Da “L’Occidente
in guerra con la natura” di Emilio Molinari, su “il Fatto Quotidiano” dell’11
di dicembre 2015: L’Isis ha dichiarato guerra all’Occidente, rispondiamo senza pietà al
canto della Marsigliese. Non ho tentennamenti nella condanna al terrorismo e al
cordoglio delle vittime, ma l’unanime grido: sono in gioco la nostra civiltà, i
nostri valori, il nostro stile di vita, la nostra felicità e la nostra gioia…mi
inquieta. Perché? Perché sono convinto che siamo nel bel mezzo di una “Terza
Guerra Mondiale a pezzi” di cui il terrorismo in nome di Dio è solo uno dei
tanti pezzi. Che l’orrore parigino è solo una delle tante “rotture” con le
quali il pianeta ci segnala che non ci regge più…e non regge proprio il nostro
stile di vita, la nostra felicità, la nostra gioia e… l’arroganza della nostra
cultura. Perché siamo in guerra con la natura, la quale proprio a Parigi, alla
Cop 21 sul clima, ci presenta un conto salatissimo, tragico e ultimativo. E non
sarà chiudendo la bocca agli ambientalisti in nome della sicurezza che
risolveremo i problemi. Siamo in guerra con gli emigranti che assediano le
nostre frontiere. Siamo in guerra con i beni comuni: l’acqua, la terra, l’aria,
il fuoco. Le guerre portano il segno dell’accaparramento dei combustibili
fossili che scarseggiano. Sono infinite e hanno provocato un milione di morti
nel solo Iraq: dolore, torture e indicibili umiliazioni, inflitte a intere
popolazioni dall’Occidente, senza “dissociazione” alcuna da parte nostra. Ci
scusiamo dopo, per gli errori commessi, mai per gli orrori e il dolore
generati. I mutamenti climatici provocano morte e dolore incalcolabili. Quarantasette
bambini ogni giorno muoiono affogati in Bangladesh, solo perché il paese va
sott’acqua. E non per colpa dei poveri della terra, ma perché ogni ora il
nostro mondo spara nell’atmosfera centinaia di milioni di tonnellate di CO2
all’anno. Siamo in guerra per l’acqua e con l’acqua e pensiamo di
privatizzarla. I nostri governi e le nostre multinazionali negano l’accesso
all’acqua potabile a un miliardo di persone e 5.000 bambini muoiono ogni giorno
per questa ragione. Siamo, (…), in guerra con i contadini per accaparrare le
terre e cacciarne uomini e donne che ci vivono da secoli.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".
mercoledì 30 dicembre 2015
sabato 26 dicembre 2015
Paginatre. 15 “Il Natale non è dei poveri del mondo”.
Da “Aylan
commuove solo d’estate” di Silvia Truzzi, su “il Fatto Quotidiano” del 10
di dicembre 2015: (…). Era settembre. E allora eravamo tutti ancora molto attenti a cosa
succede nel Mediterraneo. Perché eravamo appena tornati dalla vacanze e al mare
ci andiamo a fare il bagno. Ci avete fatto caso? D’estate l’emergenza migranti
è sulle prime pagine, d’inverno miracolosamente sparisce. Certo, è vero.
D’inverno ci sono meno barconi in arrivo. Ma i bambini muoiono lo stesso. Ieri,
solo per fare un esempio, un altro barcone carico di migranti è affondato nelle
acque dell’isola greca di Farmakonissi. Sono morte almeno 11 persone, e di
queste, 5 erano bambini. Farmakonissi? Dov’è? Boh. Chi lo sa. Non si sa. E
chissenefrega. E poi fa freddo, tra un po’ è Natale, si aspettano renne e neve,
si guarda più alla montagna, che al mare. Eppure ieri la Fondazione Migrantes
ha diffuso dati agghiaccianti. I morti sono più che raddoppiati nel 2015
rispetto al 2014, passando da 1.600 a oltre 3.200. E di queste morti
dimenticate, ci sono oltre 700 bambini. Solo dall’inizio dell’anno. Sì, avete
letto bene. Significa più di due bambini al giorno. Due piccoli Aylan al
giorno, che però non hanno trovato spazio sui giornali e tantomeno nei cuori di
chi allora si era strappato i capelli per il povero bambino con al T-Shirt
rossa. Si dirà, che era stata proprio la potenza di quell’immagine a creare il
trambusto di allora. Ma non è vero. Ce ne sono state tante altre di foto di
bambini morti in mare. Neonati addirittura. Bambini recuperati dai barconi,
inutilmente avvolti nelle coperte termiche, perché erano già morti. Ma la nostra
commozione, come quella del pubblico e dei lettori, è destinata a durare il
tempo di uno scatto fotografico. E la legge del giornalismo, bellezza. E tu non
puoi farci niente, direbbe chi sa di queste cose. È vero. Il giornalismo è
fatto così. È stretto tra il cinismo e la retorica. Ricordo come imparai da un
vecchio capocronista come si decide il rilievo da dare a un morto. Nero,
marocchino o cinese, una breve (se ci sta). Vecchio, taglio basso, a meno che
non sia famoso. Giovane, apertura. E se è donna, cercare di mettere una foto
dove si vedono le tette. Non so se questo cinismo sia peggiore della retorica.
Probabilmente no. A settembre, ai tempi di Aylan, su Internet divenne virale
l’hashtag #KiyiyaVuranInsanlik (l’umanità che si è schiantata contro gli
scogli). A quanto pare si è schiantata e lì è rimasta.
giovedì 24 dicembre 2015
Paginatre. 14 “L’insostenibile stanchezza della democrazia”.
Da “L’insostenibile
stanchezza della democrazia” di Gustavo Zagrebelsky, sul quotidiano la
Repubblica del 21 di ottobre 2015: (…). I sostantivi e gli aggettivi modali in
“...abilità”, “...ibilità”, “...abile”, “... ibile”, ecc. esprimono tutti un
significato passivo: amabilità è il dono di saper farsi amare; invivibile è la
condizione che non può essere vissuta; incorreggibile è colui che non si lascia
correggere. La stessa cosa dovrebbe essere per “governabilità” e
“ingovernabilità”: concetti aventi a che fare con l’attitudine a “essere
governati”. In questo senso, tale attitudine può essere propria soltanto dei
“governandi”, non dei “governanti”. Sono i governandi, coloro che possono
essere più o meno “governabili” o “ingovernabili”, a seconda che siano più o
meno docili o indocili nei confronti di chi li governa. Oppure, si potrebbe
usare propriamente la parola per indicare l’insieme di coloro che hanno da
essere governati e delle loro istituzioni: governabilità d’insieme. Della
parola, tuttavia, si abusa certamente quando la si usa per indicare
unilateralmente il bisogno di efficaci strumenti di governo (nel senso del
memorandum della banca d’affari J.P. Morgan): è come se il governo stesso, cui
spetta governare, potesse dirsi, esso stesso, più o meno governabile, più o
meno docile. Tutte le volte che si usano male le parole, si fa confusione e ci
si inganna vicendevolmente. Qualche volta, inconsapevolmente, si tradisce un
retro-pensiero che si vorrebbe rimanesse nascosto e che, invece, fa capolino
tra le parole. Se l’attitudine a essere governati si riferisce alla società,
ben si comprende a chi spetti il compito di governarla; ma, se la si
attribuisce alla macchina di governo, allora la domanda che sorge, non
maliziosa ma realistica, è: governabile, sì, ma da chi? Docile, sì, ma nei confronti
di chi? Nei regimi democratici, la governabilità, nel senso improprio detto
sopra, cioè nel senso della forza che legittima l’azione del governo, deve
dipendere dalla libera partecipazione politica e dal coinvolgimento attivo dei
cittadini, dal confronto e dalla discussione su cui si forma l’ humus delle
decisioni politiche, dal consenso che si manifesta innanzitutto con il voto e
dalla fiducia che viene riposta in coloro che se ne faranno interpreti
operativi. Quale che sia la definizione di democrazia, immancabile è, dunque,
il voto che esprime la volontà di autonome scelte. Se manca il voto dei
cittadini, ogni definizione è ingannevole. Il voto non è sufficiente, ma è
necessario. Può sembrare una banalità, ma non lo è.
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