La bambina (…) (a)ttende
il suo turno in fila con la letterina in mano. La mamma la guarda orgogliosa.
Ha certamente lasciato il Suv nel più vicino posteggio riservato ai disabili.
Al cospetto del ciccione in rosso, gli altri bambini si emozionano. Lei, no. Lo
scruta dal basso con due occhi di brace: "Tutto 'sto tempo in coda al
freddo per 'sta lettera del cavolo!". Babbo la fissa senza capire. La
piccola attacca: "Con tutti i soldi che fai, perché non ti sei comprato un
telefonino?". "Perché, scusa?". "Perché ti mandavo un sms.
È da scemi aspettare qui al freddo". "Va be', ma almeno ci siamo
conosciuti". "Ma tu sei vecchio e se ti ammali poi schiatti e non mi
porti più niente". Bambini e genitori in fila scoppiano a ridere, la mamma
del mostro batte la mani. Babbo Natale arrossisce e china la testa. Anch'io
chiudo gli occhi. Vorrei tanto che quest'anno la notte della vigilia quell'uomo
si togliesse il suo ridicolo costume per infilarsi una tuta da fatica gialla.
Vorrei che lasciasse in Lapponia la slitta insensata e le sue stupide renne a
brucare i loro licheni immangiabili, per volare nel cielo su un grande camion
giallo dei traslochi con la scritta Gondrand sulla fiancata. Vorrei che
entrasse in casa della bambina (…) e della sua mamma cattiva mentre dormono e
caricasse sul camion tutto ciò che possiedono. La mattina dopo si
sveglierebbero in stanze svuotate, spogliate di arredi, giochi, gioielli. E con
raccapriccio mi sorprendo a invidiarle. (…). Così scriveva Giacomo Papi
sul settimanale “D” del quotidiano la Repubblica del 21 di dicembre dell’anno
2011. Titolo di quel “pezzo”: “La
letterina”. Ho atteso che il Natale passasse per proporla a chi non
l’avesse a suo tempo letta. L’ho fatto per non essere colto in fallo ed essere indicato
come un vecchio brontolone per il quale nulla più gira per il verso giusto.
Alla fine non ho resistito ed ho ripreso quel ritaglio gelosamente custodito.
Il Natale 2011 è trascorso già da un pezzo. L’ultimo, quello del 2013, è già
caduto nel dimenticatoio. Come tutte le cose di questa società fondata
sull’illusionismo. Poiché è facile ed a buon prezzo illudersi d’essere buoni e
migliori a feste comandate. Ma quella “letterina” di Giacomo Papi contiene
in verità qualcosa che sarebbe da considerare “straordinario” solo che potesse
accadere: l’auspicio che quel “ciccione in rosso” portasse via
dalle nostre vite tutta quella paccottiglia d’inutilità che siamo andati negli
anni raccogliendo per il perverso gusto di avere e poi di avere e di possedere.
È il motivo per il quale ho atteso che il Natale passasse per proporre la “letterina”
di Giacomo Papi. Per non essere indicato come il “bastian contrario”,
l’inutile brontolone di turno. Ché, seppur questo Natale sia stato in tono
minore - se non deficitario - in quanto a regali e spese voluttuarie, grazie o
per colpa della “crisi” secondo i punti di vista, questo Natale ha conservato
gli schemi mentali e le consuetudini che si sono oramai radicate nelle un tempo
opulenti società dell’Occidente. È che ad esso, al Natale, la più grande fetta
della società non è capace di dare una impronta diversa che sia per la qual
cosa, seppur deprivato dello sfarzo dei consumi all’ingrosso delle annate
precedenti, permane una ricorrenza che per i più ha un significato “scipito”
e senza spiritualità. È che, in fondo, riesce difficile oggigiorno dare un
senso ad una ricorrenza che proviene dalla notte dei tempi. E che difficilmente
riesce a gettare una “luce” che sia veramente viva agli
uomini del secondo millennio. Ha scritto Marco Vannini sul quotidiano la
Repubblica del 24 di dicembre col titolo “Natale
mistico”: Si capisce (…) come la chiesa cerchi di (…) ravvivare quella fede che
una volta si riteneva fondata su reali eventi storici, ovvero sulla “storia
della salvezza” che da Adamo procede verso Cristo. Oggi, (…), dal momento che
quella storia appare per ciò che è, una mera costruzione mitico-teologica, la
fede si è ridotta a una combinazione di sentimento più fantasia: una cosa da
bambini, dunque. Non a caso ai nostri giorni il Natale è festa non solo per un
Bambino, ma soprattutto per bambini. La fede è (…) una credenza, che si difende
con una sorta di infantile testardaggine, ignorando la realtà, tanto storica
quanto psicologica. Se invece la fede è volontà di verità, essa guarda in
faccia la realtà , scoprendo che quella credenza è desiderio di consolazione e
rassicurazione, frutto del desiderio di permanenza di un ego che si sente
debole e incerto e che perciò cerca “salvezza” nel rimando ad altro fuori di
sé, restando così sempre nell'attesa, nell'anelito. La fede allora non produce
affatto credenze ma, al contrario, le toglie via tutte, smascherando come
menzogna anche l'immaginazione teologica. La fede - scrive san Giovanni della
Croce - “non solo non produce nozione e scienza, ma anzi accieca e priva
l'anima di qualunque altra notizia e conoscenza: la fede è notte oscura per
l'anima e, quanto più la ottenebra, tanto maggiore è la luce che le comunica”.
Fede come notte, dunque, ma una notte che mentre libera da ogni presunto sapere
di verità esteriori, fa risplendere una luce interiore, sapere non di altro ma
di se stessa, sapere che è un essere: questa, possiamo dire, è la vera stille
nacht, heilige nacht, notte silenziosa, notte santa. (…). Una “coscienza”
della fede che non c’è. Ché solo una fede che sappia far “risplendere una luce interiore”
porterebbe a considerare la condizione propria non come uno stato di “grazia”
precluso a chi la fede non possiede ma come un irrisolto bisogno “di
consolazione e rassicurazione” al pari della famosa coperta di Linus. E
solamente così potrebbe conciliarsi con una “fede” rinnovata un Natale che non
avesse ad improprio, blasfemo supporto i “consumi” che, con somma
disperazione dei più, stentano a riavviarsi. Ha chiuso Giacomo Papi la Sua “letterina”
dell’oramai lontanissimo Natale dell’anno 2011: Rispose a un giornalista, la
notte del 24 dicembre 1989, il vecchio poeta Junichiro Kawasaki: "Sono
animista. Non mi serve il Natale". Già, un Natale così non serve
poi mica tanto!
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
lunedì 30 dicembre 2013
martedì 24 dicembre 2013
Sfogliature. 20 “La gerarchia ecclesiastica e i cambiamenti della società”.
Incombe il “Natale”. Quello dei
credenti che coinvolge anche chi credente non lo sia. Un “Natale”, forse, con
minori fasti e soprattutto con minori consumi rispetto ad un passato ancora
molto recente. Non per scelta libera però. La “crisi” incombe e
determina stili di vita nuovi è più misurati. La “fede” non ha indotto
codesti nuovi atteggiamenti di fronte all’opulenza ed agli sprechi del passato.
Opulenza e sprechi non più a tiro dei tanti. Ma un ritorno all’essenzialità di
una fede, di qualsivoglia fede, sarebbe di già un buon segno. Farà piacere al
nuovo vescovo di Roma. Ho ritrovato, alla data del 20 di marzo dell’anno 2007 –
alle pagine 2166-2168 dell’e-book sopravvissuto al blog allora su di una
diversa piattaforma della vasta rete – un post senza un titolo della serie “Se
il divino diviene il problema”, contraddistinto col numero 25. Di
seguito lo ripropongo nella sua interezza.
Tralascio il panegirico che ho sempre preposto alle molto autorevoli
opinioni riportate in questa rubrichetta. Una scelta di merito. O di campo. Scelta
forzata. Considerata la durezza e cupezza dei tempi. Una domanda: ma come è
possibile far credere ai buontemponi, o meglio ai candidi in ispirito, ai soliti
gonzi, che la famiglia interessi
solamente ai cattolici? Domanda retorica, invero. Come se tutti gli altri,
delle altre confessioni o chi una confessione non ce l’abbia, fossero dediti a
distruggere le famiglie come in un orrendo gioco al massacro. Un tiro al
bersaglio: la famiglia, pum, pum! Ridicolo. È che, aver barbaramente mediatizzato
il tutto, la vita pubblica e la vita privata dei cittadini, comporta pur delle
conseguenze; non esiste più distinzione alcuna tra le due sfere, tutto si
intreccia e tutto si confonde, ed allora la professione della propria fede non
si fa più nell’ambito della vita quotidiana e privata, ma sul grande schermo
della vita pubblica, con o senza il monitor dell’orrendo elettrodomestico. I
grandi insegnano, grandi si fa per dire. Conducono una vita privata da
scandalo, ma predicano per gli altri ben più saggi, virtuosi e pii comportamenti.
In alcuni casi consigliano la pratica del cilicio. Da Medioevo. Oscurantismo
assoluto. Un ritorno alle pire fumanti. Non esiste un privato. Esiste un banale,
grottesco fatto pubblico. Alla mercé di
tutti. Senza anima. La fede del singolo oggi, nell’era della comunicazione di
massa più spinta, si sostanzia non nella dura, onesta pratica quotidiana, con
la messa in opera, con difficoltà a volte, delle proprie convinzioni, nel
rigetto di tutto ciò che possa entrare in conflitto con essa, ma solamente con
quel si blatera, a vanvera, comandati a bacchetta, per rifugiarsi rapidamente
nel comodo privato che è libero da condizionamenti di alcuna specie,
confortevole assai, ed in difesa del quale si invoca costantemente il rispetto
della riservatezza. Durezza dei tempi. La fede del singolo non esiste, non vale
molto nel gran mercato. Val bene quella fede diffusa e mediatizzata
convenientemente, con proclami roboanti, con mulinar di ferri, solo virtuali
per carità, con proclami ed editti di altri tempi. La ricerca del demonio. Ecco
un ritorno interessante. Un demonio moderno però. Senza corna, coda. Difficile
delinearne l’effigie. Il relativismo, il laicismo. Tutto ciò che non rientra in
certi orizzonti. E dietro ai proclami, la virtù individuale che non esiste, la
fede del singolo che si rifugia, si protegge, si maschera dietro i proclami
assordanti dei moderni comunicatori. Esempi recenti già visti e passati, di
gran prestigio sociale, di grande ricaduta mediatica. Capire i tempi ed
adeguarvisi. Con tutto ciò che ne segue. Ho conosciuto persone, degnissime, che
conducevano una doppia vita affettiva, in casa e poi magari nell’ambito del
posto di lavoro. Nulla di cui scandalizzarsi. Certe scelte possono sempre
essere rimesse in discussione, si capisce. Ciò che mi colpiva di quelle persone
la loro incrollabile professione di fede, ritualizzata quanto si voglia, enfatizzata,
esasperata anche, esteriorizzata ben bene alla domenica ed alle altre feste
comandate, mai interiorizzata con il proprio vissuto quotidiano, in lotta essa
con questo, in contraddizione stridente, e che esse riuscivano a far convivere
con quella abnorme duale vita affettiva. Abnorme, almeno ai miei occhi di non
credente. Beati i poveri in ispirito! Sarà loro il regno dei cieli! Forse
perché obbedienti. Ossequienti. Quanto credibili e coerenti è poca cosa. In
tempi diversi avrei sperato nella maturità del “cattolico quotidiano”, così
come ce lo rappresenta l’Autore nell’analisi di seguito riportata; ma,
considerati i precedenti e la mediatizzazione delle vite pubbliche e private,
mediatizzazione spinta all’ennesima
potenza, un brivido mi corre per la schiena. Saranno i ritorni imprevisti dei
rigori invernali? Lo spero tanto. Mi riesce peraltro difficile imbarcarmi in
una disquisizione sulla laicità dello Stato, in un’opera di ragionamento,
peggio di convincimento: ma cosa si è sempre pensato, detto e scritto sul senso
di appartenenza del cittadino quotidiano, della sua “stentatella cittadinanza”,
ben espressa nel quotidiano arrancare e nel rifugiarsi nel caldo e sicuro e più arretrato familismo?
Staremo a vedere, assisi sulla sponda da questa parte del Tevere. Prospettiva
da incubo, in verità! “Tempus edax rerum”. Il tempo divora le cose. O forse
meglio è “Tempus omnia medetur”. Il tempo rimedia, cura tutte le cose. Guarisce
tutti i mali. Ma fra quanti anni, lustri, secoli, la guarigione? Così solevano dire i latini! Da “La gerarchia
ecclesiastica e i cambiamenti della società” di Marco Politi. …l’Italia
è la trincea di Dio, (…). Se la famiglia rischia la rovina, allora è urgente
negare il riconoscimento alle coppie di fatto. Se il rapporto naturale tra uomo
e donna sta franando, allora è missione divina cancellare la pubblica
accettazione del patto d’amore tra due partner gay. Bisogna andare alle radici
culturali dell’atteggiamento di Benedetto XVI per capire la durezza dello
scontro in atto, che ha per posta la laicità dello Stato. O, per essere più
semplici, il diritto dei cittadini tutti di farsi democraticamente le leggi
senza attendere il timbro di un’autorità confessionale. Perché la sfida
culturale è questa: evitare di ripiombare nel XXI secolo in guerre di partiti
religiosi, ognuno dei quali brandisce il nome di Dio per richieste non
negoziabili. Laddove la politica è negoziato, confronto, anche compromesso tra
diverse visioni del mondo. Dice Ratzinger al clero romano che la ‘fede in
Italia è minacciata’. Parole pesanti. (…). Ma papa Ratzinger è ancora più
pessimista. – Siamo di fronte ad una multiforme azione, tesa a scardinare le
radici della civiltà occidentale -. (…). Corrisponde questo atteggiamento allo
stato d’animo dei milioni di cattolici quotidiani, che vanno a messa, si impegnano
in parrocchia, pregano, riflettono su Dio e la propria esistenza e comunque,
con minore o maggiore pratica, si sentono parte della comunità dei cristiani?
No. Va detto con assoluta franchezza. Quando da alti pulpiti si sente risuonare
minacciosamente ‘Non possumus‘, andrebbe subito domandato: non possumus chi? Il
cattolico quotidiano del Duemila vive tranquillamente accanto ai diversamente
credenti, senza complessi da stato d’assedio, senza l’ossessione di imporre la
propria visione. E tutta la questione delle convivenze di fatto e delle stesse
coppie gay è vissuta da anni molto serenamente, pragmaticamente, con umana
sensibilità dalla maggioranza degli italiani a qualunque credenza si
richiamino. Perché una cosa è chiarissima: la vicenda delle unioni civili non è
uno scontro tra cattolici e laici. Non è oggetto di una guerra tra fedi. Ciò
che emerge è il gap tra la gerarchia ecclesiastica e la società italiana come è
nella realtà. Per i cattolici quotidiani, e gli altri, le coppie di fatto non
sono un astratto drago rovina-famiglie. Sono i nostri figli, i nostri amici,
spesso noi stessi. Uomini e donne in carne e ossa, senza ideologie, con la
fatica dell’esistenza e il desiderio di essere un po’ felici. E le aborrite
unioni gay le incontriamo a cena, sui posti di lavoro, nei luoghi dove passiamo
le nostre vacanze. E sono normali cittadini e normali conviventi. (…). In altre
parole hanno impostato la propria vita secondo regole diametralmente opposte a
quelle ossessivamente indicate per decenni dalla gerarchia ecclesiastica. E ciò
nondimeno continuano il loro dialogo con Dio, vanno a messa, e spesso si
impegnano in iniziative ecclesiali. Il problema, allora, non è la Chiesa, la comunità dei
fedeli. Il problema è di una gerarchia ecclesiastica incapace di guardare con
umanità ai problemi di una società in trasformazione, in cui la famiglia è
radicalmente diversa da quella di cinquant’anni fa. Una gerarchia che pretende
di rappresentare in politica i cittadini cattolici, che né esistenzialmente né
politicamente hanno dato all’istituzione ecclesiastica un mandato del genere.
(…).
Rinuncerà il novello vescovo di
Roma all’intransigenza che ha contraddistinto le passate gerarchie vaticane? È
solamente su queste basilari questioni, che interessano milioni di cittadini, uomini
e donne con la “fede” vissuta o senza la “fede”, che si potrà cominciare a parlare
di una rivoluzione che si sia messa molto lentamente in movimento aldilà del
Tevere.
venerdì 20 dicembre 2013
Capitalismoedemocrazia. 43 “Nell’epoca della nuova povertà”.
Ha scritto Andreas
Whittam-Smith sul quotidiano The
Independent - “Malvenuti nell’epoca
della nuova povertà”, riportato su “il Fatto Quotidiano” del 14 di dicembre
-: Fino
a tutto il 18° secolo, l’“indigenza” – così veniva chiamata la povertà – era
considerata una condizione naturale dell’umanità da cui ci si poteva affrancare
attraverso il lavoro o l’altrui generosità. Oggi invece puoi avere un lavoro ed
essere povero. Questi “nuovi poveri” sono le vittime del crollo dei salari e
del vertiginoso aumento dei prezzi, un fenomeno che ha caratterizzato gli
ultimi dieci anni dell’economia. In genere il “nuovo povero” percepisce un
salario assolutamente insufficiente a soddisfare i bisogni primari dell’esistenza.
Sfortuna vuole che non si veda affatto la luce alla fine del tunnel. La nuova
tecnologia digitale non farà che distruggere altri milioni di posti di lavoro.
La globalizzazione continuerà a trasformare il pianeta in un unico mercato che
consentirà al lavoro di migrare dove è meno pagato. Ne consegue che i salari
continueranno ad aumentare in misura sempre inferiore all’aumento dei prezzi
almeno nel breve-medio periodo. Nelle vecchie società affluenti dell’Occidente
ciò comporterà un incremento del divario tra ricchi e poveri e la povertà
continuerà a galoppare. In fondo basta mettere questi dati di fatto in fila per
capire che i governi hanno scarsissime possibilità di intervento su dinamiche
completamente al di fuori della loro portata. (…). Fine della
citazione. Che apre orizzonti non proprio rassicuranti. E che mette il dito
nella piaga. Laddove la politica ha finito d’essere protagonista
nell’indirizzare l’economia e la finanza affinché il tutto sia organizzato per
il cosiddetto “bene comune”. È che la politica è stata anch’essa abbacinata
dall’idea insana dei mercati regolatori delle dinamiche economiche e sociali.
Donde la “crisi”. Che tranne per i soliti buontemponi al governo non
accenna a mostrare un che di rallentamento che sia se non di una auspicata inversione.
Donde “la luce alla fine del tunnel” è di là da venire. Ma non è
questo il punto. Come non vedere, quando c’era ancora da vedere, che la
globalizzazione, così come si andava configurando, avrebbe indotto fenomeni
nuovi e dirompenti nell’assetto delle società cosiddette avanzate? È che i
mercati agiscono da che mondo è mondo sempre in ragione della “rapina”.
“Rapina”
che è da vedersi in ragione dello sfruttamento delle risorse naturali e
dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Oggigiorno nuovi scenari ha aperto la
globalizzazione, ché solamente la cecità della politica non ha consentito di
vedere al tempo dovuto. Essa, la globalizzazione, ha agito ed agisce così come
aveva intuito quel grande che è stato il Liebig. Poiché le cose intuite
dall’illustre scienziato per i fenomeni della Natura valgono per l’appunto
anche nelle vicende degli umani. Come non vedere al giusto tempo che la
globalizzazione avrebbe introdotto nelle società dell’Occidente quel “fattore
limitante” per il quale, come in un mastello la doga più corta
determina il livello al quale il liquido può in esso essere raccolto, così il “fattore
limitante” – conseguenza di una sfrenata, incontrollata globalizzazione
- dei bassi o bassissimi salari dei paesi poveri divenuti emergenti, l’assenza
di ogni forma di tutela sociale e del lavoro, avrebbe, quel “fattore
limitante”, investito e colpito anche le cosiddette società del
capitalismo avanzato? Con la sua logica sfrenata, con il falso assunto che i
mercati sarebbero stati capaci di autoregolamentarsi, la globalizzazione e la
finanziarizzazione del capitalismo ha provveduto a spolpare le ricchezze e le
risorse delle società occidentali per le quali si aprono scenari chiari di un
ritorno ad un’epoca nuova di povertà. Ma se c’è stata una cecità della politica
come non vedere di pari passo anche una cecità nel mondo della finanza e
dell’economia? Avere impoverito grandi masse nel mondo dell’Occidente
capitalistico, avere di fatto spinto all’indietro una spessa fetta di quello
che è stato il “ceto medio” delle società avanzate ha di conseguenza tolto
dalla scena quei nevrotici “consumatori” che oggigiorno si
invocano inutilmente affinché riprendano a sostenere i consumi per consentire
il riavvio della cosiddetta “ripresa”. Un bel modo per
continuare ad essere ciechi sempre di più. E si ha un bel dire che si intravede “la luce alla fine del tunnel”.
Anche nella prosperosa America il rientro delle attività di produzione delle
multinazionali, che qualche tempo addietro avevano abbandonato quei mercati per
produrre altrove le loro mercanzie, quel rientro avviene solamente a seguito di
un ridimensionamento dei salari e degli stipendi secondo quel “fattore
limitante” che la “crisi” induce – “obtorto
collo” - ad accettare. Una verità, ovvero una realtà durissima da accettare. Scriveva il
grande di Treviri nel Suo celeberrimo Manifesto (1848) ove si parlava di uno “spettro”
aggirantesi per la vetusta e sfiancata Europa: Nelle crisi scoppia un’epidemia
sociale… La società si trova improvvisamente retrocessa in una condizione di
momentanea barbarie… Con quali mezzi la borghesia supera le crisi? Da un lato
con la distruzione forzata di una quantità di forze produttive, dall’altro con
la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più radicale degli antichi
mercati. Con quali mezzi dunque? Preparando crisi più violente e generali e
riducendo i mezzi per prevenirle. Lo scriveva quel grande chiamando in
causa quella “borghesia” alla quale affidava volentieri, in quel contesto ed
in quel tempo della Storia, le leve di manovra del progresso sociale e politico
dell’Europa affinché si superassero definitivamente le “strutture” e le “sovrastrutture”
proprie del feudalesimo ancora esistente e resistente al tempo, e che solamente
in seguito sarebbe stata soppiantata, quella “borghesia” illuminata,
nella conduzione della società, da un proletariato emancipato e trionfante. Una
profezia la Sua che si rinnova e che si invera – per alcuni suoi aspetti - in
questa terribile stagione di assalto incontrollato dei mercati finanziarizzati,
dediti alla speculazione più selvaggia e lontani assai da ogni dovere sociale
che sia. Troveranno essi, i mercati, un equilibrio nuovo? E su quali basi?
L’equilibrio nuovo è stato trovato nelle forme brutali che la “crisi”
nella sua quotidianità ci pone sotto gli occhi. Il rischio inizialmente
paventato dagli analisti più attenti e seri sarebbe stato che la qualità
propria della democrazia venisse messa in discussione, venisse ad essere
riveduta e corretta ad un minimo comune denominatore imposto dai mercati. Ovvero
a quel “fattore limitante” che è divenuto il regolatore delle vicende
sociali ed economiche al tempo della “crisi”. L’esercizio proprio delle
democrazie consiste soprattutto nel garantire le opportunità di ciascuno e di
tutti, consiste nel sorvegliare l’operato dei mercati stessi ponendosi essa, la
democrazia, quale fattore di equilibrio e di redistribuzione della ricchezza;
ebbene, quell’esercizio è stato messo in crisi, accrescendo disparità sociali,
economiche e di opportunità. Ha scritto Paolo Griseri, a margine dei fatti dei
cosiddetti “forconi” di queste giornate dicembrine – sul quotidiano la
Repubblica del 13 di dicembre, “I
ribelli senza leader” -: «Quella a cui stiamo assistendo — spiega De
Rita — è la rivolta delle classi che erano riuscite a entrare nel ceto medio e
ora tornano a cadere in basso». Per un trentennio, ricostruisce il presidente
del Censis, «il ceto medio ha continuato ad accogliere una parte crescente
della società italiana fino a rappresentarne oltre l’80 per cento. Dal 2000 in poi questo grande
lago del ceto medio ha cominciato a svuotarsi». Il processo di impoverimento ha
subito una forte accelerazione con la crisi del 2008. È questa accelerazione
che ha portato in piazza l’esercito dei precari, degli studenti senza immediati
sbocchi occupazionali e della marea di cassintegrati che da due-tre anni,
vivono con 7-800 euro al mese. (…). Una signora non più giovane (…): «Quando io
non ci sarò più, di che cosa vivranno i miei nipoti?». Fuori dal megafono
spiega: «Mia figlia e mio genero mandano avanti la famiglia anche perché io
prendo la pensione. Lui è cassintegrato, lei è disoccupata, come faranno
domani?». «Queste situazioni — osserva Revelli — sono il frutto del
radicalizzarsi della crisi sociale ma anche dal precipitare della crisi della
politica che non si accorge nemmeno dell’esistenza di un altro mondo, molto più
reale di quello dei palazzi del potere: uno scollamento drammatico ». (…). La
politica riuscirà a venire a capo di un mosaico tanto contraddittorio e
sfuggente? «La politica — conclude Revelli — ha fatto di tutto in questi anni
per non vedere il gigantesco processo di polverizzazione sociale e di
impoverimento che si stava producendo. E ancora oggi la sinistra commette
l’errore di etichettare tutto questo come frutto di una violenza squadrista.
Certo, il rancore e la rabbia dei poveri sono brutti da vedere e facili da
strumentalizzare. Ma non possiamo cavarcela con le manifestazioni
antifasciste». Ecco, sono per l’appunto costoro i “malvenuti” della “crisi”.
sabato 14 dicembre 2013
Eventi. 14 “Hamba Kahle addio compagno”.
Da una “memoria” di Dario Fo – “L'altro Mandela: tagli ai privilegi e un
solo mandato” – pubblicata su “il Fatto Quotidiano” del 12 di dicembre
2013.
In una scena all’inizio dello
stupendo film Invictus di Clint Eastwood, il partito di Mandela, riunito a
congresso, decide di abolire i colori e lo stemma dalle casacche dei giocatori
della nazionale di rugby, lo sport più popolare in Sudafrica, dove c'era un
solo nero. Votazione per alzata di mano. Tutti gli uomini di colore levano le
braccia in alto. I simboli della squadra, che oltretutto si trova in una crisi
disperata, vengono annullati. Allora entra in scena Mandela, prende la parola
e, con tono deciso, si dice contrario a quella risoluzione. “Dovremmo ripristinare
gli Springboks. Reintegrare il loro nome, il loro emblema e i loro colori
immediatamente. E vi dico perché. A Robben Island, tutti i miei carcerieri
erano bianchi. Li ho studiati, ho imparato la loro lingua, ho letto i loro
libri, la loro poesia. Occorreva che conoscessi il mio nemico per poter
prevalere su di lui. E infatti abbiamo prevalso, non è così? Tutti quanti noi
abbiamo vinto. I bianchi non sono più i nostri nemici, oggi, sono i nostri
fratelli sudafricani, i nostri concittadini in democrazia. E a loro stanno a
cuore gli Springboks. Se glieli portiamo via noi li perderemo, ci comporteremo
come da sempre hanno fatto loro con noi. No. Noi dobbiamo essere migliori.
Dobbiamo sorprenderli con la comprensione, con la moderazione e con la
generosità. È il momento di costruire
questa nazione, usando ogni singolo mattone a nostra disposizione”. Ci fu una
nuova votazione e, per un solo voto, la proposta di Mandela, Venne approvata.
(…).
Ricevo e posto l’ode “In morte di Nelson Mandela” ricevuta dall’amico
Giovanni Torres La Torre.
Nel suo viaggio di luci e ombre
la luna corre ad avvisare
gli abitanti delle terre del Natal
quelli degli altipiani stepposi del Karru
e dei Monti dei Draghi
le acque del fiume Orange
e i sepolti vivi delle miniere d’oro e uranio
di Johannesburg e di altre tane:
il messaggio di dolore al popolo del Sudafrica
è per la morte del grande padre della Nazione
Nelson Mandela.
Milioni di braccia
nella capitale
nelle baraccopoli delle città
in ogni villaggio
alzano al ritratto sorridente
fiori canti e preghiere:
mai più lutti ingiustizie e razzismo
mai più bambini senza latte senza scarpe e senza libri
e madri e figlie violentate
da criminali d’ogni risma
mai più schiavi nelle miniere
pesi di catene e pietre
carovane di uomini venduti come bestie
e sudari e celle di morte.
La nostra terra non vuole più
pozzi di acque fangose e tetti di lamiere
veleni nel sangue
né ladri e briganti a sventolare bandiere.
II
Non sono però ancora finiti i tempi della sofferenza
nel continente africano.
Incombono ancora urla di massacri
e il futuro è opaco.
I sopravvissuti dell’Apartheid e di Soweto
uccelli e musiche di fiati
intonano cori di ringraziamento
ai ritratti di Tata Mandela.
III
Hamba Kahle
addio compagno.
Torna alla terra eterna che ti fu madre
in solitudine e contemplazione.
Scorrono le acque e volano gli uccelli
nascono vivono e muoiono gli esseri umani
lasciando un grande sogno:
il diritto alla libertà
sempre da difendere e conquistare ogni giorno.
Addio Nelson Mandela.
Dalla memoria di Dario Fo.
Mandela, fin da prima della sua
liberazione, si estranea completamente come se non avesse vissuto tutte le
angherie patite e dice: “Quando la mia liberazione era prossima ho messo giù le
tracce dei discorsi che avrei dovuto tenere, e man mano le parole “condanna”,
“castigo” e soprattutto “vendetta” venivano cassate. A che scopo avrei deluso i
miei fratelli che speravano, in memoria dei loro cari umiliati, torturati, e
uccisi per anni, anzi secoli, che fosse data soddisfazione a quel popolo
trattato come gli animali da allevamento? Ma il problema più importante era
quello della costruzione di una comunità nazionale che non vivesse nella logica
infinita della vendetta e delle ritorsioni. Il pericolo maggiore era quello di
creare, in conseguenza del far giustizia ad ogni costo, una situazione di
paura, anzi, di terrore nella totalità dei bianchi, i quali avrebbero preferito
abbandonare il proprio paese piuttosto che subire una ritorsione”. Quel
comportamento fu di esempio a tutti i popoli. (…). Egli, nell’atto stesso in
cui accettava di ricoprire la carica di Presidente del Sudafrica dichiarava che
sarebbe rimasto al potere per un solo mandato. E mantenne la sua parola. Anzi,
alla folla di sostenitori che insistevano perché rinnovasse quell’impegno egli
rispose: “No, non voglio assolutamente essere di esempio per un andazzo che
normalmente si ripete in ogni società democratica: quello di gestire il potere
ad libitum. Oltretutto ci sono giovani uomini politici che, sono sicuro,
faranno meglio di me. Infatti, personalmente, ho mancato in più un’occasione, a
cominciare dal problema della lotta all’Aids, e da un’attenzione più decisa,
direi drastica, contro la criminalità organizzata che sta ancora rovinando il
mio paese”.
venerdì 13 dicembre 2013
Storiedallitalia. 34 Quelli che “non se ne può più".
Torino è (…) la mia città. Così
sono uscito di casa e sono andato a cercarla, la rivolta, perché come diceva il
protagonista di un vecchio film, degli anni ’70, ambientato al tempo della
rivoluzione francese, «se ‘un si va, ‘un si vede…». (…). La prima impressione,
superficiale, epidermica, fisiognomica – il colore e la foggia dei vestiti,
l’espressione dei visi, il modo di muoversi -, è stata quella di una massa di
poveri. Forse meglio: di “impoveriti”. Le tante facce della povertà, oggi.
Soprattutto di quella nuova. Potremmo dire del ceto medio impoverito: gli
indebitati, gli esodati, i falliti o sull’orlo del fallimento, piccoli
commercianti strangolati dalle ingiunzioni a rientrare dallo scoperto, o già
costretti alla chiusura, artigiani con le cartelle di Equitalia e il fido
tagliato, autotrasportatori, “padroncini”, con l’assicurazione in scadenza e
senza i soldi per pagarla, disoccupati di lungo o di breve corso, ex muratori,
ex manovali, ex impiegati, ex magazzinieri, ex titolari di partite iva divenute
insostenibili, precari non rinnovati per la riforma Fornero, lavoratori a termine
senza più termini, espulsi dai cantieri edili fermi, o dalle boîte chiuse. Le
fasce marginali di ogni categoria produttiva, quelle “al limite” o già cadute
fuori, fino a un paio di anni fa ancora sottili, oggi in rapida, forse vertiginosa
espansione… Intorno, la piazza a cerchio, con tutti i negozi chiusi, le
serrande abbassate a fare un muro grigio come quella folla. È la
cronaca – “L’invisibile popolo dei nuovi
poveri” - che Marco Revelli ha fatto sul quotidiano “Il Manifesto” di oggi degli
avvenimenti che stanno scuotendo il bel paese dalle Alpi al Lilibeo. È che il
movimento, che non è ancora tellurico (e non lo sarà mai, non ne abbiamo la
stoffa), mi ha colto mentre per motivi personali mi preparavo ad affrontare una
condizione che oggi mi viene da definire di chiaro-scuro. E dalla quale
condizione mi accingo ad uscire, virando verso dove? È che, avvolta com’era la
mia persona in una condizione inusitata, le voci che mi giungevano mi
spingevano a pensare al movimento che si stava per avviare come a qualcosa di
già visto negli anni trascorsi, con l’affannarsi dei cosiddetti “padroncini” per
spuntare alla politica quei “bonus” che avrebbero consentito loro di continuare
a sopravvivere nelle loro attività imprenditoriali. Mi sbagliavo e di grosso.
Lasciata la condizione mia di chiaro-scuro ho trovato l’interessante pezzo di
Marco Revelli che mi ha ampliato ed illuminato gli orizzonti sugli ultimi
avvenimenti. Continua Marco Revelli: E la “gente”, chiusa nelle auto bloccate da
un filtro non asfissiante ma sufficiente a generare disagio, anch’essa presa
dai propri problemi, a guardarli – almeno in quella prima fase – con un certo
rispetto, mi è parso. Come quando ci si ferma per un funerale. E si pensa
«potrebbe toccare a me…». Loro alzavano il pollice – non l’indice, il pollice –
come a dire «ci siamo ancora», dalle macchine qualcuno rispondeva con lo stesso
gesto, e un sorriso mesto come a chiedere «fino a quando?». Altra comunicazione
non c’era: la “piattaforma”, potremmo dire, il comun denominatore che li univa
era esilissimo, ridotto all’osso. L’unico volantino che mostravano diceva
«Siamo ITALIANI», a caratteri cubitali, «Fermiamo l’ITALIA». E l’unica frase
che ripetevano era: «Non ce la facciamo più». E qui ho provato a
riflettere. Ed a pensare a tutti questi anni che avremmo dovuto spendere in
maniera più virtuosa. E così pensando a giungere ad una amarissima conclusione:
questa volta la coperta è veramente troppo corta. E se prima essa riusciva,
tirata per i suoi lembi, a coprire abbastanza, oggigiorno risulta sempre più
misera ed inadeguata a soccorrere i tanti. Non che dell’insufficienza di quella
coperta non ci siano stati i segnali. Eccome. Ma si era tutti come presi da
quella cieca ed imprevidente necessità di “mungere” dalle generose mammelle
dello Stato sociale quanto più possibile - ora e subito – senza pensare al
rischio di mandare tutto in rovina. E come d’incanto montare oggi questi
scenari d’apocalisse che, ne sono convinto, svaporeranno appena le “santa
natività” richiamerà i più nel dolce, tenero tepore delle proprie case.
Cosa ne rimarrà del «non ce la facciamo più» di queste giornate dicembrine? Ben
poca cosa. L’indifferenza dei tanti per la mala politica, il voltare altrove lo
sguardo di fronte alle rivelate malversazioni compiute dalla mala politica
sulla cosa pubblica hanno condotto alle attuali pirotecniche condizioni che non
avranno la forza di determinare esplosione alcuna. Solamente fuochi
d’artificio. Aspettiamo tutti il natale! E del «non ce la facciamo più»
ha provato a scriverne anche Bruno Tinti su “il Fatto Quotidiano” del 12 di
dicembre: “È vero – (…) – questo dimostra a che punto siamo arrivati. Non se ne
può più; c’è un clima, una pressione che non sono più tollerabili”. Qualcosa
nel tono, nell’enfasi, mi ha fatto sospettare che i miei amici e io non stavamo
raggiungendo le stesse conclusioni. Il seguito del discorso mi ha levato ogni
dubbio. “Ti rendi conto che nessuno si compra una macchina nuova? E che, se
proprio la vecchia cade a pezzi, altro che Porsche o Mercedes, al massimo
un’utilitaria da 10.000 euro. Appena sali un po’, subito l’accertamento”. “Bè
sì; ma ti difenderai, contabilità, bilanci, lo sai come si fa”. (…). “Ma
insomma, non se ne può più. Io ho aperto un locale. Avevo ereditato un po’ di
soldi e li ho investiti. Mi hanno fatto l’accertamento e ho dovuto dargli il
testamento, l’accettazione dell’eredità, le mie dichiarazioni dei redditi degli
anni precedenti e un sacco di altri documenti”. Commenti disgustati di tutti
gli altri. “C’è un clima insopportabile, così non si può andare avanti”. “Ma
scusa – gli ho chiesto – come è finita?” “Bè, non è successo niente, hanno
archiviato”. “Vuoi dire che ti hanno dato ragione?” “Sì. Ma sai quanto ho
dovuto penare per raccogliere tutti i documenti. E poi la perdita di tempo,
l’ansia, la violazione della privacy”. Ho cominciato a spiegare. C’è
un’evasione fiscale da 130 miliardi l’anno (probabilmente di più).
Recuperassimo questi soldi, potremmo diminuire il carico fiscale sulle imprese,
aumentare le pensioni, finanziare la spesa pubblica, insomma incrementare i
consumi e favorire la ripresa. Quindi la lotta all’evasione è necessaria. E
dove si può fare? Certo non su lavoratori dipendenti e pensionati: quelli non
possono evadere. Resta la gente come te. Sono venuti a controllare, hanno
trovato tutto in regola e se ne sono andati. Tu sei la prova che il sistema
funziona. Di che ti lamenti? Ti fossi comprato la Porsche (da lì eravamo
partiti) sarebbe stato lo stesso. Non c’è stato niente da fare. Come
quell’esercito con cui simpatizzavano (“i forconi” n.d.r.),
erano incapaci di ragionare. Non ho ottenuto risposte coerenti nemmeno quando
gli ho detto: “Ma vi rendete conto che non vi state lamentando di un
accertamento sbagliato ma di una verifica? Che, in realtà, semplicemente non
volete essere controllati?”. (…). È che i “forconi” sono nati nella
splendida terra della “Trinacria”. Splendida terra spolpata dalla mala
politica, dalla malavita e dal malaffare, e dalla dissipazione – spesso
penalmente perseguibile - delle risorse pubbliche. Spolpata perché? E come, se
non nell’indifferenza generale? Ora quel modello di “riviviscenza” sociale lo
si vuole esportare altrove. Per farne cosa? Ché, per il dizionario Sabatini
Coletti, “riviviscenza” è per “alcuni organismi, ripresa delle funzioni
vitali temporaneamente sospese; med. ritorno in vita
dopo una fase di morte apparente”. La morte sociale, la morte di una
cittadinanza responsabile ed attiva. Scrive più avanti Marco Revelli: Ecco,
se un dato sociologico comunicavano era questo: erano quelli che non ce la
fanno più. Eterogenei in tutto, folla solitaria per costituzione materiale, ma
accomunati da quell’unico, terminale stato di emergenza. E da una viscerale,
profonda, costitutiva, antropologica estraneità/ostilità alla politica. Non
erano una scheggia di mondo politico virulentizzata. Erano un pezzo di società
disgregata. Società che è senza un progetto che sia, se non un
immediato tornaconto che non tenga conto della generalità dei problemi e dei
bisogni. Presto che arriva il natale!
sabato 7 dicembre 2013
Cronachebarbare. 29 “Il Paese dei ricchi, quello dei poveri”.
Afferma l’ineffabile Letta che “i
conti” dell’Italia sono a posto. E con ineffabile sicumera si perita di
bacchettare l’Europa intera. A posto come? In che senso? Per merito di chi? E
con quali sacrifici imposti? Su tutto ciò l’ineffabile non porge parola. Ne ha
scritto Marco Travaglio su “il Fatto Quotidiano” del 3 di dicembre ultimo col
titolo “Larghi brodini”: L’altro
giorno il Corriere anticipava il rapporto 2013 sulle attività della Guardia di
finanza: oltre 5 mila tra funzionari e impiegati pubblici denunciati per
corruzione e truffa (dai falsi poveri ai finti consulenti), che nei primi 10
mesi dell’anno han provocato danni erariali da 2 miliardi e 22 milioni di euro,
più truffe per 1 miliardo e 358 milioni. Cioè hanno rubato quasi 3,5 miliardi
alla collettività: 350 milioni al mese. E questi sono soltanto quelli scoperti:
immaginiamo a quanto ammonta il totale. Qualche mese fa, il ministero
dell’Economia comunicò che i mancati incassi di evasione fiscale accertata dal
2000 al 2012, ma mai recuperata da Equitalia, ammonta a 545,5 miliardi di euro,
su un totale di “ruoli” da riscuotere già emessi per 807,7 miliardi. Una parte
dell’enorme buco (107,2 miliardi) è irrecuperabile perché riguarda soggetti in
fallimento. Ma questo non basta per giustificare la bassissima capacità di
riscossione di Equitalia, che non arriva al 5 per cento. Viene da
chiedersi: quale è il costo sociale di tutto quest’arraffare a tutti i livelli?
È qui che l’ineffabile dovrebbe, com’è di moda dire, “metterci la faccia”. Ma
come un rodomonte qualsiasi trova più giusto asserire il non asseribile in
barba a quegli stessi numeri che all’ineffabile saranno ben noti. È questo il
livello della politica nel bel paese. Una politica da bar. Scrive ancora e
giustamente Marco Travaglio: In un paese serio (ipotetica del terzo tipo:
un paese serio non avrebbe queste cifre di mancati introiti) si parlerebbe di
questo, e solo di questo. E un governo e un Parlamento e dei partiti seri eviterebbero
di perdere tempo appresso a corbellerie come la riforma costituzionale o
l’ennesima legge contro la custodia cautelare e contro i giudici; ma
concentrerebbero tutto il tempo e tutti gli sforzi disponibili a trovare il
sistema per mettere le mani in questo immenso serbatoio di nero. Che non è
numerologia astratta: sono somme accertate, con i nomi e i cognomi dei
corrotti, dei truffatori e degli evasori. Basterebbe recuperarne il 5 o il 10
per cento in più, aumentando l’efficienza della macchina dello Stato, per avere
a disposizione decine di miliardi per la mitica “ripresa”. Invece si continua a
cincischiare dietro i falsi problemi e le false soluzioni. E a bollare chi
chiede una seria lotta alla corruzione, all’evasione e al riciclaggio come
giustizialista manettaro. Poi uno guarda chi sono i ministri e i politici che
dovrebbero occuparsene, e capisce tutto. Viene da chiedersi, nonostante
l’ineffabile: ma chi è a tenere i “conti” in ordine? I soliti “fessi”.
I tartassati di sempre. Ha scritto a questo proposito sul quotidiano l'Unità
del 27 di novembre l’economista Nicola Cacace – “Il Paese dei ricchi, quello dei poveri” -: L’Italia oggi soffre da morire
per la crisi perché è divisa in due, quella dei poveri e quella dei ricchi ed i
governi lo ignorano. (…). Con poco meno di 9mila miliardi di euro, quasi il 6%
del Pil, la ricchezza privata italiana batte un record relativo mondiale. Anche
questi dati mostrano un’Italia profondamente divisa, un blocco fortunato
formato dal 10% delle famiglie che possiede il 46% di tutta la ricchezza, quasi
2 milioni di euro a famiglia, un blocco mediano, che la crisi sta erodendo,
formato dal 40% delle famiglie, che possiede il 10% della ricchezza, 500mila
euro a famiglia ed il blocco dei poveri, vecchie e nuovi, formato dall’ultimo
50% delle famiglie, di poveri vecchi e nuovi che possiedono come patrimonio
netto meno del 10% (9,8%, dati Bankitalia), 60mila euro a famiglia, di cui
30mila in immobili (molto meno di una casa in proprietà per famiglia) e 30mila
in risparmi liquidi. In queste famiglie, se sparisce il reddito, si vive poco
più un anno con i risparmi della vita, poi, chi ce l’ha, vende la casa, poi è
la fine. L’aumento della povertà dopo anni di crisi ha messo a terra almeno
mezza Italia ed i governanti non possono continuare a non tenerne conto.
Perché, di fronte ad un Paese diviso in due, l’Italia dei ricchi e quella dei
poveri, di fronte ad un debito pubblico crescente che ha superato i 2mila
miliardi ed il 30% del Pil, di fronte alla realtà di una norma, il Fiscal
Compact che ci imporrà presto di ridurre il debito in modi convincenti - di
almeno una ventina di miliardi l’anno come da Bruxelles il commissario Olli
Rehn ci ricorda in ogni occasione -, di fronte ad una ricchezza privata non
trascurabile, perché nessun governo azzarda qualche proposta in tal senso? (…).
Perché, per iniziare a salvare il Paese, non si può chiedere un contributo a
quel 10% di famiglie che posseggono 4mila miliardi di patrimonio netto? Monti
aveva obiettato che non ci sono dati certi ma non è più vero, c’è il catasto
per gli immobili e c’è la banca dati in mano alla Finanza per i beni mobili. Un
contributo straordinario dello 0,5% del patrimonio del 10% delle famiglie più
ricche, da 2 milioni in su, darebbe 20 miliardi di entrate e costerebbe una
media di 8mila euro a ciascuna delle 2,4 milioni di famiglie più brave e
fortunate d’Italia. Nessuno fallirebbe, la speranza di uscire dal buco nero
della crisi sarebbe più concreta, i valori di solidarietà del popolo italiano
sarebbero esaltati, alla luce dell’esempio di civismo che le classi dirigenti
darebbero. Possibile che le cose che ha scritto Nicola Cacace siano anch’esse
ignote all’ineffabile? È che l’ineffabile, di suo, non ci mette nemmeno la
faccia. Ma quelli per i quali i conti non tornano sono sempre gli stessi che
mal dovrebbero sopportare le querule comunicazioni dell’ineffabile di turno.
martedì 3 dicembre 2013
Cronachebarbare. 28 “Olimpique Marsiglia-Milan”.
(…). 1991, quarti di finale di
Coppa dei Campioni Olimpique Marsiglia-Milan. Il Milan aveva vinto la Coppa nei
due anni precedenti, avrebbe potuto accettare con una certa serenità la
sconfitta che si stava profilando (gol di Waddle). Non si può vincere sempre. A
cinque minuti dalla fine si spegne uno dei quattro riflettori dello stadio. Il
nobile Maldini, il nobile Baresi e altri giocatori circondano l'arbitro: con
ampi gesti indicano il riflettore spento, c’è troppo buio, non si può giocare,
la partita va ripetuta (si vedevano perfino le monetine che i tifosi del
Marsiglia stavano gettando sul campo per irridere a quella vergognosa
sceneggiata). L’arbitro, ovviamente, non gli dà retta. Allora Galliani, in collegamento
con Berlusconi, ordina il ritiro della squadra. Una cosa inaudita, grottesca,
che non si è mai vista nemmeno nei più scalcinati campetti dei campionati
minori Figc. Il Milan si beccherà una squalifica di un anno. Chi
ricorda questo fatto di disonorevole cronaca sportiva? Certamente pochi,
pochissimi, anzi nessuno. Se ne è fatto carico Massimo Fini su “il Fatto
Quotidiano” del 17 di settembre 2013 col titolo “Milan, la sconfitta è solo per gli altri”. Ma è un fatto di
disonorevole cronaca sportiva che va aldilà di quell’effimero mondo pallonaro
per divenire fatto sociologico ed antropologico che rende contezza di tutto
quanto avviene nel bel paese. E che rischiara, fino a gettarne nuova luce, le
cronache di questi giorni che sono susseguenti alla “decadenza” del signor B.
Poiché le incredibili cronache che hanno accompagnato quell’atto – della “decadenza”,
è ovvio -, intervenuto a sanare nelle istituzioni un episodio d’indegnità
acclarata, se lette secondo la narrazione di Massimo Fini, rendono appieno la
calamità che da lustri e lustri ammorba il vivere civile e politico del bel
paese. Si disvela quell’immensa bolla che ha avviluppato il paese e dalla quale
è stato ed è impossibile uscire senza una “redde rationem” – una “resa
dei conti” - fatta “senza se e senza ma”. “Redde rationem” che non
è stata fatta, che non si vuol fare, che non si farà mai e poi mai. Col
risultato che la bolla continuerà ad inghiottire la nostra vita sotto tutti gli
aspetti. Scriveva oltre Massimo Fini: Questa
incapacità di accettare la sconfitta, di cercare di evitarla anche ricorrendo
ai mezzi più sleali, è un riflesso del mondo morale di Berlusconi, di cui
abbiamo poi avuto ampia testimonianza nella sua attività politica (“Bastava il
Milan per capirlo” scrissi per l’Europeo nel gennaio 1995). Il calcio, si sa, è
una metafora della vita. Nel mondo morale di Berlusconi c'è anche che col
denaro si può comprare tutto: Guardie di finanza, testimoni, giudici. E anche
di questo la storia del “suo” Milan è stata testimonianza. Quando aveva già i
tre olandesi e sapeva di non poterlo far giocare, acquistò Savicevic, allora
uno dei migliori giocatori del mondo, solo per toglierlo alle altre squadre.
Con lo stesso scopo acquistava giocatori importanti senza farli giocare. Il
nazionale De Napoli, in due anni, vide il campo, in tutto, per sette minuti. Ma
il caso più emblematico è quello di Gigi Lentini. Nel 1992 Lentini, talentuoso
ragazzo del vivaio granata, aveva portato il Torino al terzo posto in
campionato. Ma Berlusconi lo voleva a tutti i costi. Gli fece offerte sempre
crescenti che Lentini rifiutò: nel Torino era entrato a otto anni, dal Torino
aveva avuto la fama, alla gloriosa e sfortunata società granata era legato da
fortissimi vincoli affettivi, il denaro non era tutto. Ma Berlusconi portò
l’offerta, fra ingaggio e acquisto del cartellino, alla sbalorditiva cifra di
64 miliardi e il ragazzo, figlio di una famiglia di operai delle Banchigliette,
cedette. C’è chi dice che i miliardi siano stati “solo” 30, ma ha poca
importanza. Berlusconi non aveva comprato le gambe di Lentini, che non potevano
valere né 60 né 30 miliardi, gli aveva comprato l'anima dimostrandogli (a lui e
al vasto mondo giovanile che ruota intorno al calcio) che i suoi ingenui
sentimenti di ragazzo non valevano nulla di fronte al potere del denaro.
Naturalmente la cosa andò a finir male. Lentini, frastornato nel nuovo
ambiente, ebbe uno stupido incidente automobilistico, calcisticamente si
rovinò, non servì al Milan né il Milan a lui. (…). Ha qui termine la
disonorevole cronaca sportiva di Massimo Fini. Che è divenuta disonorevole cronaca
anche nei campi ben più importanti del vivere civile, del vivere politico, del
vivere economico del bel paese al tempo del signor B. Ora il signor B. è stato
costretto ad abbandonare gli alti scranni senatoriali per “indegnità”. Ma come per
un perverso intrigo questo aspetto della vicenda della “decadenza” è sparito
dalle cronache giornalistiche. Almeno nelle furbate di una certa “cronaca
stampata” così come di una certa “cronaca parlata”. Il nulla. È
questo disastrato paese che non ha voglia di nessuna “resa dei conti”. Poiché
in esso si vive all’ombra di quel “familismo amorale” e di quel “tengo
famiglia” che non ha mai e poi mai consentito di scavare a fondo per
ricercare le ragioni dei fatti e degli avvenimenti che ne hanno avvilito e
lordato la storia. Ha scritto Barbara Spinelli sul quotidiano la Repubblica del
20 di novembre 2013 – “La nuova destra
dei camaleonti” – facendo riferimento alla nascita del cosiddetto “Ncd”:
Quel
che manca è la caduta di Robespierre. Riottosi, i vassalli di Berlusconi
rimangono vassalli. Annunciano il nuovo, ma non escludono patti con l’ex capo e
promettono di lottare contro la sua decadenza dal Senato. Le idee che avevano
sulla Costituzione, troppo parlamentare e giustizialista, son sempre lì.
Piuttosto viene in mente l’8 settembre ‘43: Badoglio proclamò un armistizio che
apriva agli anglo-americani senza chiudere a Hitler, poi col re fuggì da Roma
lasciando che i nazisti occupassero il paese. (…). Nessun inventario, nessun
rendiconto del berlusconismo, nessun taglio del cordone ombelicale (ma neanche
idee su economia, Europa, politica estera). Se si esclude la difesa del governo
di Larghe Intese, l’essenza berlusconiana è preservata. La lotta alla
magistratura indipendente prosegue, la decadenza del leader è rifiutata. Che
destra normale può nascere in queste condizioni, sempre che norma significhi
norma? Si fa presto a dirsi moderati, se la sovversione da cui ci si separa
resta ingiudicata. Qui è il pericolo che corre l’Italia: che cambino nomi e
padroni dei partiti, ma non la cultura dell’illegalità che ci ha ammorbati ben
prima che Berlusconi andasse al potere: (…). Tutto è permesso agli oligarchi.
Anche le telefonate fatte dalla Cancellieri a amici privati, i Ligresti:
telefonate in cui si «mette a disposizione», e 4 volte dichiara «non giusto»
(lei che è Guardasigilli) l’arresto appena avvenuto di Salvatore Ligresti e
delle figlie per reato di falso in bilancio e manipolazione di mercato (il figlio
Paolo, latitante, evita l’incarcerazione). (…). Tragicamente degenera la
democrazia quando la legalità è facoltativa. Di fronte a noi sfilano governisti
(spesso indagati, spesso ex P2) che abrogano il passato per non mettersi in
pericolo. Le tragedie si superano con la catarsi: una purificazione. E con un
giudizio, espresso dall’opinione pubblica che è il Coro. In Italia non sono in
vista catarsi, o giudizi: né a destra, né per ora a sinistra. (…). Come
può essere messo alla porta quel Galliani che abbiamo ritrovato nella cronaca –
dimenticata – di Massimo Fini? “Tenimmo tutti famiglia”. Ma quella “memoria”
ripescata nei polverosi archivi spazza via tutte le insensatezze e tutte le
ipocrisie che hanno preceduto e seguito la decadenza di colui il quale si è
macchiato d’”indegnità” per continuare a stare nelle istituzioni massime. È
questo il paese dei “gattopardi” e dei “camaleonti”. Con buona pace di
quelle splendide, innocenti creature.
giovedì 28 novembre 2013
Capitalismoedemocrazia. 42 “Capitalismo finanziario globale e democrazia: la stretta finale”.
Scrive Alfonso Gianni in “Capitalismo finanziario globale e
democrazia: la stretta finale” – pubblicato sul numero 29 della rivista “Alternative per il
Socialismo” -: La incompatibilità dell’attuale capitalismo con la democrazia è (…) conclamata
e spudoratamente dichiarata. Da qui non consegue affatto un’assenza di
politica, o il semplice primato dell’economia e della tecnica sulla politica,
come da qualche parte viene sostenuto, ma al contrario una ben precisa politica
fondata sì sul primato dell’economia, o meglio della finanza da un lato e
dall’impresa dall’altro, ma nei confronti del lavoro. Il neoliberismo non
avrebbe retto al crollo verticale di credibilità che si è manifestato in
particolare in quel lasso di tempo che va dall’autunno del 2008 a larga parte del 2009,
quando la crisi mondiale è esplosa in tutta la sua drammaticità evidente, se,
in particolare in Europa, non avesse preso corpo una teoria e una pratica
compiute dell’austerity, proiettata nei tempi lunghi – si pensi solo ai venti
anni che servirebbero all’Italia per rientrare sotto il 60% del rapporto
deficit/Pil secondo il Fiscal Compact – e connessa con controriforme
strutturali, quali la liquidazione degli istituti del welfare state e la totale
liberalizzazione e precarizzazione del mercato del lavoro. Questo era
necessario e vitale per il sistema capitalistico per contrastare la diminuzione
del tasso di crescita e dei profitti e quindi aprire una nuova fase di
accumulazione, che non poteva che derivare dalla cancellazione degli spazi
economici pubblici – e con essi dei diritti al soddisfacimento gratuito dei
bisogni dei cittadini – per aprirli all’intervento del capitale finanziario. (…).Fine
della lunga, lunghissima citazione. Che ha il pregio di mettere a fuoco quegli
aspetti della “crisi” che artatamente, scientemente vengono sottaciuti se non nascosti alla
pubblica opinione. Almeno la più avvertita. Ché il resto di quella pubblica
opinione disdegna addentrarsi nei pensieri più complessi avendo pesantemente
subito quella “scarnificazione” del pensiero che è stato il miracolo primo,
il capolavoro, dell’attuale fase del capitalismo finanziario. Scrive infatti
Alfonso Gianni che (…). …la vittoria più significativa della classe padronale, (…), sta
nell’avere annichilito il suo avversario – (…) -, nell’avergli tolto la
coscienza di sé, nell’avere rimesso in discussione la stessa natura di classe
in sé, attraverso il fenomeno della precarizzazione, della cattura delle forme
di partecipazione anche inconsapevoli al ciclo della formazione del valore,
della tendenziale utilizzazione di ogni attività umana nella realizzazione del
profitto, della totale mercificazione, come ad esempio l’intrattenimento che
non ha più solo la funzione di legittimazione e di consenso del e al sistema,
ma una direttamente economica e profittevole. E per rimanere sul
terreno delle cose che avvengono nel bel paese l’Autore sostiene: Non è
un caso che l’attacco al cuore della nostra Costituzione sia quello rivolto ai
suoi Principi Fondamentali e alla Parte I, in particolare laddove si regolano i
Rapporti Economici. Infatti la democrazia nella modernità esiste in quanto si
riconosce non solo la distinzione ma la contrapposizione di diversi interessi e
di almeno due soggetti – il capitale e il lavoro – e la necessità che la loro
lotta non porti alla comune rovina della società civile. Se si nega in assunto
questa dualità si erode il principio e la necessità della democrazia stessa. Per
questa ragione la sua difesa non può prescindere dalla conoscenza e dalla
critica a ciò che avviene nell’organizzazione materiale e produttiva. (…).
Conoscenza e critica che non appartengono, più in misura diffusa, alla
stragrande maggioranza della opinione pubblica che, seppur nuovamente e
pesantemente proletarizzata, continua a comportarsi come quella categoria
sociale individuata dall’uomo di Treviri e che egli definì “lumpenproletariat”, categoria
e non più “classe” ridotta a vivere senza “la coscienza di sé”. Ho
letto sul numero del settimanale “D” del 23 di novembre l’ultima corrispondenza
di Federico Rampini che ha per titolo “La
grande mela divisa tra ricchi e poveri”. Scrive l’illustre opinionista: Proprio a fianco del prestigioso
Stern Building, sempre sulla 109esima, ci sono le case popolari gestite dalla
Hope Community, una ong non-profit che cerca di aiutare i più poveri. A pochi
metri da chi abita in appartamenti del valore di molti milioni, ogni mercoledì,
giovedì, venerdì e sabato la Common Pantry distribuisce frutta e verdura ai
senzatetto e ai tanti "denutriti o malnutriti" di East Harlem. Creata
nel 1980, la Common Pantry è arrivata a servire pasti gratuiti fino a 25mila
persone. Le file alla Common Pantry (…), si stanno facendo di giorno in giorno
più lunghe. Dal primo novembre, infatti, per una scelta dei repubblicani al
Congresso, sono stati tagliati drasticamente i "food stamps" o
buoni-pasto dell'assistenza pubblica federale. Molte famiglie che dipendevano
da quei buoni-pasto per arrivare a fine mese, ora si accalcano alla
distribuzione gratuita della Common Pantry. La domanda di alimenti alle code
dei poveri è cresciuta del 20%. La scena della distribuzione di cibo, a pochi
metri dai palazzi di lusso con piscine e fitness, è una sintesi di ciò che ha
preparato la vittoria elettorale del nostro nuovo sindaco. (…). Tra la fine
dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, New York sotto l'influenza di politici
riformatori, volle costruire dei settlements, o insediamenti, che portassero a
vivere gli studenti di buona famiglia e la nuova borghesia nelle vicinanze dei
ghetti per immigrati. I settlements dovevano mescolare i ceti sociali, favorire
la reciproca comprensione e integrazione. Oggi certe diseguaglianze estreme di
New York ci riportano al primo Novecento, se non proprio ai tempi di Dickens.
Uno dei programmi della Common Pantry oltre a sfamare i poveri di East Harlem
vuole offrire igiene, alloggio, assistenza medica. Si chiama Project Dignity. È
singolare che la dignità di una parte dei newyorchesi debba dipendere dalla
carità di quell'altra città. La corrispondenza di Federico Rampini,
come sempre ripulita dai “fronzoli” e pertanto diretta ed
intellegibile per chiunque, come è avvenuto per altri momenti del Suo lavoro di
acuto ed attento osservatore, apre su quegli scenari che, seppur anticipati in
quella società multietnica, saranno a breve gli scenari che milioni e milioni
di altri esseri umani vivranno direttamente sulla loro pelle.
martedì 26 novembre 2013
Cosecosì. 63 "Terra dei fuochi".
“Sono nipote di un uomo
che, presentendo che la morte lo attendeva all’ospedale dove lo stavano
portando, scese nell’orto e andò a dire addio agli alberi che aveva piantato e
curato, piangendo e abbracciando ognuno di essi, come se di esseri amati si
fosse trattato. Quell’uomo era un semplice pastore, un contadino analfabeta,
non un intellettuale, non un artista, non una persona colta e sofisticata che
decideva di lasciare questo mondo con un grande gesto che la posterità avrebbe
ricordato. Si sarebbe detto che stava salutando ciò che fino a
quel momento era stato di sua proprietà, ma di sua proprietà erano anche gli
animali che gli davano da vivere e lui non andò da loro per salutarli. Si
accomiatò dalla famiglia e dagli alberi come se per lui fosse stato tutto la
sua famiglia. (…). Non saprò mai cosa mosse lo spirito di mio nonno in quell’ora estrema,
cosa pensò e provò, quale chiamata urgente guidò i suoi passi insicuri fino
agli alberi che lo aspettavano. Forse sapeva che gli alberi non possono
muoversi, che sono legati alla terra dalle radici e che da queste non possono
separarsi, se non per morire. (…). Difendere gli alberi è difendere la Terra.
Mio nonno lo sapeva e non sapeva né leggere né scrivere. Un vecchio analfabeta mi
ha dato la migliore delle lezioni. Qui ve la offro, se la riterrete giusta e
umana. (…)”. Tratto da “Quel
vecchio uomo che abbracciava gli alberi“, di José Saramago. Ricevo e
posto di seguito la lirica pervenutami dall’amico Giovanni Torres La torre.
Terra dei fuochi.
I
Quale altro cielo tenterà
l’aquilone
tra fumi pestiferi che sporcano
ali d’uccelli
calura di morte che scioglie le
cere di Icaro
in questo autunno quando migrano
nel giro consueto delle stagioni
sorvolando questa parte di
inferno
nella terra un tempo felice?
Quali altre zolle
cercheranno le cicale e le
formiche
e che amori le fanciulle
e quali prati per correre i
bambini superstiti
e i padri nel vederli crescere
e i contadini per piantare e
spiantare
e raccogliere i frutti del loro
lavoro?
Quali future primavere
inviteranno farfalle ballerine
a posarsi su fiori avvelenati
e quale miele innamorerà ancora
la bocca della giovinezza
nella Terra dei fuochi?
II
Di quale mondo abbiamo memoria
e di quali paesaggi della
Campania Felix
nel rimpianto della parola che fu
di Plinio il Vecchio
per le terre coltivate
dall’antica sapienza contadina
e
bellezza del paesaggio
che un tempo generoso aveva
depositato
nell’anima nella carne e nelle
pietre
di quel mondo oramai leggenda?
E perché altri uomini di fango
e malefici ingegni
hanno devastato avvelenandola
la memoria dei luoghi
il suolo l’aria le acque
il seno delle madri
il sorriso dei bambini?
III
Quali armonie resteranno
di canti suoni e dialetti
per dire la maledizione e lo
sgomento degli antenati
di pagine di scrittura e regole
grammaticali
di belle parole dei maestri della
perduta infanzia?
e quali libri di scienze ed erbe
medicinali
che hanno guarito passioni di
conoscenza e ferite
fatiche di uomini e armenti
in questa terra ora impestata
dagli untori?
e quali ritratti di santi
cercheranno ancora devozione
ai bordi degli specchi della vita
che presi dal cancro sfarinano
nell’argento che muore?
IV
Bastimenti di morte
scendevano da Nord a Sud
per inondare di fiele
le terre della Campania
con la complicità di tanti
municipi
deputati senatori governatori e
prefetti
tutori della Legge
in grande parte muti per viltà
indifferenti al dolore delle madri
e alle pene delle piccole vittime
dei padri e delle famiglie
martoriate
sordi al suono delle campane
ciechi all’inchiostro di giudici
giornalisti sindaci
medici e scrittori.
V
Luna visionaria che continua il
suo viaggio
nei cieli appestati della Terra
dei fuochi
stanca e dolente per il lutto
alle porte delle case
e i nomi che escono nei lamenti
delle madri
coi ritratti nell’addio alla vita
fresco di inchiostro
che lasciano senza promessa di
tornare.
Luna del funesto chiarore
nella notte dei briganti della
camorra
delle persiane chiuse nel fondo
della notte
e malandrina
quando albeggia
alle balaustre di tanti municipi
ove sbiancano le belle bandiere
nella vergogna del silenzio
mentre garriscono a Casal di
Principe
e altre ancora per miracolo che
si ripete
nel petto dei superstiti
nei cortei e nei viaggi funebri
d’ogni giorno.
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