"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 25 giugno 2014

Uominiedio. 14 “Il boss e il prete”.



Sostiene il novello vescovo di Roma che “all’Inferno ci andranno gli iniqui, i corrotti, chi vive solo per il denaro e fa male al prossimo”. È la buona novella tanto attesa. Lo ha sostenuto in vista, forse, della implorata “scomunica” per i malavitosi. Un bel passo avanti. Ma venendo al merito ed alla Storia è sempre accaduto che la “scomunica” abbia riguardato una parte del cosiddetto popolo di Dio, quello non avvezzo alla malavita. La si è invocata ed irrogata per i più vari motivi, religiosi, politici ed anche per il vivere coniugale o familiare non in linea con la predicazione della chiesa di Roma. Non soccorrono occasioni per le quali si sia sentita tuonare quella chiesa per i malavitosi che abbiano a delinquere nelle più svariate forme. È che i malavitosi in tutte le forme hanno da sempre rappresentato il potere, la lusinga del quale ha sempre attratto gli attori di quella religione fattasi chiesa. Chiesa potente e nel tempo intollerante nei confronti di chi attentasse alla sua pratica del potere pur se risultasse, quella pratica, distante assai dall’annunciazione evangelica. E sulla “scomunica” come arma terribile per soggiogare non già i malavitosi ma, il più delle volte, l’inerme popolo di Dio riottoso, ne ha scritto il teologo Vito Mancuso sul quotidiano la Repubblica del 23 di giugno col titolo “La scomunica come arma contro l’eresia criminale”.
L’illustre studioso ha dato di conto di quell’utilizzo della “scomunica” finalizzato a tacitare le libere coscienze innanzitutto scrivendo:  La durissima arma del bando dalla comunità ecclesiale fu usata anche contro la libertà di coscienza in materia di teologia con le scomuniche che colpirono teologi e predicatori come Ian Hus e Girolamo Savonarola (entrambi finiti sul rogo), oppure il patriarca di Costantinopoli Michele Cerulario e qualche secolo dopo Martin Lutero e a seguire tutti i protestanti. A questo proposito penso sia doveroso ricordare quanto avvenne nel 1561 proprio in Calabria, sempre in provincia di Cosenza, (…), cioè il massacro di circa 3000 valdesi da parte delle truppe inviate dal grande inquisitore fra Michele Ghislieri, divenuto in seguito papa Pio V (anzi san Pio V!). Ed è impossibile non menzionare le scomuniche che colpirono due sacerdoti come Romolo Murri ed Ernesto Buonaiuti. (…). Ora io chiedo (…) se sia giusto accostare nella stessa pena criminali che adorano il male e sinceri credenti che cercano (magari anche forzando i tempi) di rendere la Chiesa davvero una casa accogliente per tutti. Me lo chiedo e sento che sia giusto rispondere che non lo è. (…). Una coraggiosa ammissione dell’improprio utilizzo della “scomunica” da parte di quella chiesa che vorrebbe essere universale. Ed aggiunge, calando la Sua riflessioni ai tempi correnti: Un tempo (…) quando un papa lanciava l’anatema della scomunica succedeva per tutti qualcosa di concretamente serio, all’interessato venivano a mancare tutti i rapporti sociali necessari all’esercizio del suo ruolo, oppure, nel caso fosse già nelle mani del potere ecclesiastico, veniva consegnato al braccio secolare che comminava la pena, non di rado capitale. Ancora nella prima metà del ‘900 Ernesto Buonaiuti dovette soffrire la fame per essere stato scomunicato a causa delle sue ricerche storiche e delle sue tesi teologiche, anche alla luce del fatto che, essendo stato uno dei pochissimi docenti universitari a non giurare fedeltà al regime fascista, aveva perso anche la cattedra presso l’università statale. Oggi la scomunica è ben lontana dal produrre effetti come questi. Oggi essa semplicemente prevede che lo scomunicato non possa prendere parte alle celebrazioni liturgiche e assumere incarichi ecclesiali. Fine della trasmissione. Ovvero il massimo della pena per sinceri credenti (…). (…). …il peso simbolico della scomunica colpirà la narrazione pseudoreligiosa che la mafia fa di se stessa, aiuterà a recidere i rapporti che i boss hanno avuto con le chiese locali, metterà parroci e curie davanti alle loro responsabilità, renderà sempre più difficile il consenso sociale che la criminalità organizzata cerca di creare intorno a sé. (…). E sarebbero in verità già dei grossi inattesi risultati. Nel tempo, invece, è avvenuto tutto il contrario. Ho trovato interessante quanto ha scritto in proposito Attilio Bolzoni – la Repubblica del 24 di giugno, “Il Boss e il prete” -: Chiesa e mafia, mafia e chiesa. Tutti pregano. In tasca hanno sempre un santino. O l'immagine di un Cristo, di una Madonna. Sono religiosissimi. E ostentano la loro devozione. Siciliani. Calabresi. Campani. Capi, sottocapi, soldati. Il confine è ed è sempre stato invisibile. Per secoli. Dove si riunisce ogni anno il 2 settembre la crema della 'ndrangheta? Al Santuario della Madonna dei Polsi, 865 metri d'altezza in una vallata dell'Aspromonte dove il torrente Bonamico sfiora il paese di San Luca e poi si tuffa nel Mar Jonio. Lì la Santa prende decisioni strategiche, ordina delitti, stringe alleanze e - raccontano - custodisce le 12 Tavole della 'ndrangheta. Che cos'è la mafia? «Una marca di formaggio», rispondeva Sua Eminenza Ernesto Ruffini, arcivescovo di Palermo che benediceva notabili e boss mentre stavano facendo brutta una delle città più belle del mondo. Che cos'è la mafia? «È un'invenzione dei comunisti», urlava il capo della chiesa siciliana alle folle. E intanto taceva sulle Giuliette imbottite di tritolo, le "sparatine", sulle centinaia di morti che si raccoglievano per le strade. Come si difendeva in aula nel 1951 a Viterbo - dove si celebrava il processo per la strage di Portella della Ginestra - Gaspare Pisciotta, cugino traditore del bandito Salvatore Giuliano? «Siamo un corpo solo: banditi, polizia e mafia, come il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo». Più chiaro di così. «Gesù Gesù, anche un parrino in Cosa Nostra», esclamò stupefatto Antonino Calderone guardando suo fratello Giuseppe quando gli presentarono come uomo d'onore padre Agostino Coppola, parroco di Carini. Nella sagrestia nascondeva i soldi dei sequestri di persona dell'"Anonima Liggio", qualche anno prima aveva sposato in gran segreto - insieme altri due preti della diocesi di Monreale rimasti sconosciuti - Totò e Ninetta, Salvatore Riina e Antonina Bagarella. Parrino in siciliano vuole dire prete ma anche padrino. «Io non faccio parte della chiesa ma i parrini li ho sempre rispettati», sussurrava l'assessore regionale Vincenzo Lo Giudice ai boss dell'Agrigentino prima che l'arrestassero per le sue complicità. La chiesa intesa come mafia, i parrini come mafiosi. Nei primi anni '80 abbiamo conosciuto a Palermo un prete, Fra' Giacinto - il suo vero nome era Stefano Castronovo - che andava in giro con una pistola a tamburo che però non gli servì a niente quando gli scivolarono alle spalle per "astutarlo", spegnerlo per sempre. Prima di noi, negli anni '60, i cronisti siciliani frequentavano ogni giorno le aule di giustizia del Tribunale di Caltanissetta dove venivano processati quattro cappuccini che terrorizzavano con le estorsioni gli abitanti di Mazzarino. I diavoli del convento, li chiamavano. In tempi più recenti, un segno inequivocabile della sua venerazione ce l'ha lasciato Bernardo Provenzano in quel suo miserabile covo di Montagna dei Cavalli. Inventario degli oggetti sequestrati al vecchio Bernardo: tre santini di carta raffiguranti Maria SS Addolorata-Santuario di Corleone; un santino di carta raffigurante Maria SS delle Grazie di Corleone; un santino di carta raffigurante Sacro Cuore di Gesù; un santino di carta raffigurante Cardinale Pietro Marcellino Corradini; un quadro con cornice in legno di colore marrone raffigurante e con la scritta "La Madonna delle Lacrime di Siracusa"; un quadretto, privo di cornice, in cartone raffigurante una donna e con la scritta "Maria Regina dei cuori Maria Regina delle famiglie"; due santini raffiguranti rispettivamente uno Maria SS del Rosario di Tagliavia e l'altro B. Bernardo Da Corleone Cappuccino; settantatre santini raffiguranti il Cristo con la scritta "Gesù confido in te". Ogni lettera di Provenzano spedita alla moglie cominciava con una frase: "Io con il volere di Dio...". Esiste un Dio dei mafiosi? Esiste ed è un Dio cattivo, piegato alle loro regole, un Dio che trasforma il bene in male. Così non c'è mai conflitto fra la fede e l'adesione ai principi dell'organizzazione. (…). Ci sono preti e preti. I mafiosi sono tutti uguali. (…). Come ha difeso Antonina Brusca suo figlio Giovanni accusato della strage di Capaci? «Dio sa bene come stanno le cose, io Giovanni l'ho tirato su con la religione, io sono una dama di carità, una vincenziana, io sono una persona umana e lo Spirito Santo illuminerà la mente dei giudici». Il più razionale - cartesiano - di tutti i mafiosi è senza dubbio Giuseppe Guttadauro, medico e capomandamento di Brancaccio. A proposito di mafia e chiesa diceva a un amico: «Il peccato di mafia non esiste. Dove sta scritto questo peccato? Trovati un prete intelligente che capisca queste cose ». È che l’annuncio nuovo del vescovo di Roma trova un’eco diffusa sui media. Che prova ad avvolgere la realtà storica nel rapporto chiesa/malavita dietro una nebbiosa cortina. Riporta il professor Umberto Galimberti sull’ultimo numero del 21 di giugno del settimanale “D”: (…). …visitando una chiesa alla periferia di Roma, Papa Francesco chiese alla folla che si era adunata: «Perché siete venuti in chiesa così numerosi? Immagino per incontrare Dio. Ma Dio non abita qui. Abita presso i bisognosi, i poveri, i sofferenti, gli indigenti». Ecco la grande novità di questo Papa, la cui intenzione, in questo tempo di accentuata secolarizzazione, non è quella di riaccogliere tutti per ripopolare la Chiesa, ma di aver più cura delle persone che della dottrina. E questo in conformità al messaggio evangelico dove leggiamo che, ai Farisei che biasimavano i discepoli perché, contro la norma, coglievano spighe di sabato, Gesù risponde: «Il sabato è fatto per l'uomo, non l'uomo per il sabato» (Marco 2, 23-28). Ritroviamo lo stesso motivo nella morale kantiana costruita sulla sola ragione, là dove il filosofo dice: «La morale è fatta per l'uomo, non l'uomo per la morale». (…). Fin qui le enunciazioni che nella vita più che millenaria della chiesa di Roma sono sempre rimaste ben distanti dal reale vissuto e testimoniato.

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