“C’era una volta…”. È che quell’incipit, che tanto ci ha fatto
sognare, non vale nella storia di oggi. La storia non è mia ma l’ha raccontata,
come sempre magistralmente, Bruno Tinti su “il Fatto Quotidiano” di oggi col
titolo “Il diritto di evadere a prezzo
di favore”. Poiché quel “c’era una volta” non vale proprio
per il bel paese dell’oggi, che continua ad essere il paese di sempre. Ma quel “c’era
una volta” confesso che mi piace tanto ed allora, tanto per dare uno
smacco al mio “blocco” dello scrivano, mi sono premurato di andare a cercare
una lettura di tanto tempo fa che aveva per inizio quel magico “c’era
una volta”. E così la magia può, per incantamento, riprodursi anche se
il risveglio da essa, dalla magia intendo dire, è dei più amari che si possano
immaginare. E così…: C’era un paese che si reggeva sull’illecito.
Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su
principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema,
articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi
finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di
molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi
mezzi si potevano avere solo illecitamente, cioè chiedendoli a chi li aveva in
cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di favori, in
genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in precedenza; per
cui ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo di
una sua autonomia. Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non
era sfiorato da alcun senso di colpa, perché per la propria morale interna, ciò
che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito, anzi benemerito, in quanto
ogni gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità
formale, quindi, non escludeva una superiore legalità sostanziale.(…). Il paese
aveva nello stesso tempo anche un dispendioso bilancio ufficiale, alimentato
dalle imposte su ogni attività lecita e finanziava lecitamente tutti coloro che
lecitamente o illecitamente riuscivano a farsi finanziare. Poiché in quel paese nessuno era disposto non
diciamo a fare bancarotta, ma neppure a rimetterci di suo (e non si vede in
nome di che cosa si sarebbe potuto pretendere che qualcuno ci rimettesse), la
finanza pubblica serviva ad integrare lecitamente in nome del bene comune i
disavanzi delle attività che sempre in nome del bene comune si erano distinte
per via illecita. La riscossione delle tasse, che in altre epoche e civiltà
poteva ambire di far leva sul dovere civico, qui ritornava alla sua schietta
sostanza di atto di forza (così come in certe località all’esazione da parte
dello Stato si aggiungeva quella di organizzazioni gangsteristiche o mafiose),
atto di forza cui il contribuente sottostava per evitare guai maggiori, pur
provando anziché il sollievo del dovere
compiuto, la sensazione sgradevole di una complicità passiva con la cattiva
amministrazione della cosa pubblica e con il privilegio delle attività
illecite, normalmente esentate da ogni imposta. Di tanto in tanto, quando meno
ce lo si aspettava, un tribunale decideva di applicare le leggi, provocando
piccoli terremoti in qualche centro di potere e anche arresti di persone che
avevano avuto fino ad allora le loro ragioni per considerarsi impunibili. In
quei casi il sentimento dominante, anziché
di soddisfazione per la rivincita della giustizia, era il sospetto che
si trattasse di un regolamento di conti di un centro di potere contro un altro
centro di potere.(…). E qui mi fermo in quella storia di un certo tempo
andato che è iniziata con l’immancabile, magico “c’era una volta”. Avrete
certamente riconosciuto la penna arguta di Italo Calvino in quel Suo “Apologo sull’onestà nel paese dei
corrotti” pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 15 di marzo 1980.
1980! Un altro mondo. Un altro tempo. Ma la storia dell’oggi non abbisogna, dicevo,
del magico “c’era una volta”, poiché quel “paese dei corrotti” sta
sempre lì, a farsi rimirare nella sua sempiterna bruttura. E Bruno Tinti ce la
racconta poiché è una storia che ha vissuto in prima persona. Quindi… Conducevo
un’indagine nei confronti di un medico: il dottor Bisturi, uno importante,
molto noto, ottima clientela. Dai primi sommari accertamenti contabili e
bancari sembrava che rubasse al Fisco 300.000 euro all’anno: un “nero” da
600.000 euro, niente male. Cominciai la solita routine: estratti conto bancari,
sequestro contabilità, fatture, ricevute… E poi tutto ai due marescialli della
Gdf che lavoravano in ufficio con me: studiate, incrociate i dati, trovate
altri conti bancari se ce ne sono, cercate cassette di sicurezza, insomma
guadagnatevi lo stipendio. Il medico aveva nominato un avvocato molto bravo che
gli aveva subito spiegato l’abc dell’evasore sottoposto a indagine: stai
tranquillo, non fare niente, penso a tutto io. “Quello che dobbiamo fare – gli
aveva detto – è ridurre al massimo l’ammontare dell’evasione. Qualcosa resterà,
è inevitabile; ti costringeranno a pagarla e dovrai anche pagare le sanzioni ma
qui c’è poco da fare. Sul piano penale, niente di che: la tariffa per questo
genere di cose varia tra 8 mesi e 5 mesi e 10 giorni; con la condizionale,
niente prigione. Quindi stai sereno e lavora molto perché dovrai pagarmi una
sontuosa parcella e questa sì che sarà una pena concreta”. L’avvocato aveva,
naturalmente, ragione. Questi processi sono come una messa: un rito che gli
iniziati conoscono benissimo e che non cambia mai; indagini, processo, condanna
a pena modestissima e condizionale. Ma il dottor Bisturi non gli credette. Così
un bel giorno i miei due giannizzeri, i marescialli che stavano studiando le
carte, arrivarono nel mio ufficio: “Ma lo sai che Bisturi ha tentato di corromperci?”.
“Ma che dici?”. “Sì, sì; è arrivato il capitano Paghetta (era quello addetto
all’ufficio stipendi, ovviamente amico di tutti i finanzieri) e ci ha detto
che, se davamo una mano al dottor Bisturi, questi ce ne sarebbe stato
eternamente grato, pensa un po’”. “Ma siete sicuri?”. “Certo, come no”.
Richiesta al Gip di custodia cautelare per tentata corruzione e capitano
Paghetta arrestato. Luogo di detenzione: una stanza sita tra l’ufficio del
Colonnello comandante il Nucleo di Polizia Tributaria e quello del suo
aiutante; di fronte, nel corridoio, il bagno: una pensioncina a una stella.
Dopo un rapido tira e molla, il capitano confessa: “Un mio amico, il signor
Ortofrutta, mi ha chiesto un favore…”. Stessa procedura con Ortofrutta: “Va
bene, è vero. Il dottor Bisturi è un mio carissimo amico. Lo vedevo così
abbattuto, poverino. Gli ho detto che conoscevo il capitano Paghetta, forse
potevo aiutarlo. Mi faceva pena, è tanto una brava persona…”. Così anche il
dottor Bisturi finisce nella pensioncina a una stella. E lì confessa anche lui.
Il suo avvocato è furibondo: “Ti avevo detto di stare tranquillo. Che ti è
venuto in mente!”. E anche a me è venuta questa curiosità. Perché tutto questo
casino per 5 mesi e 10 giorni con la condizionale? E gliel’ho chiesto. La
risposta è stata istruttiva. “Vede – mi disse il dottor Bisturi – io lo sapevo
che rischiavo poco o nulla: un po’ di soldi e una piccola pena. Ma ero
angosciato, non capivo più niente. Il fatto è che ho lavorato per 15 anni negli
Stati Uniti. E lì l’evasione fiscale è una cosa seria. Intanto ti sbattono in
galera per 5, anche 10 anni. Ma l’avvocato me lo aveva detto che questo non
sarebbe successo. Però lì c’è la perdita di status sociale. Se ti succede una
cosa del genere, per prima cosa ti cacciano dal country club; e poi non vengono
più a casa tua per i barbecue di fine settimana. Tua moglie non è più invitata
alle gare di torta alla frutta tra le mamme del complesso residenziale dove
abiti. E, dopo un po’, anche la clientela ti abbandona. Ecco, io ero
terrorizzato per tutto questo”. Capito perché in Italia la lotta all’evasione
fiscale è impossibile? Negli Stati Uniti i cittadini e lo Stato sono uniti
contro gli evasori: la società li emargina e lo Stato li sanziona. Nel nostro
Paese, i cittadini e i delinquenti sono uniti contro lo Stato: si proteggono
l’un l’altro e contrastano la repressione e la sanzione. E i rappresentanti
dello Stato che li aiutano si guadagnano consenso.
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