Ed egli rispose: l’amico è il vostro bisogno corrisposto.
È il campo che seminate con amore e mietete rendendo grazie.
È la vostra mensa e il vostro focolare. Perché a lui giungete affamati e in cerca di pace.
Quando l’amico vi dice quel che pensa, non abbiate timore di dire il no, o il sì, che sono nella vostra mente.
E quand’è silenzioso, il vostro cuore non cessi di ascoltare il suo cuore; giacché nell’amicizia, senza parlare, tutti i pensieri e desideri e aspettative nascono e vengono condivisi con gioia non acclamata.
Quando lasciate l’amico, non rattristatevi; perché ciò che più amate in lui può sembrarvi più chiaro durante la sua assenza, come la montagna allo scalatore appare più nitida dal piano.
E fate che nell’amicizia non vi sia altro fine, se non l’approfondimento dello spirito. (…).
Così ha scritto Kahlil Gibran, con il Suo straordinario lirismo, nel volume “Il Profeta”. E dal Suo scrivere vibra una carica d’umanità che ha del prodigioso. Un giovane, affermato professionista, giorni addietro, mi diceva di una vicenda tipica di questo nostro tempo di capitalismo rampante. Di come, in un controversia di lavoro di una terza persona da lui conosciuta con altri soggetti, fossero saltati tutti quei simboli e quei precetti che hanno da tempo immemore contrassegnato il sentimento dell’amicizia. Alla mia ingenua osservazione che di fronte all’amicizia si sarebbero dovute accantonare le asprezze insorte in quella controversia il giovane non ha saputo opporre altro che uno stentoreo “è così quando di mezzo c’è il denaro”. Non ho saputo opporre alla sua nessun’altra considerazione. Mi soccorre, in questa occasione, una recentissima lettura, la riflessione di Giacomo Papi “I portinai” pubblicata sull’ultimo numero del settimanale “D” del quotidiano la Repubblica, che di seguito trascrivo in parte. Scrive Giacomo Papi:
Un vicino di casa mi ha chiesto l'amicizia su Facebook. E io ho accettato. Per vent'anni l'ho guardato dalla finestra senza mai sentire il bisogno di conoscerlo. Esce di casa alle 8 ogni mattina e dopo mezz'ora rientra. Fa un lavoro tranquillo, a strati, tipo il traduttore. D'estate ascolta musica sinfonica in filodiffusione e gli piacciono le piante: la sua porzione di ringhiera assomiglia al giardino dell'Eden. Non ho mai visto nessuno andare a trovarlo. (…). Da una settimana osservo il mio vicino di casa su Facebook. Ora so che si chiama Giovanni. Ha postato un documentario di Werner Herzog del '74 intitolato La grande estasi dell'intagliatore Steiner. Racconta di un falegname svizzero, campione olimpionico di volo con gli sci. È un capolavoro. Ogni tanto mi alzo e mi affaccio per accertarmi che la vita online di Giovanni non lo abbia cancellato dal mondo. Ieri, l'ho incrociato per strada, e per la prima volta gli ho detto buongiorno. Ha risposto. Possiede una voce.
Ecco, anche il giovane, affermato professionista, lo so per certo, è un frequentatore di Facebook. Avrà oramai raggiunto un ragguardevole numero di contatti che lui definisce amici. Avrà chiesto l’amicizia di sconosciuti che navigano in rete. Così, per fare. Cosa farebbe per uno di quegli amici virtuali? Avrà mai l’occasione di scambiare con essi un buongiorno? D’ascoltarne la voce? Di dialogare con essi guardandoli nel profondo degli occhi? Com’è possibile definire amico il contatto freddo che la rete offre? Mi riesce difficile capire. Ma l’amicizia è oggigiorno miseramente ridotta a quel rapporto non diretto, mediato esclusivamente dallo strumento tecnologico, che consente, al riparo di esso, di dirsi amici dell’universo mondo senza doverne pagare il prezzo umano talvolta alto fatto di richieste che il più delle volte hanno, come presupposto proprio dell’amicizia, la rinuncia a qualcosa in nome ed in forza di quel sentimento unico, spesso escludente e desideroso di un riconoscimento forte tra i tanti? Ben misera cosa è l’amicizia al tempo di internet.
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