"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 3 gennaio 2012

Doveravatetutti. 2 Medicare le parole, due.


“(…). Oggi nella Italia berlusconiana (anche se al momento defenestrato, siamo certi di esserci liberati del berlusconismo come formazione mentale? N.d.r.) il furto attraverso la politica è scoperto, normale. Appena si può si ruba e viene il sospetto che sia avvenuta una mutazione antropologica, che la maggioranza al potere sia convinta che l'uso della politica per rubare sia non solo normale ma lodevole e che le istituzioni abbiano il dovere di proteggerlo. L'Italia un tempo paese dei misteri, delle società segrete, delle congiure massoniche sotto l'egida del cavaliere di Arcore sta diventando una democrazia autoritaria dichiarata e compatta a difesa dei suoi vizi e dei suoi furti. Perché opporsi al bavaglio che viene imposto all'informazione? Non aveva ragione Mussolini ad abolire la cronaca nera e a coprire gli scandali del regime? Esiste un modo più efficace di lavare i panni sporchi in gran segreto senza che le gazzette li mettano in piazza? (…). La conferma della mutazione antropologica viene dal fatto che i politici presi con la mano nella marmellata mostrano più stupore che vergogna. La loro corruzione era normalissima, candida, da buon padre ladro di famiglia. A uno era bastato pagare una garconnière al centro di Roma, un altro aveva lasciato mano libera agli impresari edili dopo il terremoto in cambio di una revisione in casa sua dei servizi igienici, diciamo del funzionamento del cesso e del bagno. Ad altri ancora la possibilità di avere a spese dello Stato qualche mignotta, insomma la grande crisi della politica italiana, il grande rischio di una democrazia autoritaria, di una dittatura mascherata, morbida starebbe nella banalità del male, nei piccoli vizi nelle piccole tentazioni della cosiddetta classe dirigente. Un'Italia senza misteri con un capo del governo schietto, schiettissimo. Che vuole? Che pretende? Il minimo di un uomo del fare più che del pensare: di non avere controlli, di non avere intralci e se gli viene in testa di allevare un cavallo nessuno si permetta di obbligarlo a tirar su una mucca. Che cosa ha scoperto il Cavaliere? Quello che avevano scoperto prima di lui tutti gli uomini autoritari del fare, che i controlli sono fastidiosi e a volte insopportabili. In una parola: che la democrazia è più complicata e faticosa della dittatura.”

C’è un gran parlare, in questi giorni, dell’ultimo vecchio che ci ha lasciati. C’è il solito becero tentativo di metterne in mostra le pecche, di tirare fuori dall’armadio della Sua vita i cosiddetti scheletri, insomma di ridurne lo spessore intellettuale e morale che il vecchio si era conquistato sul campo. Come se fosse sempre possibile sbozzare una vita con l’accetta e non con il più fine bulino. Ma anche con il più fine dei bulini l’impresa è sempre ardua, ché di una vita è sempre difficile, se non impossibile, separarne le singole parti tanto esse ne sono connesse. Ché il vivere è periglioso assai. Ché il vivere è una sempre lenta, imprevedibile navigazione, tra marosi non sempre ospitali per la qual cosa ci si può ritrovare sbattuti con forza su spiagge selvagge o contro scogliere puntute e pericolosissime. Tale è stata, senza l’ombra di un dubbio, la vita del grande vecchio Giorgio Bocca. Una lunga e perigliosa navigazione la Sua, con scarti improvvisi, con repentine inversioni di rotta poiché, per dirla con le parole di James Russell Lowell, solo i morti e gli stupidi non cambiano mai opinione. Ed anche il grande vecchio, che ci ha lasciati da poco, ha cambiato opinione com’era nel suo diritto. Oggi mi va di annoverarlo, per via delle cose che non muoiono e che ci ha lasciato per sempre, mi va di annoverarlo ancora come presente tra quelli che continuano a chiedersi ed a chiedere doveravatetutti quando lo scempio del bel paese prendeva il suo avvio nell’indifferenza dei tanti, dei tantissimi. E mi va di ricordarlo ripescando, tra i ritagli salvati e gelosamente conservati, quel Suo pezzo prima trascritto in parte del 12 di giugno dell’anno 2010, pezzo pubblicato sul quotidiano la Repubblica col titolo Il cavaliere impunito e la regola del silenzio. Doveravatetutti  a quella data? In esso si trova conferma della mutazione antropologica avvenuta nel bel paese e che ha in prima istanza ed in larga misura investito la lingua e le parole, distorcendone la struttura ed i significati più intrinseci ad esse connessi. Riprendo, per l’occasione, da La neolingua del Cavaliere di Gustavo Zagrebelsky, pubblicato sul quotidiano la Repubblica, due parole, “amore” ed “assolutamente”, da medicare prontamente dopo il trattamento pervasivo e degenerativo da esse subite a seguito di una certa “discesa in campo”. Risaniamo le parole nostre.

«Amore». Nel discorso con il quale fu dato l´annuncio (il Kérygma) della «discesa» in politica (26 gennaio 1994), un passaggio-chiave, una frasetta che sembra buttata lì, fu «L´Italia è il Paese che io amo». Così anche l´amore faceva la sua discesa nel linguaggio della politica, non senza conseguenze pervasive. Il neonato Partito Democratico, a sua volta, ritenne di non dovere essere da meno e rispose per le rime nel «Manifesto» fondativo del 2007, che inizia così: «Noi, i democratici, amiamo l´Italia». Questo è un esempio delle conseguenze perverse dell´imitazione nel campo della comunicazione politica. Le due dichiarazioni d´amore si equivalgono? No, non si equivalgono. La prima («L´Italia è il Paese che io amo») è una dichiarazione sovrana che proviene da uno che ha già detto che, se avesse voluto, avrebbe potuto continuare una vita felice in sé e per sé, oppure avrebbe potuto prescegliere un altro luogo per vivere o per discendere sulla terra dei comuni mortali. L´Italia, così, è la prediletta che, in virtù di questa predilezione, dovrà ricambiare l´amore che tanto gratuitamente le è stato donato. La seconda dichiarazione è tutt´altra cosa. Non è un atto sovrano. È un atto obbligato. Potrebbe un partito politico che, ovviamente, è dentro, non sopra il Paese al quale chiede consensi, dire: «Tu non mi piaci affatto». Questa dichiarazione, come dichiarazione d´amore, suona falsa perché è obbligata e l´amore obbligato che cosa è? Può essere un´adulazione interessata. Anche la prima, naturalmente, lo è, ma si presenta in tutt´altro modo, come un dono d´amore, una dedizione gratuita, un atto commovente. Chi potrebbe resistere a cotanto amante, a un simile seduttore? Chi potrebbe, a sua volta, non riamarlo? E se non riama? Se l´amore non è corrisposto? Se non c´è corrispondenza a un amore così grande che è quasi un sacrificio, è perché qualcuno odia. Solo apparentemente, le parole d´amore, spostate dal campo che è loro proprio, cioè quello delle relazioni interpersonali concrete, e riversate nella campo della politica, cioè dei rapporti impersonali astratti, sono parole benevolenti. In realtà sono parole violente, destinate a provocare divisioni radicali, contrapposizioni e incomunicabilità, tra «noi che amiamo» e «voi che odiate». Valga, tra le tante possibili, questa citazione: «Noi non abbiamo in mente un´Italia come la loro, che sa solo proibire ed odiare. Noi abbiamo in mente un´altra Italia, onesta, orgogliosa, tenace, giusta, serena, prospera, un´Italia che sa anche e soprattutto amare» (L´Italia che ho in mente, Milano, Mondadori, 2000, p. 280). Se guardiamo all´Italia di oggi, possiamo tristemente riconoscere che la spaccatura è avvenuta e non sappiamo come si potrà sanarla.

«Assolutamente». Un avverbio e un aggettivo apparentemente innocenti, da qualche tempo, condiscono i nostri discorsi e in modo così pervasivo che non ce ne accorgiamo «assolutamente» più: per l´appunto, assolutamente e assoluto. Tutto è assolutamente, tutto è assoluto. Facciamoci caso. È perfino superfluo esemplificare: tutto ciò che si fa e si dice è sotto il segno dell´assoluto. Neppure più il «sì» e il «no» si sottraggono alla dittatura dell´assoluto: «assolutamente sì», «assolutamente no». (…). Il predecessore dell´assoluto è il «categorico» d´un tempo, quando non c´era posto per le sfumature ma solo per le convinzioni granitiche, per gli «imperativi categorici» presi dalla filosofia morale e gettati nell´agone politico. Ciò che l´assoluto esclude è «il relativo». Il relativo è ciò che costringe al confronto e induce a pensare. L´assoluto, invece, comanda e pretende obbedienza, assolutamente. Il relativo è proprio dei deboli, perché è insidiato dal dubbio; l´assoluto è forte perché, insieme ai dubbi, esclude la possibilità di venire incontro, di cercare accordi e stabilire compromessi con chi non condivide i nostri «assoluti». Tra assoluto e fanatico c´è parentela stretta in uno stesso mondo spirituale. (...).

lunedì 2 gennaio 2012

Capitalismoedemocrazia. 3 A chi interessa cambiare l'articolo 18?

Scrive il professor Giorgio Ruffolo in Sono dolori se la ricchezza è un fantasma, pubblicato sul quotidiano l’Unità e tantissime volte già citato in questo b-log: - Contrariamente a quanto sostengono i suoi oppositori, la globalizzazione è un processo fondamentale per il progresso umano. Tale era considerato da Marx. Ma non può essere lasciato a sé stesso, perché totalmente privo di autoregolamentazione. È l’assenza di regolazione che lo rende distruttivo e caotico. Questi due temi dovrebbero costituire questioni centrali per gli economisti: una moneta che sia ricondotta alla funzione di arbitro e non di giocatore. Un governo mondiale che ricostituisca il necessario interlocutore del capitalismo dopo il venir meno della funzione svolta dagli Stati nazionali -. Il solito Marx, che vedeva lontano assai. L’opportunità grande e straordinaria affinché la crisi diventi strumento fondamentale per il progresso umano. Poiché la crisi pone in discussione equilibri consolidati, permettendo a nuove masse di ex-poveri di accedere, seppur in grave ritardo, al benessere materiale. Poiché la crisi pone in difficoltà una visione nazionalistica dei paesi del globo intero. Poiché solo un’apertura verso un governo mondiale consentirà di controllarla, dominarla ed indirizzarla verso sbocchi nuovi di progresso. Sono le opportunità che la crisi ci offre. Le cronache recenti ci spiattellano le insuperabili difficoltà che i singoli Stati, nel chiuso dei loro egoistici tornaconti nazionali, incontrano ad affrontare la crisi che diviene sempre più una crisi planetaria. Ora, anche quelli del Bric annaspano; è la controprova che solo una visione globale consentirà un controllo più efficace dei meccanismi che regolano il dissesto finanziario. Della natura della globalizzazione come processo totalmente privo di autoregolamentazione ne ha scritto, sul settimanale il Venerdì di Repubblica, Curzio Maltese in un pezzo che ha per titolo Nel Paese sul lastrico a chi interessa cambiare l'articolo 18? Di seguito lo trascrivo in parte.

“(…). Negli ultimi due decenni, i salari sono crollati in quasi tutto l'Occidente e le condizioni di vita e di lavoro sono peggiorate ovunque, soprattutto per le giovani generazioni. Le nuove multinazionali, anche quelle che puntano molto su un'immagine moderna, civile e progressista, trattano i propri lavoratori peggio di quanto non facessero gli odiati padroni d'una volta. Amazon è finita nel mirino dei media americani per le disumane condizioni di lavoro cui costringe i dipendenti, Apple è sotto inchiesta per l'ondata di suicidi fra gli operai cinesi chiamati a produrre gli iPad, altri colossi come Monsanto, Nike e Nestlè devono difendersi da accuse di sfruttamento selvaggio della manodopera, in qualche caso perfino di bambini. Da vent'anni i super manager più celebrati e citati come modello di genio aziendale non sono più i creativi ma quelli bravi ad aumentare il proprio stipendio e a tagliare quelli dei lavoratori, insieme ai diritti acquisiti. Il caso più noto è Sergio Marchionne. Si capisce che tagliare la pausa mensa è più semplice che progettare un modello diverso dalla ventesima versione della Panda. Marchionne spiega che la produttività italiana è troppo bassa ed è vero. Ma sfugge, almeno ai non addetti, il meccanismo psicologico per il quale un lavoratore dovrebbe produrre di più in cambio di un salario sempre più misero. In Italia, lo stipendio medio netto è crollato negli ultimi dieci anni agli ultimi posti dell'Eurozona, sotto i ventimila euro all'anno. In termini di potere d'acquisto reale, i lavoratori italiani guadagnano cinquemila euro in meno rispetto al 2001. La ragione principale è che sono aumentate le tasse sul lavoro dipendente, fino a superare di gran lunga la media europea, quella dell'Ocse e perfino la leggendaria Scandinavia. L'aumento delle tasse sul lavoro dipendente, ricompensato con un netto peggioramento dei servizi sociali, è servito in buona sostanza a finanziare l'evasione fiscale, nel frattempo triplicata. Si sono insomma tartassati i poveri per arricchire i ricchi disonesti. L'effetto sull'economia è stato devastante. L'Italia è un Paese dove si vendono sempre più pellicce, champagne di marca, fuoribordo ed elicotteri, ma dove si spende sempre di meno al supermercato. Com'è noto, lo spreco dei super ricchi non compensa la mancata spesa dei poveri. E ora, vogliamo davvero credere che il problema sia l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori?”

domenica 1 gennaio 2012

Eventi. 1 Pensieri per un anno nuovo.

- …i partiti sono un meraviglioso meccanismo in virtù del quale, in tutta l’estensione di un Paese, non uno spirito dedica la sua attenzione allo sforzo di discernere, negli affari pubblici, il bene, la giustizia, la verità. Se si affidasse al diavolo l’organizzazione della vita pubblica, non saprebbe immaginare nulla di più ingegnoso -. Simon Weil nel Suo Manifesto per la soppressione dei partiti politici - (1942) – riportato alla pagina 113 del volume La questione civile di Roberta De Monticelli – Raffaello Cortina Editore (2011), pagg. 156 € 13,50 -.



“(…). E io: «Maestro, che è tanto greve
a lor, che lamentar li fa sì forte?».
Rispuose: «Dicerolti molto breve.
Questi non hanno speranza di morte
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che ’nvidiosi son d’ogne altra sorte.
Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa».
E io, che riguardai, vidi una ’nsegna
che girando correva tanto ratta,
che d’ogne posa mi parea indegna;
e dietro le venìa sì lunga tratta
di gente, ch’i’ non averei creduto
che morte tanta n’avesse disfatta. (…)”.

Il Poeta sommo in tal modo li descrisse e giusto pose loro in quel che la Sua mente e l’arte Sua sublime riconobbero essere l’Inferno –  canto terzo, versetti 43/57 -. Buon Anno.