Siamo in trappola. Sappiamo che dobbiamo aumentare la produttività per tornare a crescere, ma aumentare la produttività vuol dire produrre di più con un minor numero di persone. E sappiamo anche che liberalizzare i mercati aumenta le potenzialità dell’economia e lo sviluppo globale, ma più si aprono i mercati più aumentano le disuguaglianze. E noi giustamente vogliamo insieme produttività e occupazione, mercati liberi e società inclusive. Il problema è che non abbiamo la ricetta. La disoccupazione è ai suoi massimi storici, con oltre 205 milioni di persone senza lavoro nel mondo, 75 milioni dei quali sono giovani. E anche le disuguaglianze hanno raggiunto un livello record, con il 10 per cento più ricco che ha redditi nove volte superiori al 10 per cento più povero. Di questo dramma i paesi industrializzati sono il cuore: il 55 per cento dell’aumento della disoccupazione globale tra il 2007 e il 2010 è avvenuto nella parte "ricca" del pianeta. Mentre per quanto riguarda la disuguaglianza, quel rapporto medio di 9 a 1 tra i redditi dei più ricchi e quelli dei più poveri sale a 10 a 1 per l’Italia fino a raggiungere 14 a 1 negli Stati Uniti. C’è di mezzo la crisi, ovviamente, ma secondo molti studiosi la crisi ha solo fatto esplodere una situazione che era già nelle cose. La sostanza è tanto semplice quanto inquietante: i paesi industrializzati non riescono a creare tanto lavoro quanto sarebbe necessario per dare a tutti i cittadini una prospettiva di vita attiva e dignitosa. La sfida centrale oggi è proprio questa: creare posti di lavoro. Da un punto di vista generale il primo motore è la domanda, se le famiglie non hanno soldi da spendere non potranno acquistare beni e servizi, e le imprese non investiranno né assumeranno. Quindi la prima cosa da fare è rimettere in moto la domanda, operazione già in sé difficilissima in tempi di austerità. Ma purtroppo, anche riuscendoci, la domanda non basterebbe. Secondo gli ultimi studi dell’Ocse e dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil), anche una crescita più sostenuta non creerebbe i posti di lavoro necessari. Usando le parole dell’ex segretario al Tesoro americano Larry Summers: «E’ più facile creare ricchezza che creare lavoro». La ragione è storica, la globalizzazione fa nascere lavoro nei paesi emergenti ma, almeno in parte, contribuisce a cancellarli nei paesi industrializzati. La tecnologia fa il resto, perché consente alle macchine di sostituire il lavoro umano in molti settori. Per dirla ancora con le parole di Summers, «siamo diventati così bravi a produrre una serie di cose, che riusciamo a produrne tantissime con pochissime persone». Creare lavoro però è un imperativo, e da qualche parte bisogna cominciare. (…). L’Italia, (…) è un caso a sé: nell’educazione abbiamo perso 65 mila posti, nella sanità ne abbiamo solo 8 mila in più, nelle professioni il dato è addirittura negativo per 27 mila unità. Dove invece brilliamo, con ben 125 mila posti in più tra il 2008 e il 2010, sono i posti di coloro i cui datori di lavoro sono le famiglie: più 125 mila. Sono badanti, baby sitter e colf. Conseguenza dell’invecchiamento della popolazione, certamente, ma forse anche l’anticipazione di un trend che si allargherà anche ad altri paesi, se un economista come Christopher Pissarides, premio Nobel nel 2010 proprio per i suoi studi sull’economia del lavoro, sostiene che dalle sue ricerche recenti emerge che la domanda di lavoro riguarda ormai sempre più "unskilled workers", lavoratori non specializzati, per lo più per servizi alle persone. L’interpretazione di questi dati non è ovvia. La prima riflessione è che se l’attività manifatturiera non crea lavoro, anzi ne perde, ciò non vuol dire che non si debba comunque puntare su di essa, per avere merci da esportare e quindi equilibrare la bilancia commerciale, ma anche perché se c’è l’industria si sviluppano anche i servizi a valore aggiunto e le professioni, mentre se l’industria non c’è si sviluppano soltanto quelli "poveri" di redditi e di competenze, i servizi alle persone appunto. La seconda riguarda la sanità e l’educazione. Secondo Summers saranno i due settori che creeranno il maggior numero di posti di lavoro qualificati nei prossimi dieci anni. L’Italia, alle prese con i tagli di bilancio, è indietro su questa strada, ma forse è giunto il momento di cambiare ottica. Smetterla di considerare sanità ed educazione come costi e considerarli invece settori economici che aumentano la ricchezza della società, e che possono essere gestiti con efficienza indipendentemente dal fatto che per un patto sociale i costi sono sostenuti prevalentemente dalla collettività nel suo insieme. La terza riflessione riguarda i servizi a basso valore aggiunto. Secondo Pissarides cresceranno quelli alla persona e anche le attività nei settori del tempo libero, dalle caffetterie alle palestre e attività contigue. «Qui il problema dice Pissarides è rendere questi lavori più dignitosi e rispettabili». (…). Lavoro dignitoso significa un lavoro produttivo, nel quale vengano rispettati i diritti, che produce un reddito adeguato e che comporta meccanismi adeguati di protezione sociale». Questa categoria di nuovi lavori che promette di essere tra la più dinamiche non sempre risponde a queste caratteristiche. «Andare a lavorare in una fabbrica è una prospettiva rassicurante e viene percepita come dignitosa dice Pissarides andare a lavorare in una caffetteria o occuparsi degli anziani, anche a parità di reddito, il che non è quasi mai, non gode della stessa percezione. Perché non c’è una tradizione familiare in questo senso, non c’è il sindacato e non ci sono tutele. Poiché però molto nuovo lavoro verrà da lì, quello che si deve fare allora è renderlo dignitoso, nella sostanza con adeguate tutele, e nella percezione con una nuova cultura della contemporaneità». Che sia in fabbrica, in famiglia, nella cura della salute o in una caffetteria, la creazione di lavoro in numeri adeguati richiede oggi uno sforzo titanico. (…). Avete appena finito di leggere un estratto da “Il lavoro del futuro sarà poco e povero” di Marco Panara, pubblicato sull’ultimo numero del settimanale Affari&Finanza. Provo a scandalizzare gli improvvidi, sparuti visitatori di questo blog affermando che la “crisi è bella”, prendendo a prestito, per far ciò, ovvero per scandalizzare, e parafrasando, l’espressione tanto vituperata allora dell’immaturamente scomparso Tommaso Padoa Schioppa. Ai pochi attenti lettori di questo blog non sarà sfuggito come la crisi, dolorosa assai per milioni di esseri umani, sia in fondo vissuta, dal punto di vista di questo blog, come un’occasione imperdibile, straordinaria, da cogliere al volo, in una prospettiva di riconsiderazione, di ripensamento delle dinamiche dello sviluppo e della crescita delle società occidentali e di una revisione dei meccanismi perversi dei consumi compulsivi che mal si coniugano, oggigiorno, e sempre più nel futuro delle società umane, con quell’equilibrio energetico ed ambientale globale al quale tutti, indistintamente, dovremmo essere sensibili. Orbene, la crisi è da salutare, almeno nel bel paese, come la salutare - mi si lasci passare e mi si perdoni il pasticcio dei termini - occasione che ci ha consentito, finalmente, di liberarci di un personale politico inefficiente, senza progetti e senza senso alcuno del bene della comunità. Mi spiego. Ci si è liberati di un primo ministro per il quale il vanto era di non aver letto un libro da almeno una ventina di anni, lui che avrebbe potuto disporre, non per far solo moneta sonante, della più grande industria editoriale del bel paese. Ci si è liberati di un sedicente ministro della economia e della allegra finanza un giorno sostenitore di confini daziari feroci ed insormontabili verso il pericolo giallo montante, un altro giorno sfegatato liberal delle arti e dei commerci, il giorno successivo colbertiano convinto, e poi ancora ferocemente proudhoniano, nell’ultima versione almeno, per il quale la cultura non consentirebbe di sfamare le genti. Ci si è liberati di personale che ha guardato al patrimonio artistico e culturale del bel paese, al suo sistema di stato sociale, quali strumenti ed occasioni per arricchimenti illeciti e posti per consulenze profumatissime in soldoni e quant’altro potesse arrecare vantaggi agli adepti serventi di turno. Questo è stato il bel paese nel quindicennio passato. E ciò che la politica politicante del bel paese non è stata all’altezza di fare, ovvero spazzare via quel certo tipo di personale politico, ci ha pensato la crisi a farlo, per la qualcosa mi viene quasi da inneggiare ad essa, trattenuto come sono dal doloroso pensiero di come essa stia pesando terribilmente sugli strati sociali meno abbienti. Ma questi aspetti della crisi vanno accolti come benedizioni insperate piovute dall’alto, accanto alle maledizioni ed agli inderogabili sacrifici per i quali tutti assieme siamo chiamati a dare un contributo. E l’attenta analisi di Marco Panara ce ne dà contezza piena. Nel rivolgimento dell’economia globale molte delle società dell’occidente dovranno ripiegare verso lavori e mansioni che un tempo sarebbero stati appannaggio di uomini e donne di diversa origine etnica. Come al tempo della prima industrializzazione del vecchio continente. Quel che bisognerebbe evitare è che si ripetesse l’ignominiosa storia della tratta delle braccia di lavoro, a qualsiasi etnia esse appartengano.
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