(…). La crescita non è una scelta
ma una condizione obbligata per la sopravvivenza del sistema capitalistico:
venuta meno questa condizione, la sua rapida ripresa è diventata un’invocazione
corale. Ma esistono dei forti dubbi che la crescita possa rappresentare l’unica
soluzione dei nostri problemi in quanto un’espansione quantitativa senza limiti
così come l’abbiamo conosciuta dalla rivoluzione industriale non appare
sostenibile. Così scrivono Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini sul
quotidiano la Repubblica del 9 di novembre – “Se la crescita non basta più” -. Debbo questo post a M.B., negli
occhi della quale ho visto, nell’ultimo nostro fuggevole incontro, lo sgomento
e la paura. Lo sgomento suo che penso sia comune a tutti gli operatori
economici e commerciali in questo periodo di difficilissima navigazione
all’interno della “grande crisi”. È la prima volta che mi viene di aggettivarla,
la crisi intendo dire. Dicevo della paura che ho visto negli occhi della carissima
amica di una vita; la paura di un passo indietro che riporti una grossa fetta
della società alle soglie della povertà. Donde quella paura vista in quello
sguardo suo mi spinge a parlare di “grande crisi”, per l’appunto. E
dalle parole sue disperate e come senza speranza alcuna ho potuto cogliere anche
una punta di astio verso tutti coloro che, al pari dei due estensori della
nota, auspicano che l’uscita della crisi sia diversa nelle quantità economiche
ma anche e soprattutto nelle percezioni e nei nuovi atteggiamenti che i
consumatori in quanto tali dovranno necessariamente fare propri. Urgono nuovi
atteggiamenti e nuovi comportamenti, più responsabili e più consapevoli.
Continuano a scrivere Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini: Ricordiamo
che prima dell’attuale crisi l’economia mondiale si sviluppava a un tasso medio
che, se estrapolato fino al 2050, l’avrebbe moltiplicata per 15 volte; se
prolungato fino alla fine del secolo, di 40 volte. E sappiamo che la crescita
comporta un incremento della popolazione, che oggi è pari a circa 6,5 miliardi
di persone e nel 2050 dovrebbe toccare i 9 miliardi. Riproponiamo dunque la
domanda: è concepibile un’economia capace di una crescita continua? Per noi la
risposta è senza alcun dubbio negativa perché la crescita sta determinando
un’imponente distruzione di risorse naturali. Ne deriva che il rilancio della
crescita può rappresentare una fase, non uno stato permanente dell’economia, e
che agli economisti toccherebbe il compito di rispondere alla domanda: esistono
altre forme di economia che possano fare a meno della crescita senza farci
ricadere nella povertà? È possibile “una prosperità senza crescita” (…)? Da
tempo economisti e scienziati si sono impegnati nel compito di immaginare quali
dovrebbero essere le linee portanti di un nuovo modello di sviluppo
dell’economia in senso ecologico e, soprattutto, di un nuovo modello
ideologico. Crediamo che sia giunto il momento di passare dall’economia della
competizione a una nuova economia della cooperazione: la competizione sempre
più spinta ha prodotto un’età della crescita che è oramai degenerata in un’età
della distruzione. Nuove forme di cooperazione potrebbero, invece, condurci
verso un’età di rinnovato benessere. (…). Ciò significa passare dalla quantità
alla qualità, da un concetto di “maggiore” a uno di “migliore”, dall’espansione
illimitata all’equilibrio dinamico. (…). Un processo di riconversione ecologica
dell’economia richiede nuovi indicatori e nuovi strumenti di misura delle
performance economiche, sociali e ambientali. Occorre superare il Pil che
rappresenta il valore monetario dei beni e servizi scambiati sul mercato. Il
prodotto interno lordo si è rivelato molto utile nel misurare la crescita
quantitativa, ma ha via via perso di efficacia nelle economie postindustriali
dove è cresciuto il peso dei servizi immateriali e delle attività di carattere
sociale, dove la qualità del prodotto e la produzione di nuovi prodotti hanno
assunto maggiore importanza e dove le tematiche relative all’ambiente sono
diventate sempre più centrali nelle scelte di vita di un gran numero di
persone. Inoltre, il Pil ignora completamente il fatto che la crescita
dell’economia è strettamente associata con il consumo delle risorse che quindi
tendono ad esaurirsi. Non solo i combustibili fossili, ma anche le foreste, il
suolo coltivabile, i metalli ed altre materie prime. Infine, il Pil non
conteggia la produzione di rifiuti, l’inquinamento, le emissioni di anidride
carbonica, la disponibilità di acqua dolce, il livello di istruzione. Se tutto
ciò venisse incluso nella stima del Pil constateremmo che le nostre società non
si stanno più arricchendo ma si sono incamminate lungo un percorso di
impoverimento sociale, economico e ambientale. Per uscire dalla crisi, dunque
non basta semplicemente rilanciare la crescita, ma è necessario concepire un
nuovo modello di sviluppo ecologico e cooperativo ed elaborare nuovi indicatori
che siano in grado di misurare realmente la ricchezza prodotta e le risorse
consumate a livello globale. Spero che M.B., abituale ed attenta
lettrice delle cose che vado proponendo su questo blog, legga con attenzione le
sagge parole dei due illustri Autori e voglia ammainare la sua animosità verso
tutti coloro, me compreso, che sono dell’idea di uno sviluppo, di una crescita che
siano diversi e più adeguati e rispettosi dell’equilibrio dinamico della
troposfera. Senza una consapevolezza nuova grandi disastri ci attendono che
supererano di gran lunga, per gli effetti che essi dispiegheranno, i disastri economici
e finanziari prodotti dalla “grande crisi” che stiamo
vivendo. Ha scritto il filosofo francese
Serge Latouche – la Repubblica del 14 di settembre 2012 – in un Suo editoriale
che ha per titolo “Facciamo economia”:
Viviamo
in una società della crescita. Cioè in una società dominata da un'economia che
tende a lasciarsi assorbire dalla crescita fine a se stessa, obiettivo
primordiale, se non unico, della vita. Proprio per questo la società del
consumo è l'esito scontato di un mondo fondato su una tripla assenza di limite:
nella produzione e dunque nel prelievo delle risorse rinnovabili e non
rinnovabili, nella creazione di bisogni - e dunque di prodotti superflui e
rifiuti - e nell'emissione di scorie e
inquinamento (dell'aria, della terra e dell'acqua). Il cuore antropologico
della società della crescita diventa allora la dipendenza dei suoi membri dal
consumo. (…). Per usare una metafora siamo diventati dei
"tossicodipendenti" della crescita. (…). Un meccanismo che tende a
produrre infelicità perché si basa sulla continua creazione di desiderio. Ma il
desiderio, a differenza dei bisogni, non conosce sazietà. Poiché si rivolge ad
un oggetto perduto ed introvabile, dicono gli psicoanalisti. (...). …la
ridefinizione della felicità come "abbondanza frugale in una società
solidale" corrisponde alla forza di rottura del progetto della decrescita.
Essa suppone di uscire dal circolo infernale della creazione illimitata di
bisogni e prodotti e della frustrazione crescente che genera, e in modo
complementare di temperare l'egoismo risultante da un individualismo di massa.
(…). L'abbondanza consumista pretende di generare felicità attraverso la
soddisfazione dei desideri di tutti, ma quest'ultima dipende da rendite
distribuite in modo ineguale e comunque sempre insufficienti per permettere
all'immensa maggioranza di coprire le spese di base necessarie, soprattutto una
volta che il patrimonio naturale è stato dilapidato. Andando all'opposto di
questa logica, la società della decrescita si propone di fare la felicità dell'umanità
attraverso l'autolimitazione per poter raggiungere l'"abbondanza
frugale". (…). Jean Baudrillard lo aveva ben visto a suo tempo quando
disse che "una delle contraddizioni della crescita è che produce allo
stesso tempo beni e bisogni, ma non li produce allo stesso ritmo". Ne
risulta ciò che egli chiama "una depauperizzazione psicologica", (…).
La vera povertà risiede, in effetti, nella perdita dell'autonomia e nella
dipendenza. Un proverbio dei nativi americani spiega bene il concetto:
"Essere dipendenti significa essere poveri, essere indipendenti significa
accettare di non arricchirsi". Siamo dunque poveri, o più esattamente
miseri, noi che siamo prigionieri di tante protesi. La crescita del benessere (del
“ben”
“essere”
e non degli oggetti che non consentono di “essere, di stare bene al mondo”
n.d.r.) è dunque la strada maestra della decrescita, poiché essendo felici si è
meno soggetti alla propaganda e alla compulsività del desiderio. (…). Mi
ricordo ancora la mia prima arancia, trovata nella mia scarpa a Natale, alla
fine della guerra. Mi ricordo anche, qualche anno più tardi, dei primi cubetti
di ghiaccio che un vicino ricco che aveva un frigorifero ci portava le sere
d'estate e che noi mordevamo con delizia come delle leccornie. Una falsa abbondanza
commerciale ha distrutto la nostra capacità di meravigliarci di fronte ai doni
della natura (o dell'ingegnosità umana che trasforma questi doni). Ritrovare
questa capacità suscettibile di sviluppare un'attitudine di fedeltà e di
riconoscenza nei confronti della Terra-madre, o anche una certa nostalgia, è la
condizione di riuscita del progetto di costruzione di una società della
decrescita serena, come anche la condizione necessaria per evitare il destino
funesto di un'obsolescenza programmata dell'umanità. Dedicato a M.B.,
operatrice commerciale in ansia, che mi è molto cara.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
venerdì 30 novembre 2012
mercoledì 28 novembre 2012
Dell'essere. 9 Adolescenza infinita.
E poi ci sarebbe l’adolescenza.
Una fase che dovrebbe essere ben delimitata nella vicenda terrestre degli
umani. È che quella fase sembra oggigiorno non finire mai. Almeno per gli umani
delle recenti generazioni cresciute nel bel paese. “Bamboccioni” per alcuni,
“choosy”
per l’ultima detta dalla Fornero che piange, se ne adontano molto. Perché mai?
Cosa fanno per non meritarsi aggettivazioni di quel tipo? In verità credo ben
poco – salvando i pochi, anzi i pochissimi che ci provano -. I segnali
premonitori non sono mancati negli anni. Ce li ha forniti come sempre la “cattiva
maestra” – secondo Popper -, madama la televisione. Che ha fatto
abbondantemente ricorso ai “bamboccioni”, trentenni o
quarantenni ed anche oltre nell’anagrafe, che negli spot si dilettano,
gigioneggiano, fanno il “cascamorto” con il telefonino
ultimo grido, o con qualsivoglia altro inutile oggetto di consumo che la
televisione volesse imporre tra i desideri insopprimibile e/o le aspirazioni
del suo non catafratto pubblico. Colpa della televisione allora? E perché no, colpa
della scuola, tanto va di moda! La colpa a chi? Ha scritto Giacomo Papi sul
numero del settimanale “D” del 10 di novembre scorso – “Adulti che non aiutano a crescere” -: (…). Negli ultimi decenni del
secolo scorso tutti i bambini smisero, all'improvviso, di andare a scuola da
soli. Prima era normale già in seconda elementare. Poi arrivò l'epidemia.
Rispondendo a un'oscura chiamata culturale, i genitori decisero in massa che
era troppo pericoloso, che c'erano troppe automobili in giro e troppi pedofili
in agguato, (…). In realtà, i pericoli non erano aumentati e il tempo per i
figli, mediamente, non era diminuito. A essere cambiata era la percezione degli
adulti. Era aumentata la paura. I bambini incominciarono ad apparire creature
fragili, incapaci di difendersi e diventare libere e autonome. Esseri viventi
incapaci, letteralmente, di crescere. (…). L'allungamento della vita media
deforma le età. Stiracchia in una post adolescenza infinita il periodo che va
dai 20 ai 30 anni e rimanda la vecchiaia oltre i 70. Rende genitori e figli per
sempre. (…). È in atto un innamoramento collettivo per le creature che
rimangono piccole. Il sogno del cucciolo eterno. La nostra idea dell'infanzia è
un tassello di un processo che iniziò con la moda dei bonsai, gli alberelli
giapponesi che non crescono, ed esplode, oggi, per esempio, con l'invasione dei
chihuahua. Ma se si rimane piccoli è per soddisfare una precisa richiesta
sociale, una esigenza profonda dei grandi. Protrarre all'infinito la dipendenza
dei figli è, infatti, prima di tutto, una strategia di auto-gratificazione e
rassicurazione dei genitori, un modo per continuare a sentirsi utili, anzi
indispensabili, in un universo che sembra sempre in procinto di fare a meno di
noi. Mi sento di condividere l’analisi sempre puntuale e precisa di
Giacomo Papi. Alla quale analisi mi sento di affiancare la riflessione di un
uomo di scienza, lo psicoanalista lacaniano Massimo Recalcati, riflessione
pubblicata sul quotidiano la Repubblica – “Adolescenza
infinita”, 6 di ottobre 2012 -. Scrive l’illustre Autore: (…).
Ricordo un mio vecchio maestro elementare che aveva il vizio di riproporre in
modo assillante una metafora educativa tristemente nota: "Siete come viti
che crescono storte, curve, arrotolate su loro stesse. Ci vuole un palo e filo
di ferro per legare la vite e farvi crescere diritti". In un passato che
ha preceduto la contestazione del '68 il compito dell'educazione veniva
interpretato come una soppressione delle storture, delle anomalie, dei difetti
di cui invece è fatta la singolarità della vita. Oggi questa metafora non
orienta più - meno male - il discorso educativo. Oggi non esistono più - meno
male - pali diritti sui quali correggere le storture delle viti. Il problema è
diventato quello dell'assenza di cura che gli adulti manifestano verso le nuove
generazioni, lo sfaldamento di ogni discorso educativo che l'ideologia
iperedonista ha ritenuto necessario liquidare come discorso repressivo. E
qui l’illustre Autore sembra concordare in pieno con l’opinionista Giacomo Papi
laddove lo stesso scriveva, a proposito delle cosiddette “cure parentali”, che
esse sono, o rappresentano “prima di tutto, una strategia di
auto-gratificazione e rassicurazione dei genitori, un modo per continuare a
sentirsi utili, anzi indispensabili”. E di mio ci aggiungerei anche la
tendenza da parte degli adulti a non differenziarsi di molto dai pargoli loro affidati, in nome di un
falso, consumistico “giovanilismo” che li conduce irrimediabilmente a confondere
ruoli e competenze derivandone una deresponsabilizzazione non percepita nella
giusta misura. Scrive infatti Massimo Recalcati: Non che gli adulti in generale
non siano preoccupati per il futuro dei loro figli, ma la preoccupazione non
coincide col prendersi cura. I genitori di oggi sono, infatti, assai
preoccupati, ma la loro preoccupazione non è in grado di offrire sostegno alla
formazione. Quello che dobbiamo constatare con amarezza è che il nostro tempo è
marcato da una profonda alterazione dei processi di filiazione simbolica delle
generazioni. Come in una sorta di Edipo rovesciato sono i padri che uccidono i
loro figli, non lasciano il posto, non sanno tramontare, non sanno delegare,
non concedono occasioni, non hanno cura dell'avvenire. La vita dei nostri figli
è aperta ad un sapere senza veli - quello delle rete per esempio - ma anche
quello relativo al mondo degli adulti una volta impermeabile ad ogni domanda,
mentre oggi ridotto ad un gruviera: i figli sanno tutto dei loro genitori anche
quello che sarebbe meglio non sapessero. L'alterazione del rapporto tra le
generazioni passa anche da qui; i figli hanno accesso senza mediazioni
culturali ad un sapere senza confini e diventano i confidenti dei genitori e
delle loro pene. Anziché potere appoggiare la loro vita su quella dei propri
genitori, seguono per lo più attraverso le vite da adolescenti di chi dovrebbe
prendersi cura delle loro vite. Una pesante responsabilità di scelta attende i
nostri giovani non essendo più la loro vita vincolata ai binari immutabili
della tradizione e della trasmissione familiare. È, come direbbe Bauman, la
condizione liquida delle nuove generazioni. Sempre meno esse si trovano a
proseguire sulle orme dei loro familiari e sempre più si trovano - nel bene e nel male - obbligate ad
inventare un loro percorso originale di crescita. (…). L'iperedonismo
contemporaneo ha scomunicato il compito educativo come una cosa per moralisti.
Di conseguenza, la libertà si è ridotta a fare quello che si vuole senza
vincoli né debiti. Ma intanto il debito cresce e ha sommerso le nostre vite e
l'assenza di senso della Legge ha spento la potenza generativa del desiderio. E
allora la libertà non genera alcuna soddisfazione ma si associa sempre più alla
depressione. È qualcosa che incontriamo sempre più frequentemente nei giovani
di oggi. Ma come? Hanno tutte le possibilità, più di qualunque generazione
precedente? E sono depressi? Come si spiega? Si spiega col fatto che la loro
libertà è in realtà una prigione perché è senza possibilità di avvenire.
Cresciamo i nostri figli nella dispersione ludica mentre la storia li investe
di una responsabilità enorme: come fare esistere ancora un avvenire possibile?
Nietzsche aveva posto all'uomo occidentale il problema della libertà nel modo
più radicale possibile. L'uomo è pronto per essere libero? È all'altezza del
compito etico della libertà? La fuga delle masse nei totalitarismi del
Novecento aveva dato una risposta negativa a quella domanda. No, l'uomo non è
capace di essere libero, l'uomo fugge dalla libertà. Adora il tiranno e il suo
bastone. La pulsione gregaria domina quella erotica. Il rifugio nel grande
corpo della massa viene preferito all'assunzione singolare della propria
libertà e della vertigine che essa comporta. Oggi le cose sono cambiate. La
massa non è più unita dall'attaccamento fanatico all'ideale. Il cemento che la
tiene insieme si è inesorabilmente sgretolato, così si è fatta liquida,
ondivaga, informe. E prevale l'individuo nel suo isolamento narcisistico. Mi
soccorre per concludere, come sempre, il poeta libanese Kahlil Gibran: E una
donna che stringeva un bimbo al seno chiese: parlaci dei figli. Ed
egli disse: i vostri figli non sono i vostri figli. Essi sono i figli e le figlie
della smania della Vita per se stessa. Vengono attraverso di voi, ma non
da voi, e benché stiano con voi, tuttavia non vi appartengono. Voi
potete dar loro il vostro amore, ma non i vostri pensieri, poiché essi hanno i
propri pensieri. Potete dare alloggio ai loro corpi, ma non
alle loro anime, poiché le loro anime dimorano nella casa del futuro che voi
non potete visitare neppure in sogno. Voi potete sforzarvi di essere
come loro, ma non cercate di renderli simili a voi. Poiché la vita non va
all’indietro e non si trattiene sullo ieri. Voi siete gli archi dai quali i
vostri figli vengono proiettati in avanti, come frecce viventi. (…).
Ecco il punto: “non cercate di renderli simili a voi”. Poiché li renderete per
sempre i vostri “bamboccioni”, senza responsabilità e senza cuore. Soli di
fronte alla Storia. E senza la libertà.
domenica 25 novembre 2012
Cosecosì. 34 Invecchiare in Occidente.
Capito in un istituto di
bellezza. L’ambiente è salubre, elegante e sobrio al contempo. Si respira bene.
Si inalano effluvi odorosi. Un impianto hi-fi diffonde musica in sottofondo. È
che, con la perdita delle frequenze, non mi lascio affascinare e trascinare dalle
melodie sapientemente diffuse. Capito nell’istituto di bellezza per una pratica
di basso profilo. Per le mie estremità inferiori, bisognevoli d’essere ripulite
dagli ispessimenti cutanei che la mia passione per la deambulazione mi crea con
una certa frequenza. Avrete notato che non ho nominato le suddette estremità. È
che da bambino ascoltavo la mia mamma chiacchierare con le amiche e dovendo esse
riferire di quelle estremità premettevano sempre un “con decenza parlando”
come se quelle estremità non facessero a buon titolo parte del loro corpo e non
ne fossero un’appendice indispensabile e straordinaria. E così mi è rimasta una
certa ritrosia a farne menzione diretta. Avrete capito dello scarso mio
interesse per la “bellezza” dispensata copiosamente e profumatamente in
quell’istituto – profumatamente a soldini, intendo dire -; è che da un bel
pezzo essa, la “bellezza”, non mi interessa più, almeno sulla mia persona.
Ammiro ed apprezzo quella delle “altre”. E così mi accingo rassegnato
a riprendere la lettura dell’agile volumetto che il quotidiano la Repubblica ha
allegato – Alessandro Baricco, “Una
certa idea del mondo” -. L’impresa mi sfuma per le mani. È che il mio
sguardo viene attratto da un gigantesco poster elegantemente incorniciato che
domina l’incantevole salottino d’attesa. Nel poster campeggia uno stupendo
corpo nudo di donna giovane e bella. In alto a sinistra ci sta scritto: “Regeneration
Radio Frequency”, sintetizzato nell’acronimo “RRF”. Al centro - sulla
destra - del poster ci sta scritto: “Cancella i segni del tempo”.
Allibisco. Resto senza pensieri. Anzi mi si affollano copiosissimi disordinatamente.
Mi pare assurdo che per scrivere tali enormità si faccia ricorso al corpo
giovane e bello di una donna. Che bisogno ha quella donna giovane e bella, ritratta
nel poster, di una “Regeneration Radio Frequency”? Per cancellare i “segni
del tempo” che non ha? È proprio così oca da poter credere ad una
promessa tanto truffaldina? E se le avessero promesso di fermare addirittura i “segni
del tempo”? Di fermare il “tempo” insomma. Scriveva il
professor Umberto Galimberti in una Sua riflessione – “Invecchiare in Occidente”, sul settimanale “D” del 6 di novembre
dell’anno 2010 -: “È scritto nel Levitico (19,32): Onora la faccia del vecchio. In
Occidente si invecchia male, perché i valori che regolano la nostra cultura
sono sostanzialmente quello biologico, quello economico e quello estetico,
rispetto ai quali la vecchiaia appare in tutta la sua inutilità, perché
biologicamente decadente, economicamente improduttiva, esteticamente
degradata”. È quel che il poster dell’istituto di bellezza vuole
trasmettere ed affermare. Di recente – 6 di ottobre 2012 - Claudia De Lillo –
in arte Elasti – ha scritto sul settimanale “D” un pezzo con la Sua consueta
scrittura graffiante ma sempre intelligente. Titolo del pezzo, “Allarme: capelli bianchi!”: (…). …qualche giorno fa ero dal
parrucchiere. "Elasti, mi dispiace. Ma te lo devo dire", ha
dichiarato lui, guardandomi di sottecchi attraverso lo specchio, contrito e
anche un po' imbarazzato. Per qualche secondo ho sudato freddo. Cosa ho
combinato? Ho il collo sporco? Oppure ho i coccodrilli dentro le orecchie, come
dicono i miei figli? Mi sono dimenticata di mettere il deodorante? O di pagare
l'ultima volta? "Mi dica, Donato. Mi dica...", ho balbettato.
"Ehm... si tratta dei... capelli bianchi. Sono aumentati. Parecchio",
ha risposto in un sussurro compassionevole. Ho sospirato di sollievo, pensando
che, almeno, ero pulita. E senza debiti. E mi sono improvvisamente ricordata di
un messaggio che circolava in rete vari anni fa, a proposito di noi, che,
crescendo e invecchiando, impariamo a chiudere in un cassetto il brutto
anatroccolo in cui ci specchiamo, acquisendo non la sicurezza, che è una vetta
impervia e inarrivabile, ma la noncuranza, la leggerezza e l'autoironia di cui
difettiamo da piccole. Si intitolava "Il cappello color porpora",
come quello che indosseremo a ottant'anni, quando non avremo tempo di guardarci
ma solo di divertirci, alla conquista del mondo. (…). Gli anni che passano si
portano via qualche colpo, insieme a un'ora o due di sonno e a quella grazia
flessuosa e tonica che tuttavia, quando c'era, non sapevamo apprezzare. Gli
anni ci regalano lo sconcerto pietoso di un parrucchiere, la soggezione di un
ventenne, la censura di una commessa in un negozio. Gli anni però ci liberano
anche dal soffocante bozzolo delle nostre insicurezze acerbe. Ci regalano la
voglia di ridere, di fregarcene, di osare, di avventurarci intrepide in
territori inesplorati, di goderci quello che abbiamo, di stilare liste spavalde
che si allungano alle cinque del mattino, quando tutti dormono. Ci insegnano
che la vita è troppo preziosa per indugiare nella contemplazione dolente delle
nostre imperfezioni. "Cosa vuole farci, Donato? Li tingiamo, 'sti capelli
bianchi. E quando ci saremo stufati di tingerli ci metteremo in testa un
cappello color porpora". Il parrucchiere mi ha sorriso, cortese e
compiacente come si fa coi bambini, coi matti, con gli stranieri che non si
capiscono e con le signore che incanutiscono. Elasti è ancora giovane e
mi pare che non cadrà giammai nelle truffaldine lusinghe di quel poster.
Riprendo la dotta riflessione del professor Galimberti: “Questa non rispondenza della vecchiaia
ai valori dominanti nella nostra cultura aggiunge alla condizione senile una
tristezza ulteriore, che rende più drammatico ai vecchi assistere
all'inevitabile decadimento del proprio corpo, a cui si aggiunge un progressivo
disinteresse per il mondo, che oggi cambia troppo velocemente rispetto alle
capacità di adattamento della persona anziana, che perciò si sente
inevitabilmente emarginata in quanto improduttiva e non più bella. Il fattore
bellezza, così esaltato dalla nostra cultura, induce il vecchio ad accantonare
quella pulsione d'amore che nella vecchiaia non si estingue, ma viene
semplicemente messa da parte, per pudore, per vergogna, perché il nostro
costume l'ha per intero consegnata a chi è in grado di esprimere bellezza e
giovinezza. Nel Levitico (19,32) leggiamo: Onora la faccia del vecchio, perché
nelle culture primitive il vecchio era depositario di sapere e di esperienza,
per cui, come dice Max Weber, moriva sazio e non stanco della vita. Oggi,
grazie alla scienza e alla tecnica, disponiamo di archivi di informazioni che
spiazzano la saggezza senile che perciò diventa superflua. Se a ciò si aggiunge
che i vecchi hanno spesso difficoltà ad accedere ai mezzi tecnologici dove
circola il sapere, all'invecchiamento fisico si aggiunge quello che Mario
Barucci, autore di libri importanti sulla vecchiaia, chiama invecchiamento
psicologico dove, come capita a tutti noi, ma a maggior ragione alle persone
anziane, le capacità cognitive diminuiscono non solo per il decadimento
biologico, ma anche e soprattutto perché alle persone anziane più non giungono
messaggi che attestino, interesse, coinvolgimento emotivo e perché no: amore. E
questo perché i vecchi, in fondo, rappresentano, col loro stesso corpo e con la
tristezza dipinta sul loro volto, quel che ineluttabilmente ci attende, e da
cui distogliamo ogni giorno il pensiero”. Sono convinto che il “giovanilismo”
assurto a “regola” e “ stile” di vita abbia di fatto arrestato il “crescere”
psichico di una larga fetta delle giovani generazioni, con un dilatarsi abnorme
della durata di quella fase della vita che un tempo la si denominava
“adolescenza”. Ci tornerò sopra.
giovedì 22 novembre 2012
Uominiedio. 4 Le parole del diavolo.
Dice Gesù: "Sia invece il
vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal diavolo" (Mt, 5,37). È
probabile che ciò lo abbia detto l’uomo Gesù, l’ebreo di Nazareth, che conviene
considerare ben altra cosa dal Gesù fondatore, o solamente ispiratore, di un
credo che si trasforma nel tempo in una religione che conquista il suo potere e
che lo difende anche col filo delle spade e con le punte delle sue lance
benedette. Il punto è noto: una religione, anzi tutte le religioni, che siano
espressioni parziali del pensiero umano peccano, e alla grande, nel voler
sostenere la veridicità assoluta del proprio credo diffuso. Ecco perché il Gesù
uomo storico è ben diverso dal Gesù creato dai chierici; è per tale motivo che
non pochi hanno sostenuto la non “cristianità” del Gesù storico, ma
il suo sentirsi intimamente e convintamente ebreo. La citazione iniziale la
devo al professor Umberto Galimberti – “Le
parole del diavolo”, su il settimanale “D” del 7 di luglio dell’anno 2012
-. Continua il professor Galimberti nella Sua riflessione: Quello che non mi persuade dei
pronunciamenti della Chiesa non sono tanto i contenuti, quanto la
"modalità" della loro enunciazione che, per non smentire i principi
fondanti la fede e al contempo adeguarsi allo spirito del tempo, si arrampica
sugli specchi che, come ognuno sa, non consentono alcuna presa. È un “arrampicarsi
sugli specchi” che un uomo di buona volontà, il teologo Vito Mancuso,
ha messo in rilievo con una dotta riflessione – “Il nuovo Gesù del Papa e la guerra all’esegesi storica”, sul
quotidiano la Repubblica - a proposito dell’infanzia dell’uomo di Nazareth.
L’occasione per la riflessione gli è stata offerta con l’avvenuta pubblicazione
dell’ultimo lavoro editoriale del vescovo di Roma – “L’infanzia di Gesù”, Rizzoli editore, pagg. 176, € 17 -. Scrive
Vito Mancuso: (…). L’oggetto sono i primi due capitoli del Vangelo di Matteo e del
Vangelo di Luca, i cosiddetti “vangeli dell’infanzia”. Per secoli essi sono
stati letti come reali resoconti storici, ma oggi l’esegesi biblica storico-critica
è pressoché unanime nel dichiarare il contrario. (…). L’inevitabile conseguenza
però è che il Gesù dei Vangeli non coincide con il Gesù della storia, (…).
Certo tra Matteo e Luca vi sono elementi comuni: l’identità dei genitori,
l’annuncio angelico, il concepimento di Maria senza rapporti sessuali con il
marito, la nascita a Betlemme sotto il regno di Erode, il trasferimento a
Nazaret. Ma vi sono anche discordanze che non possono essere armonizzate: prima
della nascita di Gesù, Maria e Giuseppe o risiedevano a Nazaret (Luca) o
risiedevano a Betlemme (Matteo); il loro viaggio da Nazaret a Betlemme o ci fu
(Lc) o non ci fu (Mt); Gesù nacque o in casa dei genitori (Mt) o in una
mangiatoia (Lc); la strage dei bambini di Betlemme o accadde (Mt) o non accadde
(Lc); i genitori o fuggirono in Egitto per salvare il bambino dai soldati di
Erode (Mt) o andarono al tempio di Gerusalemme per la circoncisione senza che i
soldati di Erode si curassero del bambino (Lc); la famiglia da Betlemme o tornò
subito a casa a Nazaret di Galilea (Lc), oppure si recò a Nazaret solo dopo
essere stata in Egitto e per la prima volta (Mt). Opposta è inoltre l’atmosfera
complessiva che avvolge la nascita di Gesù, regale e tragica in Matteo,
semplice e bucolica in Luca: a chi dare credito? Nella mente dei fedeli i due
racconti si mescolano senza distinguere gli elementi dell’uno e dell’altro,
(…). Problemi di non poco conto per una religione che vuole essere
depositaria di verità assolute. Scrive ancora il teologo Vito Mancuso: C’è
inoltre la questione di come la notizia del concepimento verginale sia giunta
agli evangelisti. (…). …sarebbe stata Maria a comunicare ai discepoli lo
straordinario evento di aver concepito il figlio senza rapporti sessuali. Ma se
fosse stato davvero così, non si spiegherebbe la scarsa attenzione del Nuovo
Testamento per Maria, compreso il libro degli Atti degli apostoli scritto
proprio da Luca che la menziona solo una volta e quasi di sfuggita, mentre dà
molto più spazio non solo a Pietro e a Paolo ma persino a personaggi secondari
come Lidia la commerciante di porpora. È forse credibile che Luca, sapendo
direttamente da Maria del concepimento straordinario di Gesù, negli Atti la
trascuri completamente, senza scrivere nulla su dove viveva, cosa faceva, come
finì la sua vicenda terrena, e senza averle mai dato neppure una volta la
parola? (…). La realtà è che i Vangeli dell’infanzia presentano un profilo
storico complessivo abbastanza improbabile. Il dato storico sicuro (la nascita
di Gesù) è circondato da una serie di particolari incerti se non improbabili, a
cominciare dal luogo della nascita, che per (…) “la maggioranza degli studiosi
dubita che Gesù nacque a Betlemme” (The Cambridge Companion to Jesus, p. 22) e
un esegeta cattolico come Raymond Brown è giunto a parlare di “prove positive a
favore di Nazaret”. Quisquilie o sostanza? Torniamo al professor
Galimberti: Si prenda a esempio la soppressione del limbo, la cui esistenza era
stata sancita dal Concilio di Firenze del 1479 e ribadita dal Catechismo
Maggiore di Pio X. Nel 2007 la Commissione Teologica Internazionale, con un
pronunciamento approvato e promulgato da Benedetto XVI, dice: "Abbiamo
cercato di leggere i segni dei tempi alla luce del Vangelo. La nostra
conclusione è che i molti fattori che abbiamo considerato offrono seri motivi
teologici e liturgici per sperare che i bambini che muoiono senza battesimo
saranno salvati e potranno godere della visione beatifica. Sottolineiamo che si
tratta qui di motivi di speranza nella preghiera, e non di elementi di
certezza"". Capite bene: sottolineano! Non si ha la certezza
che il “limbo” lo si possa escludere. Non si pronunciano ma pregano
affinché i piccoli bla bla bla… E Galimberti: E allora, il limbo esiste o non
esiste? Lo stesso dicasi del purgatorio, la cui esistenza, mai messa in discussione,
è riaffermata al paragrafo 1031 dal Catechismo della Chiesa Cattolica del 1997
con questo argomento: "Per quanto riguarda alcune colpe leggere, si deve
credere che c'è, prima del giudizio, un fuoco purificatore; infatti colui che è
la Verità afferma che se qualcuno pronuncia una bestemmia contro lo Spirito
Santo, non gli sarà perdonata né in questo secolo, né in quello futuro (Mt.
12,32). Da questa affermazione si deduce che certe colpe possono essere rimesse
in questo secolo, ma certe altre nel secolo futuro". Capite bene?
È solamente questione di tempo. Quanto tempo? Non lo si sa. Si vive nella
speranza. O per le indulgenze? Ovvero al mercato delle indulgenze?, mercato tanto
avversato dal monaco delle 95 tesi affisse il 31 di ottobre dell’anno 1517 sul
portone della Chiesa di Wittenberg. Galimberti: La deduzione non mi pare
perfettamente logica e neppure l'unica possibile, dal momento che nulla
impedisce alla bontà e alla misericordia di Dio di rimettere le "colpe
leggere" su questa terra senza assegnarne l'espiazione al "fuoco
purificatore". Il sospetto è che si immagina la giustizia divina conforme
alla giustizia terrena che sancisce la gradazione della pena in base alla gravità
della colpa. Ma chi ci autorizza a ritenere che Dio ragioni come gli uomini.
Perché se così fosse non ci sarebbe bisogno di credere in Dio. (...). Ancora
una volta la via seguita è quella di non prendere mai una posizione netta, di
non dire mai "sì sì", "no no", ma di usare tutte quelle
parole che, a leggere il Vangelo, sono parole del diavolo. L’”arrampicarsi
sugli specchi” è la condizione propria di chi vuole ricondurre il tutto
alle sue ragioni, per quanto le stesse possano essere espressione della parzialità
del pensiero e/o di una costruzione del pensiero. Conclude il teologo Vito
Mancuso: I Vangeli sono quindi inaffidabili? No, sono degni di fiducia, ma solo
a patto di distinguervi diversi livelli di storicità, cioè dati storicamente
sicuri, dati probabili e dati improbabili. In particolare i vangeli
dell’infanzia sono un’interpretazione del significato esistenziale di Gesù, per
manifestare il quale il racconto della sua nascita è stato arricchito di una
serie di elementi simbolici, com’era normale nell’antichità per i grandi
personaggi. Tutto ciò lungo i secoli è servito ad attrarre l’attenzione su
Gesù, perché nel passato l’umanità identificava la presenza del divino con i
miracoli e lo straordinario. Oggi però avviene il contrario. Oggi i miracoli e
lo straordinario sono più di danno che di aiuto all’autentica comunicazione
spirituale. (…). Ove rifulge l’inutilità, oggi più che mai, di quell’”arrampicarsi
sugli specchi” delle religioni divenute chiese sorde e cieche e
fomentatrici della credulità più malsana. Rimango alla visione del poeta Kahlil
Gibran: E un vecchio sacerdote disse: parlaci della religione. Ed egli rispose:
(…). È la vostra vita quotidiana il vostro tempio e la vostra religione. (…). E
se volete conoscere Dio non siate dunque solutori di enigmi. Piuttosto
guardatevi intorno e lo vedrete giocare coi vostri bambini. E guardate nello
spazio; lo vedrete camminare dentro la nuvola, protendere le braccia nel lampo
e scendere con la pioggia. Lo vedrete sorridere nei fiori, poi alzarsi per
agitare le mani fra gli alberi. Una religione senza enigmi. Senza
inutili forzature. Senza ridondanti cerimoniali e funzioni criptiche e lontane –
si pensi per esempio alla “teofagia” che si rinnova (dal greco
antico “theòs” e “fagein”, "mangiare dio")
di quelle funzioni - dalla sensibilità del tempo, molto più prossime alla
religiosità per gli antichi “déi”
dei politeisti di un tempo.
mercoledì 21 novembre 2012
Cosecosì. 33 La solitudine del consumista.
(…). - Professor Foresti, qual è
il male psichico dominante che oggi fa soffrire gli italiani? «Noi mettiamo
l’accento sul narcisismo, questa epidemia di amore malsano verso se stessi che
fa sì che la gente si ritiri dallo scambio sociale. In apparenza è in
relazione, ma fa fatica a fidarsi». E mi fermo qui, per il momento. È
un interessante passaggio che ho letto nell’intervista al professor Giovanni
Foresti apparsa sul quotidiano l’Unità – “La
solitudine del consumista” per l’appunto - del 25 di maggio 2012 a firma di Maria Serena
Palieri. Poiché l’intuizione brillante dell’illustre intervistato penso possa
offrirmi la spiegazione ad un interrogativo che mi ha assillato non poco. Un
interrogativo che mi ha fatto insorgere, come sempre leggendo le Sue
corrispondenze, Vittorio Zucconi nella corrispondenza Sua del 17 di novembre
ultimo scorso. Titolo della corrispondenza:
“I consumatori alla prova dell'uragano Sandy”, pubblicata sul settimanale
“D” del quotidiano la Repubblica. “Amore malsano verso se stessi” afferma
il professor Foresti nell’intervista di cui sopra. Si chiede Vittorio Zucconi nella Sua corrispondenza: “Ma
ci deve essere qualche cosa di più profondo in quelle cataste di rotoli che
vedevo uscire dai negozi”. Poiché l’argomento che mi appresto a tratteggiare
abbisogna di molta pudicizia, così come ne abbisognano tutte le cose afferenti
alla sfera del “privatismo” degli umani. È invocata, in questo caso, la
cosiddetta “solitudine” dell’umano,
del consumatore, nel momento degli attimi suoi più riservati ed
intimissimi. Avrete di già capito a quale delle funzioni della corporalità mi
stia spingendo a parlarne. Ma anche se si fa finta d’ignorarla, essa impregna
la nostra vita, almeno quella strettamente corporale. E prosegue il Vittorio
Zucconi con un Suo ricordo storico: Uscivano dalle porte sudice del negozio
sulla via Dorogomilovskaya di Mosca, con ghirlande attorno al collo, come i lei
hawaiiani, soltanto che invece di fiori erano fatte da rotoli di carta igienica
tenuti assieme da una corda, per trasportarne di più. Nell'Urss del Socialismo
Reale anni 80, la carta igienica era uno dei beni più rari e preziosi,
nonostante la non esemplare morbidezza, condannati a scomparire dagli scaffali
in poche ore per effetto dell'accaparramento. La certezza che la nuova partita
di rotoli sarebbe arrivata chissà quando spingeva ogni cittadino e cittadina
russi dotati di un sedere a comperare quanti più rotoli potessero trasportare,
magari legati attorno al collo, così garantendo che non ce ne fossero mai
abbastanza e la scarsità fosse permanente. E così si passa dalla Storia
grande alla cronaca dell’oggi. Scrive ancora Zucconi: È lo stesso fenomeno di psicosi
collettiva che ho visto scattare a fine ottobre, quando sulla Costa Atlantica
degli Stati Uniti si è abbattuta un'uragana chiamata Sandy, che ha investito
Washington, Baltimora, Philadelphia, New York, Boston. (...). Sotto il
martellamento dei media, tutti, dalla informazione su carta (non
necessariamente igienica) alla Rete, il panico si è scatenato fra le gente.
(…). Ma la prima cosa che è sparita completamente dai supermarket sapete quale
è stata? Appunto. La carta igienica. Sembra che i popoli delle nazioni
sviluppate, anche quelle molto parzialmente tali come era la Russia sovietica,
possano fare a meno di molte cose, sappiano risparmiare sul cibo e le bevande,
rinunciare al trasporto privato per i mezzi pubblici, pigiare sui pedali se la
benzina costa come il vino e bere acqua se il vino si fa troppo caro. Ma alla
conquista della carta igienica non si rinuncia. (…). Prodotti di qualità
scadente, riservati a coloro che devono risparmiare sui centesimi e
abitualmente languono invenduto, volavano via insieme con le celestiali
morbidezze pubblicizzate da orsacchiotti (non ho mai capito bene il rapporto
fra gli orsi e la toilette personale, ma pare che l'associazione pubblicitaria
funzioni). (…). Chi appartiene alla generazione che ancora ricorda con orrore i
ritagli offensivi di quotidiano o, peggio, di rotocalco, appesi a un chiodo nei
gabinetti pubblici può capire l'ansia con la quale oggi la cittadinanza si
preoccupa della carta igienica prima di preoccuparsi di cibo, acqua, batterie
per le torce elettriche, medicinali, candele o coperte nell'imminenza di una
catastrofe. (…). Ma ci deve essere qualche cosa di più profondo in quelle
cataste di rotoli che vedevo uscire dai negozi. C'è il bisogno di proteggere la
propria intimità più intima, la propria privatezza più privata dall'aggressione
bestiale del maltempo che tenta di riportarci tutti allo stato di natura più
primitivo. Tutte le creature bevono, mangiano, eccetera. Io sono umano perché
uso la carta igienica. (…). È la cronaca leggera e sarcastica che ne ha
fatto Vittorio Zucconi. E la “solitudine”? C’entra, eccome se
c’entra. Poiché anche nella “solitudine” di quell’atto della
corporalità la nostra marchiatura a vita di consumatori, anzi di “consumisti”,
per dirla con il professor Giovanni Foresti, non perde la battuta. Anzi, ne
offre conferma, si sostanzia. Immaginate Voi il “consumista” assiso sul
suo “vaso”,
come del resto la quasi totalità degli umani - e dico la quasi totalità – con
la sua ben fornita scorta di igienici rotoli, anzi “rotoloni che non finiscono mai”?
Mi è capitato, frequentando abitazioni di amici carissimi, di trovare
disseminati quei rotoloni ovunque e non solamente ritrovarli appesi al
cosiddetto portarotolo. Ovunque, nei locali adibiti a quei servizi, la loro
traccia: su mensole e ripiani, cassetti e quant’altro atto a custodirli
ospitandoli amorevolmente. È per via di quell’“amore malsano verso se stessi”?
Ne ricavavo l’intuizione di una situazione di disagio psichico. Per via di un’abbondanza
e presenza disseminata ovunque ma ingiustificata. Perché tutti quei rotoloni? Concludo
a questo punto il “divertissement” che mi ha preso la mano per tornare a ben
altre sostanze dello spirito a ben altre“solitudini”. Un saltino all’indietro per tornare alla intervista
annunciata all’inizio del post: - Tra social network e salotti televisivi in
effetti si direbbe, piuttosto, che la gente non desideri altro che condividere
ogni istante di vita ed esibire i sentimenti più privati. (…). «Dilaga
un’intolleranza capillare della società civile a farsi disciplinare. Siamo
ancora nel mezzo di un ciclo che si è aperto alla fine degli anni Settanta, con
Margaret Thatcher, Ronald Reagan e le loro politiche di de-regolamentazione. Il
modello concettuale che i lacaniani usano da alcuni anni è semplice ma ha una
sua ragion d’essere: se un tempo l’imperativo era lavorare e produrre oggi,
dicono, è godere e consumare. Una volta gli adulti erano fieri della fabbrica
in cui lavoravano, oggi gli adolescenti sono orgogliosi del logo della
maglietta che indossano».
- A proposito di deregulation
ricordate che essa si ispirava al pensiero della Scuola di Chicago e aveva
l’obiettivo di liberare gli «animal spirits» dell’impresa. Ma alla lunga, nella
psicologia collettiva, non ha prodotto piuttosto un’infantilizzazione: dal
cittadino adulto che lavora, appunto, a quello, eterno infante, che consuma?
«Si dice addirittura che abbia prodotto un deperimento del concetto di
cittadinanza. C’è qualcosa di avido e distruttivo nel consumo. Mentre buona
parte di quanto viviamo è disciplinato dalle politiche di marketing. Ingordo,
avido e invidioso: è questo il tipo ideale di soggetto per la nostra società». (…).
- Noi italiani veniamo da un
ventennio in cui ci siamo fatti sedurre da un Grande Incantatore. Oggi invece
ci si uccide accusando lo Stato di essere un Grande Persecutore. È un rapporto
equilibrato tra cittadini e cosa pubblica? «È appunto il problema delle regole.
O si eludono, si negano, si trasgrediscono, oppure le si vive come l’arrivo di
un castigamatti. Il nostro è il Paese dove si teorizza che le tasse non vanno
pagate e chi ascolta sogghigna, poi arriva quello che dice che si pagano e
succede l’iradiddio. Non solo i suicidi, ma il grido “La Guardia di Finanza va
a Cortina a verificare che rilascino gli scontrini. Mio Dio!”. (…) …questa
nostra malattia risale alla Controriforma. Noi siamo tutti colpevoli ma non
responsabili. Anni fa ho pranzato con un alto prelato e, di fronte al cibo,
commentai “Non mi faccia cadere in tentazione”. Sa come mi rispose? “Guardi che
il miglior modo di affrontare il demonio è cedere subito”. Non è un
capolavoro?». (…).
Nella condizione di “solitudine”
– anche privata – del “consumista” la regola è una e
d’oro: “godere e consumare”. Con pudicizia parlando. Sempre.
lunedì 19 novembre 2012
Storiedallitalia. 31 Europa, gli spettri bussano alla porta.
Spero non vi siate lasciati
sfuggire il pensiero di oggi di Chiara Saraceno riportato in testata e che
campeggia sovrano nei suoi rutilanti caratteri. Rutilanti come i fatti di
questi giorni che hanno visto una mobilitazione su scala europea che non si sarebbe
immaginata, sino a qualche tempo fa, di poter registrare. Tale è lo stato
calamitoso della situazione economica e sociale dell’Europa tutta. È un
pensiero dell’oggi quello di Chiara Saraceno. Ma Chiara Saraceno ne aveva
preannunciato nefasti esiti in un’intervista rilasciata al quotidiano l’Unità
del 3 di febbraio dell’anno 2011, intervista a firma di Laura Matteucci, intervista
che ha per titolo «Scivoliamo in basso.
Più poveri e con una peggiore qualità della vita». Affermava l’illustre
studiosa: «Il segno del nord che soffre è una spia socio-economica molto
importante. Se nel sud non si è registrato un peggioramento non è certo perché
sta bene: non è lì che si è perso il lavoro, perché già non c’era, e non si
sono erosi risparmi e capitali, perché non c’è ricchezza diffusa». È
avvenuto che l’”apatia”, soprattutto delle giovani generazioni, trovasse una
giustificazione nel sistema-tampone che il bel paese riusciva a mettere in
campo raschiando sino al fondo il ricco, un tempo, barile dei risparmi delle
famiglie. Raschiato sino al fondo il barile, il bel paese si è ritrovato
esposto alle intemperie della crisi al pari della Spagna o del Portogallo o
della Grecia. I fatti di questi giorni ne sono una dimostrazione lampante. Più
oltre in quella intervista: Un allineamento verso il basso? «Esatto. Il
centro-nord resta comunque più ricco e con meno disoccupazione, ma la perdita è
notevole. Non sono dati sorprendenti: la crisi ha colpito soprattutto in
Piemonte, con un calo del reddito da lavoro, e in Lombardia, dove è in
flessione il reddito da capitale». La sociologa Chiara Saraceno, (…), commenta
gli ultimi dati sul calo del reddito degli italiani nel 2009: -2,7% di media
che contiene il -4,1% del nord-ovest e il -1,2% del sud. Ma il dato più
drammatico, ricorda, resta quello sulla disoccupazione giovanile, «un problema
enorme, e certo non solo economico». Leggiamo ancora: I
dati si riferiscono al 2009, ma il 2010 non ha certo invertito la tendenza.
«Direi di no. Il fatto è che nel 2008 sembrava che tutto ancora tenesse, la
crisi non aveva ancora lasciato il segno. Ma nel 2009 ha colpito eccome, e
gli indicatori del 2010 su cassa integrazione e occupazione non ci parlano
affatto di una ripresa. (…). In Italia (…) si sommano due fenomeni: da un lato
la cig resta sì protettiva – (…) - ma significa comunque una perdita di
reddito, tanto più se prolungata. Secondo punto, il problema dei giovani, i
primi insieme alle donne a perdere i contratti precari che avevano. Sono stati
i primi a perdere il lavoro, e saranno gli ultimi a riaverlo. Questa è una
generazione a rischio, costretta a farsi mantenere dalle famiglie di origine,
se possibile, molto più a lungo di quanto vorrebbe. (…). Questo dei giovani
privati della loro autonomia, che non è solo un problema economico, è l’indicatore
più drammatico, anche perché non è certo al primo posto nell’agenda di
governo». (…). Oramai la risorsa famiglia è più che compromessa.
Continua l’intervista: Che paese ci avviamo a diventare? Sempre più
povero e più diseguale? «Le famiglie hanno ancora riserve di ricchezza, ma fino
a quando? Scivoliamo sempre più in basso, e non staremo affatto bene, perché
non abbiamo una buona qualità della vita, in termini di relazioni personali e
nemmeno con l’ambiente. Si aspetta a metter su famiglia, a comprare il frigo o
l’auto nuova, il che certo non aiuta la ripresa. Ai giovani dico: pensate a voi
stessi, non aspettatevi niente dal governo in termini di formazione e di
sostegni a forme imprenditoriali. Il vostro destino dipende in larga misura da
voi». Un paese, insomma, che aggiunge ad una stridente disuguaglianza
nella distribuzione della ricchezza la negazione di una qualsivoglia prospettiva
di ascesa tra le classi sociali. È quest’ultimo aspetto il risultato
più ingeneroso e drammatico della lotta di classe all’incontrario che la crisi
globale ha innescato e portato pervicacemente avanti. Ha scritto di recente Furio Colombo – “il
Fatto Quotidiano” del 28 di ottobre, “Europa,
gli spettri bussano alla porta” -: (…). La situazione è la grande crisi. E
resta la domanda: che cosa è la grande crisi, un evento vasto, grave e
misterioso che impone di abbandonare solidarietà e riformismo, proprio su
ordine perentorio dei suoi supposti predicatori e paladini? Provo a
descriverla. Due forze attraversano con furore la storia dei nostri giorni.
Puntano in direzioni opposte, ma non si scontrano perché entrambe sono o
sembrano immateriali. Una è la finanza del mondo. Tutto ciò che viene strappato
e disossato dallo stremato settore manifatturiero diventa vapore di immensa
ricchezza che si muove in cieli senza frontiere dove non incontra alcun
possibile controllo, dove non può essere regolato da alcuna legge salvo frange
di corruzione e tracce sparse e minime di esistenza fisica (qualche residuo
accumulo di ricchezza trovato qua e là da bravi investigatori) abbandonate
nelle retrovie della grande fuga da ogni possibile accertamento. L'altra forza
che invade l'universo virtuale è l’informazione, un’immensa massa mondiale di
notizie che ha dimostrato una strana, inaspettata tendenza, inversa a quella
della finanza. La rete abbraccia il mondo, ma è fanaticamente locale. Il mondo
in rete è quasi solo il volto di avversari vicinissimi che abitano accanto.
(…). L'Alba dorata (formazione politica di estrema destra ad
ispirazione nazistoide n.d.r.) di Atene sembra essere una delle promesse
fisiche per i senza futuro. L'altra è quella di eliminare dalla scena chiunque
stia facendo, bene o male, in modo criminale o corretto, qualunque cosa. La
colpa è di esserci da prima. È un comportamento folle, ma non ha diritto di
giudicarlo o di contestarlo chi ti costringe a vivere senza futuro. Chi ha
cancellato il futuro per ragioni che, ti dice, sono ragionevoli, pragmatiche,
ma anche obbligate (“non siate choosy”) sembra non avere pensato a quanto
profonda e vasta sarebbe stata la risposta fisica, in piazza. Una folla giovane
destinata a ingrossarsi è in corsa verso il Palazzo, senza progetti, senza
ideali, ma con un pesante carico di rancore. (…). Qualcosa si muove.
Quanto sarà dirompente questo qualcosa sugli equilibri che la lotta di classe
all’incontrario ha stabilito per tutti noi?
venerdì 16 novembre 2012
Storiedallitalia. 30 Vent’anni dopo: avanti verso il passato.
(…). Vent’anni fa – uno più, uno
meno – i partiti tradizionali – di governo e di opposizione – si sfaldavano.
Fiaccati dal voto del 1992. E soprattutto da Tangentopoli. Si rifondavano. La
Dc e il Pci. Si ri-nominavano. Si dividevano. Fra post e neo. E si
redistribuivano fra i due schieramenti. Vent’anni fa – uno più, uno meno –
Silvio Berlusconi si preparava a scendere in campo. Vent’anni fa: il Paese si
dibatteva in una crisi economica pesante, condizionata da un debito pubblico
enorme. I governi dell’epoca, affidati a ministri “tecnici”, come Amato, Dini e
Ciampi, vararono manovre finanziarie onerosissime. Vent’anni fa, l’Italia
chiudeva un lungo ciclo della propria storia. Condizionata dalla presenza di
grandi organizzazioni illegali, radicate sul territorio. Mafia e camorra, in
particolare. Sfidate, soprattutto, dalla magistratura e dai magistrati – oltre
che da esponenti politici e della società civile. Con grande sacrificio di vite
umane. Vent’anni fa. Nella storia di un paese. Nella storia delle
singole persone di quel paese. Anzi del bel paese. È che esiste un “irrisolto”
tanto nei singoli quanto nelle aggregazioni umane. Nei singoli esso, l’”irrisolto”,
è spesso causa e motivo di sofferenza psichica, che ne coinvolge l’esistenza
tutta nei sentimenti, nelle emozioni e perché no, nella vita che sia culturale,
sociale e politica. Una sofferenza della quale non sempre si ha piena coscienza
e contezza. Spesso solamente percepita, la sofferenza, a livello subliminale.
Questo per i singoli. È che quell’”irrisolto” lo si ritrova anche e
spesso nella storia dei popoli. Ne diviene allora un dato quasi culturale, a
misura dell’antropologia culturale, un dato specifico, un dato antropologico
come stimmata impressa nella carne viva di un popolo. Un marchio, del quale non
si ha coscienza piena. Continua Ilvo Diamanti – la Repubblica del 3 di
settembre 2012 “Oltre il passato senza
indulgenza” -: (…). Vent’anni fa: il cambiamento, a lungo annunciato, infine,
irrompeva. Tumultuoso. Ma disordinato, privo di un disegno chiaro. Promosso da
diversi attori e diversi soggetti. Con interessi e progetti diversi. Attraverso
referendum, elezioni locali, svolte elettorali, inchieste giudiziarie e spinte
territoriali. Vent’anni dopo – anno più, anno meno. È l’oggi. Amaro,
amarissimo. Quasi senza prospettive che siano nuove. Che non abbiano la muffa
dell’antico. Del già visto. Del già vissuto. Ilvo Diamanti: È
lecito dubitare. Che quella svolta, quella frattura, quel cambiamento: abbiano
prodotto i risultati annunziati. Sperati. Vent’anni dopo. Si parla ancora e
sempre di Tangentopoli. Di referendum elettorali e di nuove leggi – che
correggano l’ennesima degenerazione scaturita dalle mediazioni dei partiti. Con
un nuovo sistema di voto, che rischia di fare rimpiangere il Porcellum. E
verrà, puntualmente, sanzionato da una nuova, ironica definizione di Giovanni
Sartori. Vent’anni dopo. Si continua a parlare di federalismo e di autonomie
locali. Vent’anni dopo. Si parla ancora di ritorno del Centro, della nuova Dc.
E se il comunismo è finito, l’anticomunismo c’è ancora. Agitato come una
bandiera. Vent’anni dopo. Governano i tecnici. Berlusconi ha concluso il suo
ciclo, ma incombe. Vent’anni dopo. Sempre lì. In attesa di nuove elezioni di
svolta. A discutere di vent’anni fa. Vent’anni dopo. È che schiacciati
dall’”irrisolto”,
divenuto nel tempo un dato antropometrico incancellabile, non si ha la forza,
la determinazione di scavare a fondo, di liberarsi dai costumi e dalle costumanze
divenuti nel lungo tempo una camicia di forza che impediscono una crescita più
armonica della società. Scriveva nel Suo diario il conte Henry d’Ideville alla
data del 26 di aprile dell’anno 1865: “… l’Italia è davvero la terra dei morti. (…).
Dove trovare un popolo più vecchio, più usato, più corrotto, meno ingenuo? Le
rivoluzioni, di cui non si può contare il numero, le tirannie, le occupazioni
straniere, le servitù hanno pesato su questo bello e infelice paese e hanno
lasciato nel sangue stesso della nazione i vizi più svariati con una dolorosa
esperienza e in realtà un gran senso politico. (…). Chi c’è di meno giovane, di
meno ingenuo, di meno entusiasta dell’italiano? Prima di tutto è sottile,
scettico, astuto e interessato. Molto più intelligente di noi, sa calcolare,
aspettare, lusingare e dissimulare, cosa a cui noi non arriveremo mai. Rifate
le divisioni del paese, trasformatelo in uno solo Stato, sconvolgete governi e
frontiere, dategli tutte le costituzioni che vorrete, non cambierete mai la
razza e il temperamento del popolo. Per quanto facciate, non lo renderete mai
giovane”. E così stancamente per la qual cosa – sempre per Ilvo
Diamanti -: Vent’anni dopo e vent’anni prima. Le stesse questioni, le stesse
polemiche, le stesse vicende, gli stessi attori. Come se, in vent’anni, niente
fosse cambiato. O forse perché i cambiamenti sono avvenuti in modo
contraddittorio. Eludendo i problemi invece di risolverli. Perché il
cambiamento si è realizzato senza aver fatto davvero i conti con il passato.
Senza aprire le pagine più scure della nostra biografia. È l’”irrisolto”
di cui sopra. Delle persone singole. Del popolo italico tutto. E per dirla con
Giovanni Sartori – in un’intervista su “la Repubblica“ del 21 di febbraio
dell’anno 2004 –: (…). Il nostro è un paese disossato, storicamente senza vertebre. Nel
1922 Ortega y Gasset scriveva della Spagna invertebrata. Ho sempre pensato che
quel titolo fosse più calzante per l’Italia. (…). … al momento della prova, gli
italiani non reagiscono, subiscono. (…). Siamo il paese forse più invaso e
conquistato d’Europa. E con tutti i conquistatori siamo riusciti sempre a
trovare un accordo, nel segno della sopravvivenza. (…). … anche ai tempi delle
invasioni barbariche siamo stati capaci di soluzioni accomodanti. Con potenti e
prepotenti possiamo esibire uno straordinario mestiere di navigazione. Che è
anche rassegnazione e sottomissione. (…). Donde le nostre sventure
passate, presenti e future. Ilvo Diamanti: Le leggi elettorali: modificate per via
referendaria o compromissoria. Sempre a metà, fra maggioritario e
proporzionale. Come la forma dello Stato: un presidenzialismo di fatto.
Affermatosi per l’inerzia e l’impotenza dei partiti principali. Personalizzati
e, anzi, “personali”. Mediatizzati. Hanno lasciato i cittadini «orfani, privi
di concezioni generali, di una filosofia » (Per citare Berselli). Il
federalismo e le autonomie locali. «Parole e nient’altro che parole ».
Realizzati senza ridurre il centralismo dello Stato e lo Stato centrale. Il
rapporto fra la politica e gli affari. Eluso. Rimosso. Come se Tangentopoli
avesse risolto tutto. Come se la Prima Repubblica fosse finita insieme a Craxi
e Andreotti. Così le collusioni fra poteri politici, istituzioni settori dello
Stato e organizzazioni illegali. Mafiose e non solo. Hanno attraversato la
nostra storia, ma non si sono concluse nel 1992. Sono proseguite e proseguono
ancora. (…). Per questo ci scopriamo a discutere dei fatti e dei misfatti di
vent’anni fa come fossero avvenuti oggi. Perché i conti con il passato non li
abbiamo mai chiusi davvero. Ma proprio per questo bisogna fare chiarezza. Senza
indulgenza e senza reticenza, su quel che è avvenuto allora e poi. Soprattutto
e anzitutto per quel che riguarda i rapporti fra istituzioni, politica e
organizzazioni illegali. Un vizio inaccettabile per un Paese che voglia davvero
voltare pagina. Nessun sospetto, nessuna zona d’ombra, a questo proposito, è
tollerabile. Nelle trattative fra Stato e mafia. Oggi come ieri. Per non
restare intrappolati nei meandri della nostra cattiva coscienza nazionale.
Impegnati a guardare e a correre. Avanti verso il passato. Vent’anni
fa, vent’anni dopo: cosa cambia nella vita del bel paese?
giovedì 15 novembre 2012
Cosecosì. 32 Professore, ma che me ne faccio di Dante?
(…). per la stragrande
maggioranza dei ragazzi di oggi tutto il patrimonio culturale del nostro paese
non significa più niente. È un universo in bianco e nero, malinconico, pensante
e dunque pesante, polveroso come una parrucca. E non serve che gli adulti lo
lucidino per farlo apparire più vivo: se brilla lo fa come una bara. È così,
c'è poco da fare, l'oceano del passato non arriva più a lambire la spiaggia del
presente. (…). Così ha scritto Marco Lodoli – la Repubblica del 31 di
ottobre 2012 in
“Addio cultura umanista per i ragazzi
non ha senso” -. È la morte della cultura in quanto tale o di una
particolare cultura che mal si adatta ai tempi oscuri che ci sono dati da
vivere? Domanda terribile, risposta difficile da dare. Mi piace giocare
d’incastro per poterne venire a capo in una qualche maniera che sia accettabile.
Recupero una riflessione sul tema del professor Umberto Galimberti – “Professore, ma che me ne faccio di Dante?”
sul settimanale D del 27 di agosto dell’anno 2011-: Racconta la tradizione che,
quando chiesero ad Aristotele: - A cosa serve la filosofia? -, la sua risposta
fu: - A nulla, perché la filosofia non è una serva -. Dal momento che vent'anni
di televisione commerciale hanno fatto perdere ai nostri ragazzi qualsiasi
interesse per la cultura, e dal momento che il denaro è diventato, soprattutto
negli ultimi anni, il generatore simbolico di tutti i valori, è ovvio che, non
capendo più che cosa è bello, che cosa è buono, che cosa è giusto, che cosa è
sacro, i nostri ragazzi capiscano solo che cosa è utile. E da questo punto di
vista la letteratura è proprio inutile. Anche se ogni cosa è utile a
qualcos'altro, e questo qualcos'altro è utile a qualcos'altro ancora, per cui
se non si approda a qualcosa di inutile, tutte le catene di utilità diventano
insignificanti e prive di senso. (…). Individua l’illustre opinionista
una delle cause che hanno portato alla paventata morte della cultura
umanistica: l’esplodere della azione nefasta di un certo tipo di mass-media che
hanno individuato nel purissimo intrattenimento la ragione della propria
esistenza. Senza fini di formazione e di educazione soprattutto tra le
giovanissime generazioni. E Marco Lodoli riprende a scrivere: Ma
per la mia generazione, e quella di mio padre, e quella di mio nonno - e
più indietro non vado - il passato non era un tempo che svaniva
insieme ai foglietti del calendario. Certi morti non erano mai morti. Fossero
gli eroi greci o quelli del Risorgimento o Che Guevara, fosse Mozart o John
Coltrane o Luigi Tenco, i grandi continuavano a vivere nell'immaginazione e
nella riconoscenza dei ragazzi. Una catena d'acciaio o una ghirlanda di fiori
univa il meglio al meglio, la bellezza alla speranza, la forza alla fiducia.
Leggevo Dostoevskij e Tolstoj come se fossero dei fratelli maggiori, non li
collocavo nel regno cupo dei morti, le loro parole erano vive, non sussurrate
da un tempo lontanissimo fino a perdersi nell'incomprensibilità. A
proposito dell’insostituibile funzione del leggere e dello scrivere nello
sviluppo e nella sana crescita emozionale delle nuove generazioni riprendo la
riflessione del professor Galimberti: (…) …la letteratura serve per educare i
nostri sentimenti, che non abbiamo come dote naturale ma come evento culturale.
La natura infatti ci fornisce gli impulsi che hanno come loro espressione non
la parola, ma i gesti. Il bullismo, per esempio, non è un fenomeno di mancata
educazione, ma un vero e proprio arresto psichico di chi non si è evoluto
dall'impulso per pervenire all'emozione. L'emozione è già un evento psichico
che segnala la risonanza emotiva che gli eventi del nostro mondo, e le risposte
che noi diamo a essi, producono in noi. Quando i nostri giovani dicono che al
sabato sera in discoteca si calano una pastiglia di ecstasy per emozionarsi,
segnalano che per passare dall'impulso all'emozione hanno bisogno della
chimica. E così denunciano che la loro psiche è apatica e non registra alcuna
risonanza emotiva a quanto in generale avviene intorno a loro. Quanti delitti o
spaventosi atti di crudeltà avvengono senza movente, per la mancanza di una
risonanza emotiva relativa ai propri gesti che i nostri ragazzi chiamano noia?
Dall'emozione si passa al sentimento, che non è un tratto naturale, ma
culturale. A differenza dell'emozione, il sentimento è un elemento cognitivo.
Kant dice ad esempio che la differenza tra il bene e il male ognuno la sente
naturalmente da sé. Le mamme capiscono i bisogni dei loro neonati, che ancora
non parlano, perché li amano. Gli innamorati capiscono il significato recondito
di ogni gesto dell'altro, perché si amano. Tutti i popoli hanno imparato i
sentimenti attraverso narrazioni mitiche. Se guardiamo l'Olimpo degli antichi
Greci, vediamo che gli dèi altro non sono che la descrizione delle passioni e
dei sentimenti umani: Zeus il potere, Atena l'intelligenza, Afrodite la
sessualità, Ares l'aggressività, Apollo la bellezza, Dioniso la follia. Senza
più dèi, oggi impariamo a conoscere i sentimenti attraverso la letteratura che
ci insegna cos'è l'amore in tutte le sue varianti, e cosa sono il dolore, la
disperazione, la speranza, la noia, lo spleen, la tragedia, la gioia. Una volta
appresi questi sentimenti, siamo in grado di conoscere quello che proviamo, e,
grazie alla descrizione letteraria, anche il corso e l'evoluzione del nostro
stato d'animo. Questo è molto importante, perché è angosciante soffrire senza
sapere di che cosa, così come suicidarsi perché l'angoscia non conosce il
percorso dei sentimenti e il loro approdo, che un tempo i miti descrivevano, e
oggi la letteratura descrive. Chiude così la riflessione del professor
Galimberti. Marco Lodoli ci riporta, nella Sua analisi, alla cruda realtà
dell’oggi: Oggi i ragazzi non si voltano più indietro, gli prende subito la
tristezza perché alle spalle avvertono solo un cimitero degli elefanti. La vita
è adesso, qui e ora, e poi di nuovo qui e ora, e quello che è stato è stato, e
tutte le chiacchiere dei vecchi sono fumo nel vento. Il presente si nutre di se
stesso, digerisce se stesso e va avanti. L'arte, il pensiero, la letteratura
dei secoli andati è lenta, è puro impedimento vitale, ruminamento in epoca di
fast food. Naturalmente anche la politica esce con le ossa rotte dalla fabbrica
delle nuove produzioni mentali e sentimentali: anche la politica è fumo nel
vento. Questa è la stagione del desiderio, dell'onnipotenza tecnologica, dei
corpi che vanno più veloci del pensiero, è la stagione del disprezzo verso ogni
forma di misura, di armonia, di compostezza classica, di ragionamento lento e
articolato. Sillogismi, rime, consonanze, prospettive, equilibri, riflessioni
sulla miseria e la grandezza dell'uomo: via, giù tra le macchine da cucire e il
cinema muto, tra i libri dei poeti e i fiori secchi. La cesura è netta, un
taglio secco, del passato non si recupera quasi nulla, (…): (…) i ragazzi
stanno tutti altrove, davanti a qualche schermo acceso, su qualche aereo che
vola sul mondo, in un futuro che allegramente, superbamente, se ne frega di ciò
che è stato e che non sarà mai più. Non è detto che questo dichiarato
disinteresse per la tradizione sia una pura sciagura. Il mondo cambia di
continuo, a volte lentamente, per passaggi quasi impercettibili, a volte in
modo brusco, in una sola stagione, in un minuto. I nostri ragazzi leggono altri
libri, ascoltano altra musica, amano e odiano in un altro modo, ragionano
seguendo strade invisibili, e noi adulti non dobbiamo solo rimproverarli perché
non conoscono Cechov o Debussy, Pasolini o Bob Dylan. Dobbiamo invece
assolutamente capire dove stanno andando, perché ci salutano senza nemmeno
voltarsi, perché non si fidano più della nostra cultura. Oggi loro sentono che
la vita è altrove e la memoria non basta a reggere l'urto con le onde fragorose
del mondo che sarà, che è già qui: serve energia, e quella non la trovi più nei
cataloghi e nei musei. Analisi cruda e dura del Marco Lodoli insegnante
e scrittore. Però mi piace ritornare alle idee ed alle parole non tanto
complicate che Blake Morrison mette in bocca al protagonista-inventore del Suo
volume “Le confessioni di Gutenberg”
– Longanesi editore (2000), La gaja scienza, pagg. 336, € 15.49 -: Credo
che un libro, quando si legge bene, possa sembrare davvero una brocca di vino,
e diffonda un caldo bagliore in tutto il corpo. In più, al contrario di una
brocca, un libro non finisce mai. Puoi arrivare alla fine eppure lui è ancora
lì e lo sarà sempre, per sempre pieno come le anfore di Cana. Pensare che gli
uomini degli anni futuri potranno trarre alimento da questa nostra piccola
brocca : ecco un’idea che mi conforta, e mi stimola, mentre il cervello ancora
fermenta, a spremere una nuova annata, piena e sincera al palato. Nei miei
bicchieri conoscerete me e tutto ciò che io ho fatto. È il Gutenberg ingegnoso
di Morrison a pensare ed a sperare nell’intramontabilità del libro e della
cultura sopravvissuta con esso. Una speranza che conforta anche me in questi
tempi tanto oscuri.
mercoledì 14 novembre 2012
Cosecosì. 31 Chiedere scusa.
E poi ci sarebbe da “chiedere
scusa”. Per le menzogne dette e sostenute con convinzione e forza nella
conduzione della cosa pubblica. E per le offese arrecate alla metà del popolo
della politica del bel paese, divenuto nemico da abbattere. Ma anche nell’umile
atto del “chiedere scusa” abbisogna una grandezza d’animo che se non la
si possiede l’atto perde di per sé stesso tutto il valore suo. Poiché, come ha
scritto mirabilmente Barbara Spinelli – su la Repubblica del 22 di settembre
dell’anno 2011 – ,“chiedere scusa è nobile se non è sinonimo di discolpa” e poi
se “lo
si fa gratuitamente, in cambio di nulla”. Quale valore può avere il “chiedere
scusa” ultimo dell’uomo di Arcore? Ha tutto il sapore e la sostanza di
uno scambio. Lo ha fatto in concomitanza di un evento editoriale. L’ennesimo.
Uno scambio per l’appunto. Forse l’intento era di ampliare i possibili
acquirenti dell’ultimo scartafaccio prodotto dal vespide televisivo. Quale
possibilità che il messaggio del “chiedere scusa” dell’uomo di Arcore
ha di raggiungere la totalità, o la maggioranza almeno, degli offesi? Nessuna.
Un escamotage commerciale, per l’appunto. Una conferma dell’uomo per quale è.
Ho raccolto, negli anni, molti dei libri del vespide televisivo. Tanti. Troppi.
È avvenuto nelle circostanze liete di feste o anniversari. Ma giammai
acquistati da me quei libri. È che, con grande intento sadico, mi venivano dati
in dono sempre dalle stesse persone convitate a quelle feste o a quegli
anniversari. Intento sadico perché? Per il semplice fatto che non avevo mai
fatto mistero del mio disinteresse (o disistima) per il lavoro editoriale di quell’autore.
Ma puntualmente quei libri me li sono ritrovati tra le mani. Anno dopo anno. Scartafaccio
dopo scartafaccio. Li conservo ancora nella mia libreria. Distruggerli o
mandarli al macero sarebbe come distruggere una parte del mio vivere e del mio
essere un inguaribile “libridinoso”. Disfarmene, dandoli
in dono ad altri, sarebbe esito peggiore ancor di più, poiché mi sentirei colpevole
d’aver contribuito alla diffusione di quei lavori ampliandone la circolazione.
E così rimangono intonsi nella mia libreria. E li lascio morire d’inedia.
Poiché se i libri non circolano è come se non fossero stati mai scritti. È la
condanna che ho inflitto agli scartafacci ricevuti in dono con mio grande disappunto.
“Chiedere
scusa” non è da tutti. Ci vuole grandezza anche in questo atto che
induce all’umiltà. “Chiedere scusa” è il titolo della riflessione di Barbara
Spinelli che di seguito trascrivo in parte.
Chiedere scusa è forse il primo
atto di decenza, che ci si aspetta da chi addolora, offende, tradisce.
Innanzitutto è uscire da se stessi, vedere sul volto dell’altro la ferita che
ho inflitto. Questo estendere lo sguardo oltre l’Io Kant lo chiama pensare
ampio, oltre il circolo che disegno attorno alla mia persona. (…). È stato
necessario un secolo cruento, perché la parola assumesse un peso in politica.
L’ultimo ventennio ha visto innumerevoli mea culpa (…). E della Chiesa, in
primis verso gli ebrei. La più impressionante domanda di scuse fu senza parole:
d’un tratto, il 7 dicembre 1970 davanti al monumento dei caduti del ghetto di
Varsavia, il cancelliere Brandt cadde in ginocchio. Ho sempre pensato che
quest’attonito genuflettersi, quest’ammissione di colpe che non erano sue ma
del suo popolo, sia la forma più pura del chiedere scusa: anche se
personalmente sono innocente, come cittadino d’un popolo non cesserò d’essere
responsabile. Chiedere scusa ha i suoi lati oscuri, anche questo conta saperlo.
(…). Chiedere scusa è nobile se non è sinonimo di discolpa. Se sul male inferto
non cade una lastra come su una tomba. Se non viene seppellito (da chi si
scusa)il dolore arrecato. È già moralmente storpio dire: «Mi scuso». (…). Chiedere
scusa si può, è un inizio che mette in cammino verso l’Altro. Ma a condizione
di non esigere perdono. Lo si fa gratuitamente, in cambio di nulla. Non solo:
lo si fa distinguendo tra vivi e morti. Come chiedere scusa, ai sommersi e
sepolti? Solo il morto potrebbe rispondere all’appello: non può. Puoi aiutare i
suoi familiari ma il perdono, davanti a una bara, te lo dai da solo. E se
vogliamo andare ancora più nel profondo: nemmeno chi riceve la domanda di scuse
ha speciali diritti, quando è discendente della vittima. Non diventa più
scusabile di altri, se a sua volta fa del male. I suoi morti tacciono anche per
lui. La scusa ha legami forti col pentimento, l’espiazione, la sete di
redenzione. Anche qui intravediamo luci ma anche antri bui. Ho molto riflettuto
sui mea culpa di Giovanni Paolo II, e ho trovato che cera in essi qualcosa di
grandioso ma anche di ambiguo. Freud ha parole molto giuste sul pentimento e l’etica,
quando scrive su Dostoevskij e il parricidio: «L’aspetto più aggredibile in
Dostoevskij è quello etico (…) Morale è chi già reagisce alla tentazione
avvertita interiormente, e ad essa non cede. Colui che prima si macchia di una
colpa e poi, una volta in preda al rimorso, pone a se stesso elevati obiettivi
morali, può essere accusato di fare i propri comodi. Manca in lui l’elemento
essenziale della moralità, la rinuncia, essendo la condotta di vita morale un
interesse pratico dell’umanità». Usiamo dire: «Il diavolo si nasconde nel
dettaglio». Anche Dio, a mio parere. La richiesta di scusa è un po’ come il Dettaglio:
in essa si cela Dio come pure il diavolo. Puoi lenire o straziare ancor più,
sdebitandoti e andandotene lontano. Bisogna sapere di chi parli, a chi parli. E
ci sono colpe di cui resterai responsabile sempre: riprendere le vecchie
attività non potrai. Nessun trasformismo è trasformazione. Se la scusa diventa
scambio otterrai qualcosa, magari, ma immaginerai d’aver pagato. Il taglio è
voragine che non si chiude. Il tempo forse aiuterà. Ma Chronos non è etico,
neanche nel mito, e già chiamarlo galantuomo è temerario. Etica è la giustizia,
che mostra il volto ferito e oltrepassa l’Io. Quante volte pensiamo, quando uno
muore: «Vorrei chiedergli scusa». È troppo tardi, ma il pensare ampio già
comincia.
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