“Inferno. Perché l’uomo ha bisogno che il male venga punito” è il
titolo di una riflessione del teologo Vito Mancuso pubblicata sul quotidiano la
Repubblica del 13 di giugno ultimo. È che il novello vescovo di Roma, con la
sua predicazione “assordante”, prova a mettere in forse le tante “credulità”
che le religioni ammanniscono in abbondanza. Si chiede l’illustre teologo nell’incipit
della Sua riflessione: Esiste l’Inferno? (…). Già Platone nutriva
la convinzione che l’aldilà riservi «qualcosa di molto migliore per i buoni che
non per i cattivi» (Fedone, 63 C) e Kant a sua volta ha affermato: «Non
troviamo nulla che già sin d’ora ci possa fornire ragguagli sul nostro destino
in un mondo futuro se non il giudizio della nostra coscienza, quello che il
nostro stato morale presente ci permette di giudicare in maniera razionale» (
La fine di tutte le cose ). Ma il Kant è puranco quel grande che ebbe a
dire: "Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre
nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di
esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me”. Dell’infernale
problema mi ero interessato in un post del 21 di maggio dell’anno 2007 in
quella rubrichetta senza pretese che aveva per titolo “Se il divino diviene il problema”.
Scrivevo allora: Dell’“inferno”. Elucubra il giovane Fert.
Supportato nella bisogna dai sacri testi. Compulsa tomi, libercoli, incunaboli.
Volumi polverosi. Formidabili menti lo aiutano a penetrare il mistero. Fert,
giovane dottore in filosofia del diciottesimo secolo. Allora e come prima e
come sarà per il domani, un inferno la terra per i tanti. Da un inferno
trapassano poi in quello creato dall’onnipotente. Amarissimo destino. Inferno
in terra. Inferno in cielo. O al centro profondissimo della terra. Così dicono
gli arguti dottori. L’imperscrutabile dio lascia intendere chiaramente per la
qualcosa “vuole un teatro dei supplizi”.
Quei dannati, di già destinati all’inferno, hanno poco da fare; il loro
destino è di già segnato. Giusto creare un posto ove accogliere le moltitudini
di già dannate “ab inizio mundi”. Dannati nella mente dell’imperscrutabile
divino. Inutile agitarsi. Che lo abbiano capito argutamente in quanto uomini di
fede profonda? Avrebbero allora fatto ricorso al libero loro arbitrio?
Intricata questione. Senza libero arbitrio non c’è storia. Atti buoni ed atti
cattivi stanno riposti in quella mente suprema. Tanto vale non arrovellarsi.
C’è l’inferno già scritto per i tanti già dannati sulla terra. Allora è tanto
meglio concedersi delle libertà in terra. Nulla varrebbe a cambiare un destino
di già segnato. Orribile la fantasia dell’onnipotente: solo una mente incline alla
persecuzione atroce potrebbe mettere in atto simili torture. Lo affermano i
dottori sagaci, profondi conoscitori dell’onnipotente. Riporta Fert degli
illustri dottori le convinzioni maturate con l’ausilio dell’ispirazione divina.
È il giovane Fert incontrato nell’“Armatura”
di Franco Cordero – pagine 497/499 -. Che elucubra con dolorosissimo senso
della pietà. Manca al divino la pietà. “(…).
Che l’inferno esista, lo provano argomenti ed esempi. Dove? Al centro della
terra, secondo una ‘communis amnium doctorum opinio‘, tranquillamente
condivisibile. Luogo enorme, vista la quantità dei pazienti, donde un dubbio:
non hanno corpi sottili, quindi compenetrabili; può contenerne tanti? Risponde
Riccardo da san Vittore: stanno compressi ‘in cavitate terrae‘, come le pecore
quando fa freddo; se lo spazio è poco, Iddio l’aumenta ‘iuxta suum beneplacitum‘.
Chi vi cade resta, salvo che sia miracolosamente risuscitato: rimane laggiù, a
guisa d’una mola sul fondo del mare; ‘avernus’, significa ‘sine vere‘, dove non
viene mai primavera, posto ‘intemperantissimus‘ e pene inesorabili, senza il
minimo addolcimento. Se non esistesse l’inferno, l’opera cosmogonia sarebbe
imperfetta. Guillielmus Parisiensis spiega che ottima cosa sia averlo
istituito. Lo imponevano quattro ragioni, rectius tre: ogni dimora regale ha
delle segrete; previene i peccati disseminando salutare paura; punisce le
offese alla maestà divina. Gl’interni superano l’immaginabile. Doctor Raulinus
pennella horribilia cominciando dal fuoco physico sensu: autentiche
combustioni, però non richiedono legna; sant’Agostino adduce l’esempio dei
vulcani, attivi ‘ab inizio mundi‘ e mai spenti; fiamme buie, ardono i corpi dei
dannati senza consumarli; dovunque vadano, se le portano dietro. Punto
interessante, quando Iddio l’abbia creato; e risposta impeccabile: ‘ab inizio
mundi‘, prima che cadessero gli angeli. Il corollario sottinteso dissipa ogni
dubbio sui fini: l’Onnipotente esce dal sonno, stende lo scenario cosmico,
evoca puri spiriti e uomini, perché vuole un teatro dei supplizi; l’inferno è
il fine. Gli abitanti patiscono simultaneamente fuoco e freddo. Nei quattro
fiumi infernali, Flegetonte, Stige, Lete, Cocito, scorrono acque nere
fumiganti. ‘De ululatu damnatorum‘: bestemmiano; vorrebbero non essere nati (dunque,
non è un bene l’esistere, come insegna quel sornione di san Tommaso);
maledicono i genitori. Tra gli aneddoti pesco quello del monaco morto: i
confratelli cantano l’ufficio funebre; all’Agnus Dei salta su vomitando parole
blasfeme, senza contare i gesti; ‘ego in ipsa flamma Tartari sum‘; gli astanti
pregano battendosi il petto; finalmente, torna in sé, rinuncia al diavolo e chi
non rinuncerebbe nel suo stato?; resa piena confessione, trapassa comme il
faut. La sua colpa era d’avere fornicato, tacendolo al confessore. Particolare
notevole: i diavoli s’accaniscono sui magnati. Pier Damiani racconta d’un tale
che, vedendo bagliori dal vulcano, pronostica categoricamente; tra poco morrà
qualche ricco atteso all’inferno; non sa d’essere lui; muore nel coito ‘cum
meretrice‘; le stava sotto; accortasi del cadavere, se lo scrolla inorridita.
(…)”. Fin qui la stupenda narrazione letteraria di Franco Cordero che
mette in bocca alla Sua creatura Fert le sensibilità proprie d’un uomo del
secolo diciottesimo. Vito Mancuso, dottore teologo del secolo ventunesimo, sempre
a proposito dell’inferno elucubra: Tutte le grandi religioni insegnano che
l’anima sarà giudicata: gli egizi mediante l’immagine della psicostasia o
pesatura dell’anima (ripresa anche nel medioevo cristiano), lo Zoroastrismo e
l’Islam mediante il simbolo del ponte escatologico sottile come un capello su
cui le anime appesantite dal peccato precipiteranno senza scampo, l’Induismo e
il Buddismo mediante il concetto di karma che determina le successive
reincarnazioni. Lo scenario è comunque lo stesso: 1) c’è una logica che
struttura il farsi del mondo; 2) la libertà umana è chiamata a rispondervi; 3)
la qualità della risposta determinerà il giudizio che l’attende, quando la
libertà verrà meno di fronte alla logica cosmica; 4) il giudizio può avere
esito negativo. Ciò che il cristianesimo chiama Inferno, laicamente è il
fallimento, nel senso che la libertà può fallire e un’intera esistenza
rivelarsi sprecata. (…). Naturalmente (…) non consegue per nulla la sicurezza
sull’esistenza dell’Inferno- Paradiso e di Dio, tutto ciò rimarrà sempre e solo
oggetto di fede. Da ciò consegue piuttosto una domanda per ogni persona
responsabile: l’amore per il bene e per la giustizia che talora si accende in
noi è solo un personalissimo anelito oppure è la manifestazione di una logica
più grande a cui originariamente apparteniamo? Vengo alla seconda questione
(…), quella dei criteri che nel giudizio finale determinano la perdizione o la
salvezza. La tradizione cristiana afferma da un lato che ci si salva grazie
alla fede, dall’altro grazie al bene compiuto. A cosa però spetta il primato:
alla fede professata o al bene praticato? E chi andrà all’Inferno: i non
credenti o gli iniqui? Ancora oggi alcuni cristiani sostengono il primo polo
dell’alternativa sottolineando l’irrilevanza della dimensione etica per il
destino finale, giocato interamente sull’adesione allo “scandalo” della fede di
cui parlava san Paolo esemplificata dal noto detto di Lutero che invitava pure
a peccare ma a credere ancora di più (pecca fortiter sed fortius crede). Il
Papa (…) ha detto esattamente il contrario: all’Inferno ci andranno gli iniqui,
i corrotti, chi vive solo per il denaro e fa male al prossimo. È il pensiero di
Gesù quale appare dal Vangelo con i criteri del giudizio finale basati non
sull’adesione dottrinale ma sulla pratica del bene: «Avevo fame e mi avete
saziato, avevo sete e mi avete dato da bere…» (Mt 25, 35 e 42). Anche questa è
una convinzione universale. Per limitarmi alla religione dell’antico Egitto,
nella pesatura dell’anima del defunto il contrappeso era la piuma della dea
Maat, personificazione della Giustizia. Ma ancora più notevole è la somiglianza
tra il brano evangelico citato e un passo del Libro dei Morti: «Ho soddi-
sfatto Dio con ciò che ama. Ho dato pane all’affamato, acqua all’assetato,
vesti all’ignudo, una barca a chi non ne aveva». Queste parole risalgono a 1500
anni prima di Cristo. (…). Penso e apprezzo che sia la linea del
novello vescovo di Roma per il quale “all’Inferno ci andranno gli iniqui, i
corrotti, chi vive solo per il denaro e fa male al prossimo”. Tanti mal
di pancia per tutti coloro che, professando una finta fede, hanno creato un
inferno in Terra per la stragrande maggioranza degli esseri umani. “Tempora bona
veniant”?
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