La Cina festeggia l’anno del
Cavallo, ma le imprese hanno già aperto la caccia agli operai. Milioni di
lavoratori, terminate le vacanze del capodanno lunare, non torneranno nei
distretti industriali. Il 30% dei posti resterà scoperto almeno fino a giugno.
Per la prima potenza produttiva del mondo è un danno miliardario, tale da
spingere le aziende a concedere bonus e aumenti di stipendio senza procedenti,
pur di non bloccare per mesi le catene di montaggio. A fine di gennaio oltre
300 milioni di operai-migranti hanno fatto ritorno nei villaggi d’origine per
le ferie. A scoraggiare un ritorno puntuale sul posto di lavoro, oltre alla
prospettiva di un altro anno in solitudine, il costo del viaggio, i salari
bassi, la nascita di piccole imprese anche nelle regioni lontane dalla costa,
il ritorno dei profitti in agricoltura. Lo scorso anno il mancato ritorno
operaio nelle metropoli industriali è costato alle imprese cinesi il 15% del
giro d’affari. Un sondaggio dell’Accademia delle scienze rivela che nessuna
azienda ha perso meno del 10% della propria forza lavoro. I capi del personale,
da Shenzhen a Shanghai, sono dunque mobilitati: chi riuscirà a convincere il
numero più alto di dipendenti a riprendere rapidamente il lavoro, passerà un
anno del Cavallo senza assistere ad un'altra fuga di massa di lavoratori verso
le potenze emergenti del Sudest asiatico. Per la prima volta la Cina fa dunque
conoscenza con un fenomeno comune nell’Occidente pre-crisi: gli incentivi. In questi
giorni a milioni di operai vengono promessi biglietti ferroviari, rimborso dei
pasti e aumento della busta paga del 10% fino a giugno. L’invecchiamento della
popolazione e la concorrenza di Cambogia, Vietnam, Mianmar e Thailandia,
aumentano le difficoltà cinesi nel fidelizzare la forza lavoro specializzata.
Chi rientra puntualmente al lavoro otterrà un premio tra i 100 e i 1000 yuan,
ma pure biglietti per le nuove lotterie aziendali, dove si vincono 1500 euro,
pari a cinque mensilità del reddito minimo. Alcuni gruppi promettono agli
operai fedeli di organizzare party aziendali, giri turistici per i week-end, di
costruire biblioteche, sale video, piscine e asili, oppure di donare
tessere-sconto per fare shopping. Nel settore elettronica, dove la manodopera è
più giovane, si offrono perfino serate romantiche per single, per favorire i
contatti in una massa operaia vittima dell’isolamento. Tra febbraio e marzo i
benefit per i ricercatissimi lavoratori fedeli saranno a doppia cifra,
prospettiva che però, in molti casi, accresce il problema del mancato rientro
dai villaggi. I dipendenti sanno che non ripresentarsi in azienda non espone
più al licenziamento, come in passato, ma offre l’opportunità di essere
premiati. Minacciare la stabilità occupazionale cinese, per l’operaio può
rivelarsi un vantaggio. Per i colletti bianchi il reclutamento si fa invece
sempre più difficile e oggi sono loro, in caso di fallimento, a rischiare il
posto: risparmiare sui premi-fedeltà può causare il crollo della manodopera, ma
promettere troppo può aumentare il ritardo del suo rientro. Anche in Asia si
apre una fase nuova. Oltre 100 milioni di lavoratori specializzati cinesi si
dichiarano pronti ad espatriare, pur di guadagnare di più e di vivere in
ambienti meno inquinati, mentre i laureati aumentano del 34% all’anno, rispetto
ad un meno 26% di operai. Non sono solo le ferie di capodanno ad obbligare le
industrie del Dragone ad andare a caccia dei dipendenti in fuga: per la Cina
termina l’era del lavoro a basso costo e la geografia globale delle
multinazionali nomadi sta per acquisire un profilo nuovo. È la cronaca
in forma di corrispondenza, sempre puntuale ed avvincente, che Giampaolo
Visetti ha fatto, sul numero del settimanale Affari&Finanza del 10 di
febbraio appena trascorso, da quell’impero che un tempo si diceva essere
celeste. Titolo del Suo pezzo: “Cina, il
caso dell’operaio che non torna dalle ferie”. Che poi è la cronaca che
mette a nudo i “vizi” vecchi e nuovi del capitalismo. “Vizi” esasperati dal
nuovo capitalismo a carattere eminentemente finanziario che sottrae al
capitalismo manifatturiero quelle risorse necessarie a garantire e gratificare
il lavoro. Capitalismo selvaggio, denudato da quella responsabilità sociale che
pur gli dovrebbe appartenere. Accadrà che da quell’opificio del mondo la fuga
delle imprese e delle aziende, sotto l’incalzare delle richieste delle
maestranze a corto di diritti e di salari di dignità, impoverirà quello che è
stato l’impero celeste, divenuto nel frattempo capitalista, per meglio
sfruttare altri angoli del pianeta Terra ove dettare la legge inesorabile del
cosiddetto “fattore limitante” del Liebig. Se ne è di già parlato su
questo blog. È tornato a questo punto della “crisi” interessante riproporre una
riflessione di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini su quella che essi hanno
definito “La deriva del capitalismo”.
L’interessante, ancor attuale riflessione è stata proposta sul quotidiano la
Repubblica il 22 di settembre dell’anno 2012. Scrivevano i due studiosi: Lo
strappo effettuato dai (…) leader conservatori, Reagan negli Stati Uniti e
Thatcher in Inghilterra, determinò un completo rovesciamento dei rapporti di
forza sia tra capitale e lavoro, sia tra capitalismo e democrazia poiché creò
una condizione di fortissimo vantaggio per le grandi imprese private nei
confronti degli stati nazionali. Da quel momento la capacità di intervento
dello Stato nell’economia andò incontro ad un drastico ridimensionamento,
mentre i lavoratori cominciarono a subire i ricatti delle delocalizzazioni
produttive. La liberazione dei capitali rappresentò dunque la mossa decisiva
che influenzò l’evoluzione dell’economia mondiale e diede l’avvio alla fase del
capitalismo finanziario. A dire la verità, anche nell’opinione degli economisti
classici la libertà dei movimenti di capitale non era stata sempre vista di
buon occhio. Un grande pensatore come David Ricardo aveva ammonito sui pericoli
inerenti alle loro libere scorribande. I capitali, aveva sostanzialmente
osservato, non sono valigie trasportabili indifferentemente da un punto
all’altro del mondo: sono elementi essenziali del contesto sociale il cui
spostamento non può non determinare conseguenze rilevanti nella sorte della
stessa coesione sociale. Per questi motivi sradicare e trasferire i capitali in
qualsiasi parte del mondo senza il consenso della comunità non può essere
considerato un comportamento virtuoso. Ma ci sono anche altre conseguenze molto
importanti, poiché si crea un mercato finanziario integrato che consente al
capitale di tutto il mondo di entrare in collegamento e di dar luogo
“all’internazionale dei capitalisti”, un’élite globale che concentra in sé un
potere immenso. L’appello di Karl Marx, “proletari di tutto il mondo unitevi”,
si realizza, ma al contrario. I mercati finanziari diventano un’istituzione
strutturata e iniziano ad esprimersi come i governi. È ben noto, infatti, che a
Wall Street si tengono riunioni periodiche dei capi delle grandi banche e delle
società finanziarie che stabiliscono i tassi di interesse e, attraverso le
decisioni di investimento o di disinvestimento, possono sfiduciare i governi
che attuano politiche economiche non gradite e sono in grado di condizionare il
destino di intere popolazioni. Il mutamento del rapporto di forza tra il
capitale e gli altri fattori di produzione da una parte e tra il capitalismo e
il governo democratico dall’altra, rappresentano due fattori fondamentali che
sono alla radice del processo di finanziarizzazione. (…). Nell’impresa i
fattori legati al profitto riprendono una posizione dominante e con essi la
distribuzione di dividendi agli azionisti e la ricerca continua dell’incremento
delle quotazioni azionarie, indice supremo di efficienza e di forza. I
finanzieri conquistano così un ruolo centrale nella gestione delle grandi unità
produttive imponendo la loro visione del mondo rappresentata dal guadagno
immediato da ottenere con ogni mezzo. Questa è la situazione che dobbiamo
rovesciare se vogliamo realmente uscire dalla crisi. (…). Ormai è evidente a
tutti che i mercati finanziari rappresentano un potentissimo amplificatore
delle fisiologiche fluttuazioni cicliche poiché innescano dei meccanismi
cumulativi che si autoalimentano. Quando c’è crescita i mercati gettano benzina
sul fuoco e amplificano l’espansione, ma quando c’è crisi i mercati spingono
l’economia verso la depressione. Per questo è necessario fare ben di più: la
politica deve tornare a fissare le regole fondamentali dei movimenti di
capitale a livello mondiale. Occorre una nuova Bretton Woods, questa volta nel
segno di Keynes. Non è una riforma. È una rivoluzione.
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