Torino è (…) la mia città. Così
sono uscito di casa e sono andato a cercarla, la rivolta, perché come diceva il
protagonista di un vecchio film, degli anni ’70, ambientato al tempo della
rivoluzione francese, «se ‘un si va, ‘un si vede…». (…). La prima impressione,
superficiale, epidermica, fisiognomica – il colore e la foggia dei vestiti,
l’espressione dei visi, il modo di muoversi -, è stata quella di una massa di
poveri. Forse meglio: di “impoveriti”. Le tante facce della povertà, oggi.
Soprattutto di quella nuova. Potremmo dire del ceto medio impoverito: gli
indebitati, gli esodati, i falliti o sull’orlo del fallimento, piccoli
commercianti strangolati dalle ingiunzioni a rientrare dallo scoperto, o già
costretti alla chiusura, artigiani con le cartelle di Equitalia e il fido
tagliato, autotrasportatori, “padroncini”, con l’assicurazione in scadenza e
senza i soldi per pagarla, disoccupati di lungo o di breve corso, ex muratori,
ex manovali, ex impiegati, ex magazzinieri, ex titolari di partite iva divenute
insostenibili, precari non rinnovati per la riforma Fornero, lavoratori a termine
senza più termini, espulsi dai cantieri edili fermi, o dalle boîte chiuse. Le
fasce marginali di ogni categoria produttiva, quelle “al limite” o già cadute
fuori, fino a un paio di anni fa ancora sottili, oggi in rapida, forse vertiginosa
espansione… Intorno, la piazza a cerchio, con tutti i negozi chiusi, le
serrande abbassate a fare un muro grigio come quella folla. È la
cronaca – “L’invisibile popolo dei nuovi
poveri” - che Marco Revelli ha fatto sul quotidiano “Il Manifesto” di oggi degli
avvenimenti che stanno scuotendo il bel paese dalle Alpi al Lilibeo. È che il
movimento, che non è ancora tellurico (e non lo sarà mai, non ne abbiamo la
stoffa), mi ha colto mentre per motivi personali mi preparavo ad affrontare una
condizione che oggi mi viene da definire di chiaro-scuro. E dalla quale
condizione mi accingo ad uscire, virando verso dove? È che, avvolta com’era la
mia persona in una condizione inusitata, le voci che mi giungevano mi
spingevano a pensare al movimento che si stava per avviare come a qualcosa di
già visto negli anni trascorsi, con l’affannarsi dei cosiddetti “padroncini” per
spuntare alla politica quei “bonus” che avrebbero consentito loro di continuare
a sopravvivere nelle loro attività imprenditoriali. Mi sbagliavo e di grosso.
Lasciata la condizione mia di chiaro-scuro ho trovato l’interessante pezzo di
Marco Revelli che mi ha ampliato ed illuminato gli orizzonti sugli ultimi
avvenimenti. Continua Marco Revelli: E la “gente”, chiusa nelle auto bloccate da
un filtro non asfissiante ma sufficiente a generare disagio, anch’essa presa
dai propri problemi, a guardarli – almeno in quella prima fase – con un certo
rispetto, mi è parso. Come quando ci si ferma per un funerale. E si pensa
«potrebbe toccare a me…». Loro alzavano il pollice – non l’indice, il pollice –
come a dire «ci siamo ancora», dalle macchine qualcuno rispondeva con lo stesso
gesto, e un sorriso mesto come a chiedere «fino a quando?». Altra comunicazione
non c’era: la “piattaforma”, potremmo dire, il comun denominatore che li univa
era esilissimo, ridotto all’osso. L’unico volantino che mostravano diceva
«Siamo ITALIANI», a caratteri cubitali, «Fermiamo l’ITALIA». E l’unica frase
che ripetevano era: «Non ce la facciamo più». E qui ho provato a
riflettere. Ed a pensare a tutti questi anni che avremmo dovuto spendere in
maniera più virtuosa. E così pensando a giungere ad una amarissima conclusione:
questa volta la coperta è veramente troppo corta. E se prima essa riusciva,
tirata per i suoi lembi, a coprire abbastanza, oggigiorno risulta sempre più
misera ed inadeguata a soccorrere i tanti. Non che dell’insufficienza di quella
coperta non ci siano stati i segnali. Eccome. Ma si era tutti come presi da
quella cieca ed imprevidente necessità di “mungere” dalle generose mammelle
dello Stato sociale quanto più possibile - ora e subito – senza pensare al
rischio di mandare tutto in rovina. E come d’incanto montare oggi questi
scenari d’apocalisse che, ne sono convinto, svaporeranno appena le “santa
natività” richiamerà i più nel dolce, tenero tepore delle proprie case.
Cosa ne rimarrà del «non ce la facciamo più» di queste giornate dicembrine? Ben
poca cosa. L’indifferenza dei tanti per la mala politica, il voltare altrove lo
sguardo di fronte alle rivelate malversazioni compiute dalla mala politica
sulla cosa pubblica hanno condotto alle attuali pirotecniche condizioni che non
avranno la forza di determinare esplosione alcuna. Solamente fuochi
d’artificio. Aspettiamo tutti il natale! E del «non ce la facciamo più»
ha provato a scriverne anche Bruno Tinti su “il Fatto Quotidiano” del 12 di
dicembre: “È vero – (…) – questo dimostra a che punto siamo arrivati. Non se ne
può più; c’è un clima, una pressione che non sono più tollerabili”. Qualcosa
nel tono, nell’enfasi, mi ha fatto sospettare che i miei amici e io non stavamo
raggiungendo le stesse conclusioni. Il seguito del discorso mi ha levato ogni
dubbio. “Ti rendi conto che nessuno si compra una macchina nuova? E che, se
proprio la vecchia cade a pezzi, altro che Porsche o Mercedes, al massimo
un’utilitaria da 10.000 euro. Appena sali un po’, subito l’accertamento”. “Bè
sì; ma ti difenderai, contabilità, bilanci, lo sai come si fa”. (…). “Ma
insomma, non se ne può più. Io ho aperto un locale. Avevo ereditato un po’ di
soldi e li ho investiti. Mi hanno fatto l’accertamento e ho dovuto dargli il
testamento, l’accettazione dell’eredità, le mie dichiarazioni dei redditi degli
anni precedenti e un sacco di altri documenti”. Commenti disgustati di tutti
gli altri. “C’è un clima insopportabile, così non si può andare avanti”. “Ma
scusa – gli ho chiesto – come è finita?” “Bè, non è successo niente, hanno
archiviato”. “Vuoi dire che ti hanno dato ragione?” “Sì. Ma sai quanto ho
dovuto penare per raccogliere tutti i documenti. E poi la perdita di tempo,
l’ansia, la violazione della privacy”. Ho cominciato a spiegare. C’è
un’evasione fiscale da 130 miliardi l’anno (probabilmente di più).
Recuperassimo questi soldi, potremmo diminuire il carico fiscale sulle imprese,
aumentare le pensioni, finanziare la spesa pubblica, insomma incrementare i
consumi e favorire la ripresa. Quindi la lotta all’evasione è necessaria. E
dove si può fare? Certo non su lavoratori dipendenti e pensionati: quelli non
possono evadere. Resta la gente come te. Sono venuti a controllare, hanno
trovato tutto in regola e se ne sono andati. Tu sei la prova che il sistema
funziona. Di che ti lamenti? Ti fossi comprato la Porsche (da lì eravamo
partiti) sarebbe stato lo stesso. Non c’è stato niente da fare. Come
quell’esercito con cui simpatizzavano (“i forconi” n.d.r.),
erano incapaci di ragionare. Non ho ottenuto risposte coerenti nemmeno quando
gli ho detto: “Ma vi rendete conto che non vi state lamentando di un
accertamento sbagliato ma di una verifica? Che, in realtà, semplicemente non
volete essere controllati?”. (…). È che i “forconi” sono nati nella
splendida terra della “Trinacria”. Splendida terra spolpata dalla mala
politica, dalla malavita e dal malaffare, e dalla dissipazione – spesso
penalmente perseguibile - delle risorse pubbliche. Spolpata perché? E come, se
non nell’indifferenza generale? Ora quel modello di “riviviscenza” sociale lo
si vuole esportare altrove. Per farne cosa? Ché, per il dizionario Sabatini
Coletti, “riviviscenza” è per “alcuni organismi, ripresa delle funzioni
vitali temporaneamente sospese; med. ritorno in vita
dopo una fase di morte apparente”. La morte sociale, la morte di una
cittadinanza responsabile ed attiva. Scrive più avanti Marco Revelli: Ecco,
se un dato sociologico comunicavano era questo: erano quelli che non ce la
fanno più. Eterogenei in tutto, folla solitaria per costituzione materiale, ma
accomunati da quell’unico, terminale stato di emergenza. E da una viscerale,
profonda, costitutiva, antropologica estraneità/ostilità alla politica. Non
erano una scheggia di mondo politico virulentizzata. Erano un pezzo di società
disgregata. Società che è senza un progetto che sia, se non un
immediato tornaconto che non tenga conto della generalità dei problemi e dei
bisogni. Presto che arriva il natale!
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