Per un fatto straordinario ed in
verità alquanto strano è capitato che sia stato proprio il quotidiano della
cosiddetta “borghesia” a rivelare
agli italiani una delle anomalie proprie del disastrato paese. Ha scritto
infatti Gian Antonio Stella - “I reati
finanziari invisibili” - sul “Corriere della sera” del 27 di gennaio 2014: (…).
…nelle nostre carceri, il 16% dei condannati con pena definitiva è dentro per
omicidio, il 5,3 per stupro, il 14,0 per rapina, il 5,3 per vari tipi di furto,
il 39,5 per droga il 16,4 per reati vari ma su tutto spicca vergognosamente
quello 0,4% dei detenuti per reati economici e finanziari, incluse le
fatturazioni false. Cioè l’unica imputazione che può portare un evasore a
varcare i cancelli di un penitenziario. Prova provata di come da noi i colletti
bianchi siano trattati in maniera diversa, molto diversa, da come sono trattati
i colpevoli di reati in qualche modo, diciamo così, «plebei». È la conferma di
una certa idea della società che fu riassunta da Franco Frattini: «I reati di
Tangentopoli non creano certo allarme sociale. Nessuno grida per strada “Oddio,
c’è il falso in bilancio!” ma tutti si disperano per l’aggressione
dell’ennesimo scippatore». Sarà… Ma è un caso se poi gli investimenti stranieri
si sono pressoché dimezzati in Italia passando a livello mondiale dal 2% del
2001 all’1,2% di oggi? Non va così, dalle altre parti. (…). …è che in Germania
i detenuti per aggressione e percosse (7.592) o per rapina (7.206) sono
addirittura meno di quelli sbattuti in galera per reati economici e finanziari:
8.601. I quali sono più o meno quanti i carcerati (8.840) per droga. Solo i
detenuti per vari tipi di furto (12.628) sono di più. Ma non molti di più. È
un’altra visione del mondo. L’idea che un’economia sana abbia bisogno del
rispetto delle regole. Lo «spread» tra la nostra quota di detenuti
per reati economici e finanziari e quella degli altri Paesi, del resto, è
vistoso non solo nei confronti della Germania. In rapporto agli abitanti, i
«colletti bianchi» incarcerati in Italia sono un sesto degli olandesi, un
decimo degli svedesi, degli inglesi e dei norvegesi, un undicesimo dei
finlandesi, un quindicesimo degli spagnoli, un ventiduesimo dei turchi fino
all’abisso che ci separa dai tedeschi. (…). Pensateci bene: su
questo fronte siamo i primi della classe! Da noi delinquono tutti tranne quelli
che un tempo venivano definiti i “colletti bianchi”. Ovvero delinquono
e come i “colletti bianchi” ma nelle carceri non ci vanno a finire mai se
non nella miserrima percentuale di “quello 0,4% dei detenuti per reati
economici e finanziari, incluse le fatturazioni false”. È il paese di
bengodi. Nelle carceri del bel paese i “colletti bianchi” sono come le
mosche bianche. Avete mai vista una mosca bianca? Provate a trovare uno dei “colletti
bianchi” nella anguste, sovraffollate carceri italiane. Tutto ciò sta a
dimostrare l’arretratezza politico-sociale del bel paese. Tutto ciò sta a
dimostrare anche quanto la legge sia disuguale nel bel paese. Ed a portarne la
responsabilità storica è quella che un tempo veniva definita la “borghesia”
delle arti, delle professioni e dei mestieri. Il 21 di ottobre dell’anno 2011
postavo su questo blog una riflessione dal titolo “Capitalismo e democrazia”. Ripropongo di seguito in parte il post
di allora che ha inizio con una riflessione del “Moro di Treviri”:
(…). La borghesia, noi lo
vediamo, è essa stessa il prodotto di un lungo processo di sviluppo, di una
serie di rivoluzioni nei modi di produzione e di comunicazione. Ogni tappa
dell’evoluzione che la borghesia ha fatto era accompagnata da un corrispondente
progresso politico. Ceto oppresso dal dispotismo feudale, associazione che si
auto-governa nel Comune; ora repubblica municipale ora terzo stato tributario
della monarchia: poi, all’epoca della manifattura, contrappeso della nobiltà
nelle monarchie a potere limitato o assoluto; quindi pietra angolare del potere
delle grandi monarchie; la borghesia, da quando si sono affermati la grande
industria e il mercato mondiale (“mercato mondiale”; non è un “errore” di Marx,
anche se il Manifesto è del 1848 n.d.r.), si è finalmente impadronita del
potere politico nel moderno Stato rappresentativo, escludendone tutte le altre
classi.(…). La borghesia ha svolto nella storia un ruolo essenzialmente
rivoluzionario. Dovunque ha preso il potere, la borghesia ha calpestato i
rapporti sociali feudali, patriarcali e idilliaci. (…). La borghesia ha fatto
affogare l’estasi religiosa, l’entusiasmo cavalleresco, il sentimentalismo del
piccolo borghese nelle acque ghiacciate del calcolo egoistico. Essa ha fatto
della dignità personale un semplice valore di scambio; ha sostituito alle
numerose libertà, conquistate a caro prezzo, l’unica e spietata libertà del
commercio. In una parola; la borghesia ha messo al posto dello sfruttamento
velato da illusioni religiose e politiche uno sfruttamento aperto, diretto,
brutale e spietato. La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte le
professioni fino ad allora considerate venerabili, e venerate. Ha trasformato
il medico, il giurista, il prete, lo scienziato in lavoratori salariati. La
borghesia ha strappato il velo di sentimentalismo che ricopriva i rapporti
familiari, riducendoli a puri e semplici rapporti monetari. La borghesia ha
dimostrato come le brutali manifestazioni di forza dell’epoca medioevale, tanto
ammirate dalla reazione, trovano il loro naturale complemento nella pigrizia
più crassa. È la borghesia che per prima ha dato la prova di ciò che l’attività
umana può compiere: creando ben altre meraviglie che le piramidi d’Egitto, gli
acquedotti romani o le cattedrali gotiche; e conducendo ben altre spedizioni
che le antiche migrazioni dei popoli e le crociate. La borghesia non può
esistere se non a patto di rivoluzionare incessantemente gli strumenti di
lavoro, vale a dire il modo di produzione, e quindi tutti i rapporti sociali”. Mi si perdoni la lunga citazione. Essa è
tratta da quel libello che ha avuto la forza di cambiare il corso della Storia
grande. Lo si potrebbe definire un “incunabolo” poiché esso rappresenta la
stampa primigenia del movimento operaio internazionale. La citazione è tratta
da il “Manifesto del Partito Comunista” - capitolo primo “Borghesi e proletari”-
di Marx ed Engels. In essa, nella citazione intendo dire, si parla della “borghesia”
e del suo ruolo straordinario, nel bene e nel male, nel progresso della umana
convivenza. Scrive, tra l’altro, l’Uomo di Treviri: “La borghesia ha svolto
nella storia un ruolo essenzialmente rivoluzionario. Dovunque ha preso il
potere, la borghesia ha calpestato i rapporti sociali feudali, patriarcali e
idilliaci”. Ovvero, l’Uomo di Treviri parla della “borghesia” del fare, delle
arti liberali. Oggigiorno sembra che la “borghesia” sia scomparsa dagli
orizzonti sociali. A seguito di una “mediatizzazione” selvaggia delle moderne
società essa è stata di fatto surclassata da quello che viene definito il “ceto
medio”. Un “ceto medio” poco riflessivo, solo per usare le categorie care al
professor Paul Anthony Ginsborg, molto
ma molto mediatizzato. Della morte della borghesia ne ha scritto Simonetta
Fiori sul quotidiano “la Repubblica” intervistando il professor Giuseppe De
Rita, “La fine della borghesia”, in occasione della pubblicazione del
volume “L’eclissi della borghesia” edito
da Laterza – De Rita-Galdo (2011) pagg. 92 € 14,00 -, intervista che di seguito
propongo in parte.
Che fine ha fatto la borghesia? E
perché è scomparsa? (…). La borghesia è sepolta, o forse non è mai nata. Una
certificazione di morte. «Direi meglio, la fine di una speranza. S'è esaurita
l'idea di una classe dirigente capace di farsi carico degli interessi
collettivi. Sin dall'origine dello Stato nazionale, ci siamo illusi che da
segmento relativamente piccolo - spazio intermedio tra cultura popolare e
cultura d'élite - questo gruppo sociale sarebbe cresciuto fino a governare le
sorti del paese. Questo non è accaduto. O è accaduto fino a un certo punto».
(…). Quando comincia il declino?
«Negli anni del boom economico, con la grande avventura dell'italiano medio. È
stata la cetomedizzazione della società italiana - mi piace chiamarla così - a
causare la definitiva eclissi della borghesia».
Come è accaduto? «Fino agli anni
Cinquanta la società era divisa in tre fasce. La classe esigua dei padroni. La
classe numerosa di braccianti e operai. E un ristretto ceto medio, tra
amministratori di latifondo e impiegati dello Stato. Tutto cambia quando scatta
la molla del benessere. Allora si mette in moto un processo di imborghesimento
collettivo. Una vera esplosione che risucchia dall'alto e dal basso tutti i
settori della società».
(…). Qual è la differenza? «Si
perde di vista l'interesse collettivo. Prevale il primato del benessere e della
sicurezza, nell'indifferenza verso gli altri. In altre parole, lo spazio
intermedio precedentemente occupato dalla borghesia viene invaso da questo
nuovo ceto, che è preoccupato solo di mantenere lo status raggiunto e non
riesce a esprimere una classe dirigente dallo sguardo lungo».
Ma perché accade in Italia e non
altrove? Il boom economico non fu una nostra peculiarità. «La nostra
peculiarità fu una Democrazia Cristiana che costruì il suo consenso sui cosiddetti
collaterali: i coltivatori diretti, gli artigiani, i sindacati scolastici, le
cooperative bianche. (…).». Lei sta dicendo che per cinquant'anni abbiamo
favorito le corporazioni, le categorie, le piccole tribù? «Sì, l'abbiamo fatto
usando il carburante della spesa pubblica. Lo Stato è diventato un gigantesco
erogatore. E con i suoi soldi il ceto medio italiano ha visto garantiti
benessere e stili di vita superiori alle proprie possibilità».
Ci siamo illusi di non essere più
poveri, ma in realtà abbiamo continuato a esserlo. «L'economista Vittorio Parsi
sostiene che in tutti i processi storici c'è un soggetto che garantisce il
sistema e poi ci sono i free riders che fanno i loro affari. (…).
Che c'entra l'Italia? «Per vari
decenni lo Stato italiano ha avuto il ruolo di Grande America, ossia ha
garantito il contesto entro cui i free riders hanno potuto fare le loro
scorrerie: gli imprenditori sommersi, gli artigiani senza fattura, anche i
supplenti della scuola che chiedevano di entrare in ruolo. Tutto ciò ha
rosicchiato le finanze pubbliche ma ha eroso anche il contesto. (…).”
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