Quanto ci manca per il baratro?
Non è dato sapere. Ci sorreggerebbe la speranza. Andata però perduta negli
anni. O tutt’al più un atto di fede. Ma per chi non sia posseduto dalla fede?
L’atto di fede sarebbe utilitaristico e di conseguenza inopportuno. Potrebbe
ben essere definito di blasfemia. In verità ci rimane ben poco. Se non invocare
l’inverarsi dell’impossibile. Vedo certe facce in giro che stanno lì a
manifestare lo sconforto generale. Non sono facce rapite dal nuovo - che non
c’è -. Non sono facce estatiche in preda ad un sommovimento interiore che pare
aprirsi alla speranza. Vanno quelle facce con i loro passi e le loro
disillusioni. La rimozione delle illusioni è forte e decisa. Anche perché
disillusi da gran tempo, a far data da quella che ancor oggi viene definita la storica “discesa
in campo”. Un milione di posti di lavoro! Giù le tasse per tutti! Meno
lacci e lacciuoli per chi intraprende! Riformare
la giustizia! Bla bla bla. Tutto andato a male. Lo stacco col presente però è
netto. Quello a rappresentare le sue vane promesse su vili cartelloni. Ché con
albagia disdegnava il nuovo e si vantava di non aver letto un romanzo negli
ultimi suoi vent’anni. Il nuovo smanetta di continuo, twitta, manda sms di
continuo. Forse di continuo digita “condivido”, “mi piace”. Blatera. Ma è
il nuovo che avanza. E piace. Fino a quando? Quale sarà la differenza nei
fatti? Necessiterebbe un atto di fede. Che non c’è. Vedremo! Nell’eloquio
del premier esordiente ricorrono i gesti esclamativi, abilmente usati.
Definiamolo in greco: anziché dal nóos, organo intellettivo, sale dal thumós,
sede degli spiriti vitali; volano parole esca cariche d’effetto; e talvolta
catturano l’uditorio. Ad esempio, «rottame», da cui il verbo «rottamare»; o
«mettere la faccia»; «se questo governo fallisce, la colpa è mia»; annunciava
«una riforma al mese». Manca ancora la trama razionale: come stiano
effettivamente le cose; quid agendum ossia la scelta del fine e i motivi; fin
dove sia conseguibile; con quali risorse; come spenderle ecc. Perdurando lacune
sintattiche, siamo nella sfera del grido o segno mimico (…). Lo ha scritto
Franco Cordero sul quotidiano la
Repubblica del 4 di marzo col titolo “Il
gesto esclamativo e l’arte di governo”. Sembra essere rimasti fermi al
tempo dei tonitruanti proclami. Per il nulla. Cosa se ne ricaverà di utile?
Eppure c’era da aspettarselo uno scenario come questo. Basterebbe ritornare
alle cronache di un anno addietro, all’indomani magari di quelle che sono state
le ultime elezioni politiche nel bel paese. Se ne ritrova traccia in una riflessione
a firma di Adriano Prosperi sul settimanale Left del 27 di aprile 2013 che ha
per titolo “Un suicidio morale”.
Rileggerla oggi? Una opportunità – forse - per capire il presente. Forse.
Scriveva: Singolare quell’applauso. È pur
vero che in Italia, Paese belluinamente vitale, si applaude ai funerali.
E forse questo è il vero significato della scena. Si celebrava il funerale di un partito che
aveva raccolto la maggioranza relativa dei voti con la promessa di rispondere a
una domanda di equità, di giustizia sociale, di ritorno allo spirito della
Costituzione. La base popolare del Paese
se ne attendeva un cambiamento radicale dopo un lungo ventennio dominato
da un liberismo selvaggio che aveva impoverito la scuola e la ricerca, spazzato
via i diritti dei lavoratori, premiato la corruzione e l’evasione, alterato il
sistema elettorale, alimentato la xenofobia e il razzismo, cancellata la nozione e la realtà dei beni
comuni. Quelle domande avevano trovato
espressione pubblica in più occasioni: referendum, manifestazioni, anche
tragedie individuali, suicidi. E che altro è se non una forma di suicidio
morale la rinuncia silenziosa alla speranza di una impressionante quantità di
giovani e disoccupati? Il voto aveva dato espressione chiara a una volontà che era maggioritaria nel Paese anche se una ben
giustificata diffidenza nei confronti dei partiti che avevano sostenuto un
governo “tecnico” aveva premiato prevedibilmente il M5s. Ma ecco che, mentre
ancora si cercava la via di una maggioranza per il governo, nella scelta del presidente della Repubblica
il partito di maggioranza relativa, a cui
spettava proporre il candidato, si squagliava, balbettava, si faceva
proporre i candidati dall’avversario col quale aveva giurato di non voler più
avere rapporti, affondava una dopo l’altra le candidature dei suoi uomini più
rappresentativi, non si vergognava di bocciare dopo avere proposto e – ancora
una volta – applaudito il nome di Romano Prodi.
Ma il peggio doveva ancora arrivare: gli viene offerta su un piatto d’argento la possibilità di eleggere Stefano Rodotà, un
nome che rappresenta di per sé un programma. (…). È uno di quei casi non nuovi
nella storia dell’Italia in cui una straordinaria congiunzione di difetti,
errori, viltà, incapacità appare nel cielo del nostro disgraziato Paese. Prima
di questa settimana sapevamo che si doveva ripartire dal basso. Oggi scopriamo
che la caduta è destinata a continuare. Aspettiamo di vedere che cosa prenderà
il posto del partito che si è suicidato in Parlamento. Per la sua anima ci
vorrebbero le parole che Machiavelli immaginò dette dal diavolo a quella di un
politico fallito del suo tempo: «Che inferno? Anima sciocca, va’ su nel Limbo
fra gli altri bambini». Oggi forse abbiamo la risposta che Adriano
Prosperi cercava un anno fa. Che corrisponde al nuovo, nel senso di
avvicendamento, sullo scenario della politica. Ché, pur adottando i nuovi
strumenti della comunicazione e dell’imbonimento, percorre le vie tortuose ed
anguste di sempre. Lo scenario renziano, senza un atto di fede, non cambia e
non da inizio al nuovo. Si rifà alla Storia del secolo decimo-quarto Franco
Cordero in quel Suo pezzo scritto sempre con maestria assoluta: Nicola
nasce nella Roma ancora semigotica, primavera 1313, tra i mulini del Tevere,
sotto la Sinagoga, figlio dell’oste Lorenzo (Cola di Rienzo) e impara benissimo
l’arte notarile. L’anonimo autore d’una Cronica romanesca lo descrive ferrato
latinista: «deh, como e quanto era veloce lettore»; «tutta die» studia epigrafi
delle quali pullula l’Urbe; decifra «li antiqui pataffii», interpreta figure,
evoca tempi gloriosi. Le lapidi gli servono da scala: ha estro politicante; non
ancora trentenne, sale ad Avignone, speaker del governo popolare; e torna con
un buono stipendio, notaio del Tesoro comunale. Era posto strategico: in tale
veste sferra «luculente » arringhe» contro i magnati, talmente stupidi da
subire inerti un colpo di Stato (20 maggio 1347); nominatosi tribuno, governa a
mano dura, col favore popolare, ma ha l’Io gonfio. L’inflazione megalomaniaca
culmina nella fantasmagoria 31 luglio-1 agosto: cita Sua Santità, l’Imperatore,
gli Elettori, i pretendenti; declina titoli immaginari («Candidatus Spiriti
Sancti miles, Nicolaus Severus et Clemens, liberator Urbis, zelator Italiae,
amator Orbis, Tribunus Augustus »). Ha dei soprassalti. Venerdì 14 settembre
convoca i baroni, li imprigiona e condanna a morte ma l’indomani mattina cambia
idea, convitandoli in Campidoglio. S’è candidato all’Impero. Chiama il popolo a
parlamento e racconta dei sogni. Se ne stava sgomento quando i baroni vengono
alla Porta Tiberina, 29 novembre, avendo complici tra le mura, ma il tentativo
fallisce, allora. Canta vittoria, sfila, arringa, nega la sepoltura ai tre
Colonna morti. In fondo labile, dopo 15 giorni abdica rifugiandosi nel
Castello, indi s’imbosca tra Napoli e Roma, ospite dei francescani spirituali
sulla Maiella, poi in blanda prigionia boema dall’estate 1350, finché emissari
papali lo riconducono ad Avignone (estate 1352). Morto Clemente VI, offre
servizi nei domini italiani al successore Innocenzo (stesso numerale) e torna
al seguito del cardinale legato. Era capolavoro d’arte ipnotica il modo in cui
affascina i due fratelli del terribile e ricchissimo condottiero fra’ Moriale,
con i soldi dei quali affitta una compagnia, accolto trionfalmente, ma ormai lo
vedono deforme, malfermo, beone. La guerra contro i baroni ristagna. A
tradimento cattura fra’ Moriale, decapitato sotto il Campidoglio, sulle cui
scale mercoledì mattina 8 ottobre 1354 cade miserabilmente (tentava la fuga,
travestito da rivoltoso). (…). Dopo vent’anni d’una sbornia epica all’Italia
«proletaria» (già Pascoli la chiamava così) restano gli occhi per piangere, ma
gl’irriducibili rimpiangono l’uomo forte, taumaturgo, mago delle vie brevi,
finito orribilmente appeso come Cola di Rienzo, perché dove gl’impulsi
viscerali prevalgano sulle idee, ci vuol poco a convertirli nel contrario,
dall’entusiasmo adorante al ludibrio del cadavere. Rimane costante un’acuta
idiosincrasia: non piace chi parli poco, attento ai nessi, contando sul
raziocinio; il difetto d’enfasi è piuttosto raro e chi vi cade lo paga. (…).
Eravamo partiti dalla lingua politica italiana. Il premier in carica gioca
d’effetto innestandovi locuzioni estranee alla parlata ufficiale. L’idem
storico non esiste, irripetibile essendo ogni contesto, ma l’analogia aiuta a
capire quel che avviene. Il punto interessante è cosa sia pronosticabile sul
governo misteriosamente nato dai patti tra mercoledì 12 febbraio e l’indomani.
E la Storia sta lì a presentare i suoi corsi e ricorsi. Indifferente agli
affanni dei più.
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