricchisce sistematicamente rispetto al 99 per cento.
La paura di Francesco è che questa colossale ingiustizia possa sfociare in una
catastrofica guerra globale, ed è la stessa opinione di molti altri circoli
intellettuali laici, premi Nobel e associazione pacifiste. (…). Se Francesco ha
ragione, come l’ebbero molti suoi predecessori, siamo alla vigilia di grandi
mutamenti nella coscienza dei popoli. Come non ricordare, in queste “divagazioni”
per il prossimo 1° di maggio, quei meravigliosi ragazzi di “Zuccotti Park” che
furono i primi a lanciare il grido indignato contro quell’”1% vs il 99%” del
resto del genere umano. La “catastrofe” è alle porte?
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