Ha scritto Andreas
Whittam-Smith sul quotidiano The
Independent - “Malvenuti nell’epoca
della nuova povertà”, riportato su “il Fatto Quotidiano” del 14 di dicembre
-: Fino
a tutto il 18° secolo, l’“indigenza” – così veniva chiamata la povertà – era
considerata una condizione naturale dell’umanità da cui ci si poteva affrancare
attraverso il lavoro o l’altrui generosità. Oggi invece puoi avere un lavoro ed
essere povero. Questi “nuovi poveri” sono le vittime del crollo dei salari e
del vertiginoso aumento dei prezzi, un fenomeno che ha caratterizzato gli
ultimi dieci anni dell’economia. In genere il “nuovo povero” percepisce un
salario assolutamente insufficiente a soddisfare i bisogni primari dell’esistenza.
Sfortuna vuole che non si veda affatto la luce alla fine del tunnel. La nuova
tecnologia digitale non farà che distruggere altri milioni di posti di lavoro.
La globalizzazione continuerà a trasformare il pianeta in un unico mercato che
consentirà al lavoro di migrare dove è meno pagato. Ne consegue che i salari
continueranno ad aumentare in misura sempre inferiore all’aumento dei prezzi
almeno nel breve-medio periodo. Nelle vecchie società affluenti dell’Occidente
ciò comporterà un incremento del divario tra ricchi e poveri e la povertà
continuerà a galoppare. In fondo basta mettere questi dati di fatto in fila per
capire che i governi hanno scarsissime possibilità di intervento su dinamiche
completamente al di fuori della loro portata. (…). Fine della
citazione. Che apre orizzonti non proprio rassicuranti. E che mette il dito
nella piaga. Laddove la politica ha finito d’essere protagonista
nell’indirizzare l’economia e la finanza affinché il tutto sia organizzato per
il cosiddetto “bene comune”. È che la politica è stata anch’essa abbacinata
dall’idea insana dei mercati regolatori delle dinamiche economiche e sociali.
Donde la “crisi”. Che tranne per i soliti buontemponi al governo non
accenna a mostrare un che di rallentamento che sia se non di una auspicata inversione.
Donde “la luce alla fine del tunnel” è di là da venire. Ma non è
questo il punto. Come non vedere, quando c’era ancora da vedere, che la
globalizzazione, così come si andava configurando, avrebbe indotto fenomeni
nuovi e dirompenti nell’assetto delle società cosiddette avanzate? È che i
mercati agiscono da che mondo è mondo sempre in ragione della “rapina”.
“Rapina”
che è da vedersi in ragione dello sfruttamento delle risorse naturali e
dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Oggigiorno nuovi scenari ha aperto la
globalizzazione, ché solamente la cecità della politica non ha consentito di
vedere al tempo dovuto. Essa, la globalizzazione, ha agito ed agisce così come
aveva intuito quel grande che è stato il Liebig. Poiché le cose intuite
dall’illustre scienziato per i fenomeni della Natura valgono per l’appunto
anche nelle vicende degli umani. Come non vedere al giusto tempo che la
globalizzazione avrebbe introdotto nelle società dell’Occidente quel “fattore
limitante” per il quale, come in un mastello la doga più corta
determina il livello al quale il liquido può in esso essere raccolto, così il “fattore
limitante” – conseguenza di una sfrenata, incontrollata globalizzazione
- dei bassi o bassissimi salari dei paesi poveri divenuti emergenti, l’assenza
di ogni forma di tutela sociale e del lavoro, avrebbe, quel “fattore
limitante”, investito e colpito anche le cosiddette società del
capitalismo avanzato? Con la sua logica sfrenata, con il falso assunto che i
mercati sarebbero stati capaci di autoregolamentarsi, la globalizzazione e la
finanziarizzazione del capitalismo ha provveduto a spolpare le ricchezze e le
risorse delle società occidentali per le quali si aprono scenari chiari di un
ritorno ad un’epoca nuova di povertà. Ma se c’è stata una cecità della politica
come non vedere di pari passo anche una cecità nel mondo della finanza e
dell’economia? Avere impoverito grandi masse nel mondo dell’Occidente
capitalistico, avere di fatto spinto all’indietro una spessa fetta di quello
che è stato il “ceto medio” delle società avanzate ha di conseguenza tolto
dalla scena quei nevrotici “consumatori” che oggigiorno si
invocano inutilmente affinché riprendano a sostenere i consumi per consentire
il riavvio della cosiddetta “ripresa”. Un bel modo per
continuare ad essere ciechi sempre di più. E si ha un bel dire che si intravede “la luce alla fine del tunnel”.
Anche nella prosperosa America il rientro delle attività di produzione delle
multinazionali, che qualche tempo addietro avevano abbandonato quei mercati per
produrre altrove le loro mercanzie, quel rientro avviene solamente a seguito di
un ridimensionamento dei salari e degli stipendi secondo quel “fattore
limitante” che la “crisi” induce – “obtorto
collo” - ad accettare. Una verità, ovvero una realtà durissima da accettare. Scriveva il
grande di Treviri nel Suo celeberrimo Manifesto (1848) ove si parlava di uno “spettro”
aggirantesi per la vetusta e sfiancata Europa: Nelle crisi scoppia un’epidemia
sociale… La società si trova improvvisamente retrocessa in una condizione di
momentanea barbarie… Con quali mezzi la borghesia supera le crisi? Da un lato
con la distruzione forzata di una quantità di forze produttive, dall’altro con
la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più radicale degli antichi
mercati. Con quali mezzi dunque? Preparando crisi più violente e generali e
riducendo i mezzi per prevenirle. Lo scriveva quel grande chiamando in
causa quella “borghesia” alla quale affidava volentieri, in quel contesto ed
in quel tempo della Storia, le leve di manovra del progresso sociale e politico
dell’Europa affinché si superassero definitivamente le “strutture” e le “sovrastrutture”
proprie del feudalesimo ancora esistente e resistente al tempo, e che solamente
in seguito sarebbe stata soppiantata, quella “borghesia” illuminata,
nella conduzione della società, da un proletariato emancipato e trionfante. Una
profezia la Sua che si rinnova e che si invera – per alcuni suoi aspetti - in
questa terribile stagione di assalto incontrollato dei mercati finanziarizzati,
dediti alla speculazione più selvaggia e lontani assai da ogni dovere sociale
che sia. Troveranno essi, i mercati, un equilibrio nuovo? E su quali basi?
L’equilibrio nuovo è stato trovato nelle forme brutali che la “crisi”
nella sua quotidianità ci pone sotto gli occhi. Il rischio inizialmente
paventato dagli analisti più attenti e seri sarebbe stato che la qualità
propria della democrazia venisse messa in discussione, venisse ad essere
riveduta e corretta ad un minimo comune denominatore imposto dai mercati. Ovvero
a quel “fattore limitante” che è divenuto il regolatore delle vicende
sociali ed economiche al tempo della “crisi”. L’esercizio proprio delle
democrazie consiste soprattutto nel garantire le opportunità di ciascuno e di
tutti, consiste nel sorvegliare l’operato dei mercati stessi ponendosi essa, la
democrazia, quale fattore di equilibrio e di redistribuzione della ricchezza;
ebbene, quell’esercizio è stato messo in crisi, accrescendo disparità sociali,
economiche e di opportunità. Ha scritto Paolo Griseri, a margine dei fatti dei
cosiddetti “forconi” di queste giornate dicembrine – sul quotidiano la
Repubblica del 13 di dicembre, “I
ribelli senza leader” -: «Quella a cui stiamo assistendo — spiega De
Rita — è la rivolta delle classi che erano riuscite a entrare nel ceto medio e
ora tornano a cadere in basso». Per un trentennio, ricostruisce il presidente
del Censis, «il ceto medio ha continuato ad accogliere una parte crescente
della società italiana fino a rappresentarne oltre l’80 per cento. Dal 2000 in poi questo grande
lago del ceto medio ha cominciato a svuotarsi». Il processo di impoverimento ha
subito una forte accelerazione con la crisi del 2008. È questa accelerazione
che ha portato in piazza l’esercito dei precari, degli studenti senza immediati
sbocchi occupazionali e della marea di cassintegrati che da due-tre anni,
vivono con 7-800 euro al mese. (…). Una signora non più giovane (…): «Quando io
non ci sarò più, di che cosa vivranno i miei nipoti?». Fuori dal megafono
spiega: «Mia figlia e mio genero mandano avanti la famiglia anche perché io
prendo la pensione. Lui è cassintegrato, lei è disoccupata, come faranno
domani?». «Queste situazioni — osserva Revelli — sono il frutto del
radicalizzarsi della crisi sociale ma anche dal precipitare della crisi della
politica che non si accorge nemmeno dell’esistenza di un altro mondo, molto più
reale di quello dei palazzi del potere: uno scollamento drammatico ». (…). La
politica riuscirà a venire a capo di un mosaico tanto contraddittorio e
sfuggente? «La politica — conclude Revelli — ha fatto di tutto in questi anni
per non vedere il gigantesco processo di polverizzazione sociale e di
impoverimento che si stava producendo. E ancora oggi la sinistra commette
l’errore di etichettare tutto questo come frutto di una violenza squadrista.
Certo, il rancore e la rabbia dei poveri sono brutti da vedere e facili da
strumentalizzare. Ma non possiamo cavarcela con le manifestazioni
antifasciste». Ecco, sono per l’appunto costoro i “malvenuti” della “crisi”.
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