Stabilisce la Costituzione della Repubblica Italiana all’articolo 41 - Parte I, dei Diritti e doveri dei cittadini, Titolo III dei Rapporti economici -: L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali. Fu saggia preveggenza dei Costituenti se la formulazione di quell’articolo 41 mantenne la sua stesura quale ancor oggi è possibile leggere? E se non saggia preveggenza, fu solamente un colpo di fortuna che sia passata quella stesura? Sarebbe interessante conoscere come sia andato avanti lo scontro o l’incontro tra le varie anime costituenti. Nel turbinio della vita sociale degli aggregati umani, al pari del turbinio della vita dei singoli, lo scontro sarà stato asperrimo, poiché opposti, se non contrastanti, saranno stati, e lo sono tuttora, gli interessi in campo. Ma quella formulazione dell’articolo 41 ha risentito del clima postbellico che il paese si preparava ad affrontare ma soprattutto la sua formulazione respirava di quel clima di vasta mobilitazione e concordia ritrovata che la lotta partigiana aveva entusiasticamente suscitato nel Paese. Superata la disfatta bellica, che fu anche materiale, etica e morale, realizzato quello che è passato per il miracolo economico del bel paese, allentato il clima di mobilitazione sociale attorno ad obiettivi di riscatto, sono ridiscesi in campo gli egoismi di sempre, gli egoismi di classe che, sopiti un tempo, hanno ritrovato vigore nel corso dei decenni del secolo ventesimo per radicarsi in quello che oggigiorno viene universalmente definito capitalismo finanziario, che di quell’articolo cerca di liberarsene ove con esso si riconfermano come irrinunciabili e si richiamano quei principi della sicurezza, della libertà, della dignità umana, che non si confanno al capitalismo più selvaggio attualmente conosciuto. Scrive Nadia Urbinati nella Sua analisi che ha per titolo “Il declino dei partiti e il potere economico” pubblicata di recente sul quotidiano la Repubblica che di seguito trascrivo in parte: La combinazione tra democrazia e capitalismo è interrotta, il compromesso sospeso e le classi sono tornate a prendere nelle loro mani le decisioni, in particolare quella che ha il potere economico. Ecco materializzarsi la fine del compromesso tra capitalismo e democrazia; ecco il virulento attacco a due degli istituti che, nel bel paese, avevano dato spessore e sostanza a quel compromesso, l’articolo 41 della Costituzione e l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Quali spazi, per azioni ancor più devastanti, cercheranno di conquistare le classi egemoni una volta che l’iniziativa economica, tutelata nella sua libertà d’impresa dalla Costituzione della Repubblica nata dalla Resistenza, si sarà liberata di quell’aspetto irrinunciabile, sancito proprio nell’articolo 41, affinché essa sia indirizzata e coordinata a fini sociali, ché soltanto il controllo politicamente determinato ed universalmente riconosciuto può esercitare in nome ed in forza della legge uguale per tutti?
La combinazione di capitalismo e democrazia costituisce un compromesso tra proprietà dei mezzi privati di produzione e suffragio universale, per cui chi possiede i primi accetta istituzioni politiche nelle quali le decisioni sono l´aggregato di voti che hanno uguale peso. (…). L´esito del compromesso tra democrazia e capitalismo fu che i poveri diventarono davvero i rappresentanti dell´interesse generale della società – la loro emancipazione bloccò le politiche restauratrici della classe che possedeva il potere economico. L´allargamento dei consumi privati aveva messo in moto il più importante investimento, quello sulla cittadinanza. La politica del doppio binario “piena occupazione e eguaglianza politica” fu la costituzione materiale delle costituzioni democratiche dalla fine della Seconda guerra mondiale. L´esito fu che l´allocazione delle risorse economiche – dal lavoro ai beni sociali e primari ai servizi – fu dominata dalle relazioni delle forze politiche. I partiti politici si incaricarono di gestire la politica, di essere rappresentanti delle forze sociali, le quali rinunciavano a fare da sole. Quel tempo è finito. La combinazione tra democrazia e capitalismo è interrotta, il compromesso sospeso e le classi sono tornate a prendere nelle loro mani le decisioni, in particolare quella che ha il potere economico. Il declino dei partiti non ha solo fattori politici alla sua origine. La fase nella quale lo Stato si curava dell´emancipazione delle classi oppresse è chiusa. Ora è l´altra classe a gestire le relazioni pubbliche. Non c´è bisogno di scomodare Marx per registrare questi mutamenti. La diagnosi è alla portata del pubblico. L´ideologia keynesiana poteva funzionare fino a quando l´accumulazione del capitale andava negli investimenti e nell´allargamento del consumo. Negli Anni 80 una nuova filosofia ha cominciato a prendere piede: politica di diminuzione delle tasse per consentire una nuova redistribuzione ma questa volta a favore dei profitti, con la giustificazione per gli elettori che ciò serviva a stimolare gli investimenti. Ma la riduzione delle tasse non ha liberato risorse per gli investimenti produttivi ma per quelli finanziari. Il tipo degli investimenti è quindi cambiato con il capitalismo della rendita finanziaria. Quale compromesso la democrazia potrà siglare con questo capitalismo? A partire dagli Anni 80 l´accumulazione si è liberata dai lacci imposti dalla democrazia; l´accumulazione si è liberata dai vincoli dell´investimento imposti dalla filosofia della piena occupazione. La nuova destra ha preso corpo, quella che ha promosso piani di detassazione dei profitti, di abolizione dei controlli sull´impatto ambientale e sulle condizioni di lavoro (l´aumento degli incidenti sul lavoro non è accidentale), l´indebolimento dei sindacati e il loro riorientamento dalla contrattazione nazionale a quella aziendale. Questa fase, che è quella sulle cui conseguenze l´Europa si sta dibattendo in questi mesi, impersona a tutto tondo una nuova società, una mutazione della democrazia. Verso quale direzione? Nel passato keynesiano, la rottura del compromesso per imporre la fine di politiche sociali si era servita di strategie anche violente: il colpo di Stato in Cile nel 1973 impose una svolta liberista radicale e immediata. È difficile pensare a qualcosa di simile oggi, nel nostro continente, benché la storia insegna a mai dire mai. Un altro cambiamento, forse meno indolore benché non assolutamente senza sofferenza, è quello che si sta profilando a chiare lettere in questi anni: la depoliticizzazione delle relazioni economiche. La democrazia che aveva siglato il compromesso col capitalismo aveva rivendicato la natura politica di tutte le relazioni sociali, e i diritti civili bastavano a limitare il potere decisionale delle maggioranze. In questo modo la politica democratica entrava in tutte le pieghe della società ogni qualvolta si trattava di difendere l´eguale libertà dei cittadini. Con la fine di quel compromesso, la politica arretra progressivamente, e soprattutto fa giganti passi indietro nel mondo del lavoro e delle relazioni industriali. Il lavoro deve tornare a essere un bene solo economico, fuori dai lacci del diritto e della politica. La battaglia sull´articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori ha questo significato. Si ripete da più parti che questo articolo ha comunque poco impatto operando su aziende medio-grandi mentre l´Italia ha in maggioranza aziende medio-piccole o familiari. Allora perché? Perché, si dice, lo vogliono i mercati, gli investitori. È una decisione simbolica, un segnale. E perché i mercati hanno bisogno di questo tipo di segnale? La risposta si ricava da quanto detto fin qui: la regia della nuova democrazia non deve più essere la legge, il legislatore, lo Stato, ma il mercato. Perché una parte importante della sfera sociale deve tornare a essere privata, e quindi cacciare l´interferenza della politica. Il limite della “giusta causa” che l´articolo 18 impone, è un limite che segnala la priorità del pubblico sul privato: il datore di lavoro deve rendere conto della ragione della sua decisione di licenziare. Quell´articolo rispecchia quindi la filosofia del compromesso di democrazia e capitalismo, perché stabilisce la libertà dal dominio per tutti, dal non essere soggetti alla decisione altrui, senz´altra ragione che la volontà arbitraria di chi decide. Questo articolo è la conseguenza naturale dell´articolo 41 della Costituzione poiché impone una responsabilità di cittadinanza alla sfera degli interessi economici. Valutando questa fase di restaurazione delle relazioni politiche tra le classi dovremmo farci questa domanda: che tipo di società sarà una società nella quale l´accumulazione è libera da ogni vincolo politico, da ogni limite di distribuzione, da ogni considerazione di impiego che non sia il profitto, da ogni responsabilità verso l´ambiente, la salute di chi lavora e di chi consuma? Siamo certi di voler vivere in una società di questo tipo?
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