Non so di Voi, ma da qualche anno a questa parte
vado conducendo una mia personale lotta, come un penultimo dei Mohicani, contro
il rischio della collettiva “scarnificazione del pensiero”. È che
da lungo tempo ho individuato tra i maggiori, subdoli artefici di quella “scarnificazione”
il piccolo mostro domestico. E poi, a discendere per “li rami”, i responsabili
massimi li ho individuati nei cosiddetti “talk-show televisivi”. A nessuno di
Voi sarà sfuggita l’inutilità di quelle trasmissioni di pseudo-informazione. Da
anni sono un disertore puntuale di quelle che definisco le colpevoli scempiaggini
del piccolo mostro. Non so per Voi, ma allontanare da me quelle inutili, dannosissime
trasmissioni ha comportato la riconquista di quella serenità che gli schiamazzi
e le scempiaggini ascoltate per anni e anni avevano di fatto distrutto. A questo
proposito ho trovato interessante una riflessione di Bruno Tinti su “il Fatto
Quotidiano” del 16 di maggio ultimo che ha per titolo “L’insopportabile truffa dei talk-show televisivi”.
Scrive l’illustre
notista: I talk-show: letteralmente, lo spettacolo della conversazione. (…). …lo
scopo dei cosiddetti ospiti è far fare una figura barbina agli altri, ognuno
cercando di dimostrarsi più bravo, più spiritoso, più autorevole. E siccome, in
queste trasmissioni, gli ospiti sono sempre tantissimi, il risultato è una
rissa permanente, fatta di persone che si interrompono, si parlano addosso,
qualche volta si insultano, sempre si deridono. Se poi si tratta di politici,
il pronome io è quasi sempre sostituito dal pronome noi; quasi che una
stupidaggine condivisa da molte persone (…) cessi di essere una stupidaggine.
Tra questa gente, l’intellettuale, la persona colta, colui che sa e ha
informazioni da condividere, è messo nell’impossibilità di intervenire. Non
solo perché tutti gli altri lo soverchiano con il loro schiamazzo; ma anche
perché lo stesso conduttore mal tollera un’argomentazione che superi i 2, 3
minuti. Sicché quando non sono gli altri a interrompere, è lui stesso a
sollecitare un intervento pur che sia. E
poiché, come ho detto, lo scopo dei partecipanti allo show non è quello di
dibattere ma quello di apparire o, quantomeno, oscurare gli altri, il risultato
è un cicaleccio assordante, privo di significato e molto irritante. (…). Mi
chiedo (…) come sia possibile che la cosiddetta audience raggiunga misure tanto
elevate; che gli spettatori siano davvero interessati a queste esibizioni di
superficialità e aggressività. (…). Nell’organizzazione sociale odierna (…) la
cultura è assoggettata all’industria del divertimento: deve intrattenere,
distrarre, illudere. Esattamente il contrario di quanto faceva prima che la
maggioranza delle persone cominciasse a detestare di pensare. È per questo che
parlare alla pancia della gente è molto più produttivo di consenso che parlare
alle loro teste. (…). Insomma, i talk-show sono una truffa: promettono un
approfondimento che è – in realtà – una mistificazione. E sono anche
pericolosi: perché chi li segue ne esce convinto di sapere. Sarebbe il
caso di dire che essi, i “talk-show televisivi” per l’appunto, siano i massimi
responsabili della “scarnificazione del pensiero” collettivo ed in pari tempo i
massimi responsabili della riduzione della prassi democratica ad una mera,
vuota rappresentazione. Donde ne deriva che il personale aggiornamento debba
avvenire per canali che rifuggano da quelle becere rappresentazioni. Ne va
della personale salute mentale. A questo scopo vado percorrendo e scandagliando
da anni quelle che vengono definite “scuole di pensiero”. Poiché è certo che
per qualsivoglia attività degli esseri umani esistano sempre due o più contrapposte
“scuole di pensiero”. Su tutto lo scibile dell’Uomo che sia tale. Come prescritto
dal cartesiano “Cogito ergo sum”. E non poteva sfuggire, alle cosiddette “scuole
di pensiero”, l’attività umana per eccellenza, ovvero quella legata al danaro
ed alle sue mille forme di utilizzo. Ce ne ha fornito prova Federico Rampini
sul settimanale “Affari&Finanza” del 16 di giugno con un pezzo, come sempre
lucidissimo, che ha per titolo “Krugman-Summers
i nuovi profeti della stagnazione secolare”. Ha scritto in proposito: Fa
proseliti illustri la teoria secondo cui siamo entrati in una stagnazione
secolare. L’ultimo è Paul Krugman, che ha dedicato una serie di commenti sul
suo blog a questa tesi. Fa notizia, perché così facendo Krugman si schiera con
Larry Summers. (…). Il punto di partenza in comune è l’osservazione che il
capitalismo ebbe tre motori di crescita dalla Rivoluzione industriale inglese
in poi: crescita economica, crescita demografica, accelerazione del progresso
tecnico. La crescita economica non sarebbe stata così diffusa e vigorosa, o
forse non ci sarebbe stata affatto, senza il contributo di una popolazione in
aumento e del flusso di innovazioni tecnologiche che migliorano la
produttività. Ora il mondo intero è di fronte a una “transizione demografica”,
come la definisce Krugman riprendendo un termine in voga tra gli specialisti.
La caduta della natalità non è più soltanto un fenomeno tipico dei paesi ricchi
ad antica industrializzazione. Il rallentamento demografico si estende dal Nord
al Sud, dall’Occidente all’Oriente, coinvolgendo un gigante come la Cina.
Perfino nelle economie emergenti, o ex-emergenti, non si può dare per scontato
che la denatalità si fermi sulla soglia del quoziente di sostituzione, il
numero di 2,1 figli in media per ogni donna che garantisce la stabilità della
popolazione. (…). Mai nella storia post-Rivoluzione industriale, l’umanità
intera aveva dovuto fronteggiare una transizione demografica di questo genere.
Affrontare la questione dello spopolamento, è difficile perché suscita reazioni
immediate: in un pianeta sottoposto al saccheggio delle risorse naturali, una
robusta corrente di pensiero ambientalista vede la decrescita (almeno quella
demografica) come una benedizione. (…). Krugman usa una metafora: le nostre
economie e i nostri sistemi sociali sono strutturati come delle biciclette, se
si fermano perdiamo l’equilibrio e cadiamo. La risposta al declino demografico
va cercata sia sul fronte del progresso tecnologico, sia una diversa
organizzazione sociale. Ma siamo ancora ben lontani. È che percorrendo e
scandagliando quelle vie che portano alle cosiddette “scuole di pensiero” mi
ero imbattuto il 4 di novembre dell’anno 2012 in un pezzo molto interessante di
Paolo Guerrieri pubblicato sul quotidiano l’Unità che ha per titolo “Il rischio del ristagno globale”, che è
l’equivalente della “stagnazione secolare” secondo la vulgata della “scuola di
pensiero” targata “Krugman-Summers”. Come
dire, nulla di nuovo sotto questo cielo. Scriveva Paolo Guerrieri che… (…).
…a cinque anni dall’inizio della grande crisi lo stato dell’economia globale
appare tutt’altro che rassicurante. (…). In assenza di significativi mutamenti
si profila il rischio concreto per tutta l’area avanzata, inclusi Stati Uniti e
l’area Euro, di un periodo prolungato di ristagno economico, stile giapponese,
che si potrebbe estendere di qui al 2020. (…) …la causa di fondo di andamenti
così deludenti è largamente condivisa: l’esplosione di una crisi economica e
finanziaria, completamente diversa da quelle cicliche del secondo dopoguerra e
derivante da un eccesso strutturale di debiti, sia privati che pubblici,
finalizzato a sostenere per oltre dieci anni, grazie alla smisurata crescita dell’intermediazione
finanziaria, domanda di consumi e bolle immobiliari, coinvolgendo
famiglie-consumatori, banche e governi. Da qui ha preso, poi, le mosse un
processo prolungato e costoso di forzoso deleveraging (riduzione
dell’indebitamento), al fine di aggiustare i dissestati bilanci. È un processo
tuttora in corso e che continuerà a lungo, come dimostrano analoghe esperienze
del passato. È sempre l’esperienza storica a insegnarci che una crisi da
eccesso di debiti ha due maggiori conseguenze. Una di natura politica legata
alla distribuzione dei costi del necessario aggiustamento, sia tra Paesi – in
Europa coinvolge Paesi creditori e debitori – che all’interno dei Paesi,
soprattutto tra comparto finanziario e settori dell’economia reale. La seconda
è una conseguenza più di carattere economico, in quanto il deleveraging finisce
inevitabilmente per creare un vuoto di domanda effettiva, a livello nazionale e
globale, che è il fattore determinante del ristagno prevalente in tutta l’area
avanzata. (…). Si può uscire da questa trappola del ristagno? Soluzioni
economiche in realtà esistono. Certo non generici sostegni alla domanda di
consumo; servono in realtà, unitamente a riforme strutturali nei singoli Paesi,
massicci investimenti a medio e lungo termine, pubblici e privati, in una serie
di comparti in grado di creare posti di lavoro oggi e accrescere la
produttività in futuro (quali in particolare infrastrutture materiali e
immateriali, istruzione, mobilità, energie rinnovabili). Solo in questo modo
sarà possibile stimolare la domanda e aggirare contemporaneamente le
strozzature esistenti dal lato dell’offerta, sia nell’area più sviluppata che
in quella emergente. (…). Non Vi sembrano del tutto evidenti la inutilità
e la perniciosità, per la democrazia, di tutti quegli strombazzamenti
miracolistici che i nostri tromboni, vecchi, meno vecchi e ultimamente giovani,
della politica e dintorni si peritano di diffondere attraverso la truffa del
secolo, ovvero i “talh-show televisivi”? Disertateli!
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