"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 6 febbraio 2012

Capitalismoedemocrazia. 10 La dinamica sociale e politica dell´insipienza.

C’è un aspetto non secondario della crisi in atto che rimane taciuto, sotterraneo, e che non trova la forza ed il giusto spazio nei media per emergere a livello di consapevolezza collettiva: è la padronanza che i guru, ovvero i maestri della economia e/o della politica, hanno o non hanno dei meccanismi della crisi stessa e di come fronteggiarla adeguatamente. Ne ha scritto dottamente il sociologo tedesco Ulrich Beck  in un editoriale di grande richiamo, Il rischio globale che minaccia il capitalismo, pubblicato sul quotidiano la Repubblica. Di seguito lo trascrivo in parte. In esso l’illustre Autore, docente presso la London School of Economics, pone l’accento su quell’aspetto taciuto e non adeguatamente affrontato, del quale prima si diceva, fino a riconoscere una inattitudine palese, da parte dei cosiddetti esperti, divenuti nel bel paese i cosiddetti tecnici, di fronte ad una crisi che ha svolgimenti inattesi, poiché imprevisti e non ponderabili, e non fronteggiabili con le consuete regole e prassi della politica economica. A me risultano chiare le conclusioni che dalla lettura del pregevole scritto si possono trarre: la prima è che, almeno nel bel paese, non sia molto diffusa e ben radicata, nel grosso corpo sociale, la consapevolezza della impossibilità di sapere di esperti e politici preposti ad affrontare adeguatamente la crisi; la seconda, è che la «sovranità del mercato» rappresenta una minaccia esistenziale senza precedenti; ed infine, che la fusione globalizzata della non conoscenza e del rischio di sopravvivenza impone un atteggiamento nuovo a livello globale per mezzo del quale si impongano tutte quelle necessarie risoluzioni che l’egoismo di casta o di classe sociale ha impedito di mettere in atto, come la necessaria e non più rinviabile tobin tax per come il suo ideatore, l'economista James Tobin, la propose nel lontanissimo anno 1972, e che il liberismo sfrenato del secolo ventesimo, nella forma reaganiana e tatcheriana, avversò rudemente, tobin tax che, tassando in maniera modica le transazioni finanziarie, avrebbe consentito di stabilizzare i mercati valutari penalizzandone le speculazioni a breve termine e contemporaneamente procurando risorse economiche da destinare alla comunità internazionale. È tempo, ed è auspicabile che ciò avvenga, che la crisi induca una nuova idea di esistenza per tutti gli esseri umani, affinché torni, per dirla con Alain Tourain, “l’individuo al centro” dell’interesse di tutte quelle forze politiche che si ispirano ad ideali di eguaglianza e di fraternità veramente globale, con una globalizzazione nuova che non sia limitata ai capitali, alle merci, alle intelligenze ed alle braccia da lavoro, ma che tenga in primario conto l’esistenza delle moltitudini. Ha scritto Alain Tourain, nell’ultimo numero della rivista MicroMega – pag. 37 - dell’anno appena trascorso: Il teorema da tempo accettato secondo cui il centro della vita sociale è il sistema economico, cioè la stretta corrispondenza delle categorie della vita economica con quelle della vita sociale, non è più accettabile e dev’essere respinto malgrado i molti servizi resi. L’economia si è separata dalla vita sociale: è questo il significato profondo della globalizzazione. (…). Siamo fin troppo consapevoli che l’edonismo avvantaggia i ricchi e i potenti, e distrugge quanti ne adottano gli obiettivi senza avere i mezzi per raggiungerli. È l’occasione straordinaria che la crisi offre, per un ripensare al senso stesso del vivere da cittadini integrati in un sistema che non abbia come totem il consumo per il consumo.

(…). A dominare è oggi la non conoscenza, che si presenta in diverse sfumature: dall´«ancora non si sa» (quindi una condizione superabile grazie a un impegno scientifico più massiccio e qualitativamente migliore) all´ignoranza volutamente coltivata, passando per l´insipienza consapevole, fino all´«impossibilità di sapere». Al confronto anche l´ironia socratica – «so di non sapere nulla» - appare inoffensiva. Siamo costretti a muoverci e ad affermarci in un mondo ove non abbiamo idea di tutto ciò che ignoriamo; ed è proprio da qui che nascono pericoli dei quali non sappiamo neppure con certezza se esistano o meno! A questo punto svanisce anche il confine tra pubblico isterismo e responsabilità politica. Prima della crisi finanziaria, gli esperti economici e politici asserivano di avere su tutto conoscenze precise e di tenere in mano la situazione. Ma all´improvviso, una volta esplosa la crisi finanziaria, non sapevano più nulla (senza però confessarlo in pubblico, e neppure a se stessi). E´ stata proprio la crisi dei mercati finanziari globali a porre drammaticamente davanti agli occhi dell´opinione pubblica la dinamica sociale e politica dell´insipienza. L´interazione tra non conoscenza, fiducia e rischio ha un ruolo centrale nella dinamica politica: l´incapacità di sapere, pubblicamente esperita e riflessa, mette a repentaglio la «sicurezza ontologica», o in altri termini, la fiducia nelle istituzioni di base della società moderna, così come nella scienza, nell´economia e nella politica, che dovrebbero essere garanti di razionalità e sicurezza. Di conseguenza, il giudizio su queste istituzioni è drasticamente mutato: non più fiduciarie, ma entità sospette. Se prima erano viste come responsabili della gestione del rischio, oramai sono sospettate di esserne la fonte. (…). Il dramma della minaccia di un tracollo dell´economia mondiale si svolge quotidianamente davanti ai teleschermi nei tinelli di tutto il pianeta. Ma questa drammaturgia mediatica dei rischi catastrofici ha scatenato una mobilitazione, storicamente senza precedenti, dell´opinione pubblica mondiale, di movimenti sociali e di attori politici nazionali e internazionali. (…). La questione della crisi del capitalismo è onnipresente. Perciò si pone in maniera più pressante, e magari con qualche chance in più, il problema di indicare nuove vie, all´interno e persino in alternativa al capitalismo. Non si avverte forse la necessità di una riforma ecologica e sociale della (o nella) seconda modernizzazione, ponendo al centro i valori e i problemi della giustizia e della sostenibilità? Oggi questo pubblico brainstorming è impersonato dal movimento Occupy Wall Street. Il diktat degli onnipresenti rischi finanziari ha impartito ai comuni cittadini qualcosa come un corso accelerato sulle contraddizioni del capitalismo globale; e l´impossibilità di sapere di esperti e politici è ormai condivisa dal pubblico, con crescente impazienza, davanti alla necessità di un deciso cambio di rotta, a livello sia nazionale che internazionale, nell´interazione tra economia, società e politica. (…). …davanti al rischio di una nuova crisi economica mondiale di vasta portata, la «sovranità del mercato» rappresenta una minaccia esistenziale senza precedenti. In altri termini, quest´esperienza storica insegna che il progetto neoliberista – di riduzione dello Stato ai minimi termini – è fallito; e in controtendenza ad esso si fa sempre più forte il richiamo alla responsabilità statale, a fronte di un´economia mondiale che produce vortici di incertezza incontrollabili, mettendo a rischio la vita di tutti. Da tutto questo, al di là dei messaggi negativi, emerge una buona notizia. L´egoismo, l´autonomia, l´autopoiesi, l´isolamento del sé rappresentano i concetti chiave attraverso i quali la società moderna descrive se stessa. Ora, la logica del rischio globale va intesa secondo il principio esattamente opposto, quello dell´apprendimento involontario. In un mondo di contrasti inconciliabili, in cui ciascuno gira intorno a se stesso, il rischio mondiale pone in primo piano l´imperativo, non voluto né intenzionale, della comunicazione. Il rischio finanziario pubblicamente recepito costringe alla comunicazione soggetti che altrimenti non vorrebbero avere nulla a che fare gli uni con gli altri; e impone costi ed impegni a chi fa di tutto per evitarli – e non di rado ha dalla propria parte le leggi in vigore. In altri termini: la fusione globalizzata della non conoscenza e del rischio di sopravvivenza impone di accantonare la pretesa di autosufficienza di culture, lingue, esperti, religioni e sistemi politici, e cambia l´agenda nazionale e internazionale; ne rovescia le priorità, aprendo l´orizzonte al sogno di scelte alternative – come ad esempio la tassa sulle transazioni finanziarie, che ancora poco tempo fa passava per inapplicabile e ridicola. (…).

domenica 5 febbraio 2012

Cosecosì. 5 Della monotonia.

«Tutte le cose che stiamo cercando di fare sono operazioni di creazione di consapevolezza, perché il mondo non è più quello che era dieci anni fa. I giovani devono abituarsi all’idea che non avranno un posto fisso per tutta la vita. Del resto, diciamo la verità, che monotonia, un posto fisso per tutta la vita. È bello cambiare, avere delle sfide, purché siano accettabili». Recita l’autorevole dizionario Sabatini-Coletti alla voce monotonia: Sgradevole insistenza e ripetizione di stessi fatti, situazioni ecc. SIN (…) sensazione di noia causata dal costante e invariato ripetersi di medesimi fatti o situazioni SIN tedio: la monotonia di un'esistenza sempre uguale. Cosa aggiungere? Che riesce difficile capire, dopo le autorevolissime parole del dottor Mario Monti, come tante autorevolissime altre persone restino per tutta la vita a fare la stessa cosa. Sempre e comunque la stessa cosa. Un esempio? I politici del bel paese. Ma come mai ogni tanto non provano essi a cambiare, avere delle sfide, così come viene consigliato amorevolmente ai giovani del bel paese? E che dire dei grand commis dello Stato, delle istituzioni varie o degli enti? Nessuno, ma proprio nessuno, che sia mai stato tentato di mettere in pratica l’autorevole consiglio del dottor Mario Monti. E che dire dei grandi manager pubblici e/o privati, che non si scollano dal  posto fisso neanche dopo essere bravamente riusciti a portare al fallimento l’istituzione, la banca, l’impresa loro affidata? Ché anche quando li si manda via, dopo averli lautamente ricompensati per l’opera insana, per dare pratica attuazione al tanto decantato è bello cambiare, si ritrovano a loro insaputa insediati alla presidenza di un qualcosa altro al quale non avevano ancora pensato. La conclusione mi sembra logica e tutto si tiene: sono i giovani, i senza padrini politici, gli esclusi da tutto a doversi abituare all’idea che non avranno un posto fisso per tutta la vita. Amen. Che tradotto può avere il significato di così è, così sia, in verità. Così parlò il dottor Mario Monti. Sostiene l’autorevole Sabatini-Coletti essere sinonimo di monotonia anche la sensazione di noia. A proposito della noia e dell’annoiarsi, tanto invisi al dottor Mario Monti, propongo una riflessione del professor Franco Cordero ricavata da quella Sua straordinaria opera letteraria che è stata e che continua ad essere L’armatura, opera letteraria pubblicata per i tipi Garzanti nell’anno oramai remoto 2007 – pagg. 661 € 22,00 -. Scrive l’illustre Autore alle pagine 40-41: (…). …l’uomo è l’unico animale che s’annoi. Cos’è la noia? Vertigine, paura del vuoto, anzi panico: perde tempo davanti allo specchio, amorevolmente, ma inorridisce appena lo sguardo gli cada sotto; vede l’abisso. Allora inventa affari, mestieri, professioni, feste, liturgie, salotti, guerre, giochi, cacce, balli, schermaglie amorose, accademie, politica: le partite a carte o biliardo hanno la stessa funzione degli uffici importanti; conseiller d’Etat, camerlengo, tesoriere, président à mortier, ecc.; ha bisogno di una routine che l’assorba, così passa il tempo senza guardarsi dentro; (…). Ecco, forse il dottor Mario Monti ha una tremenda paura di guardarsi dentro, per la quale paura si sarà inventato, nel corso della sua straordinaria, affaccendata vita, una miriade di mestieri, professioni, feste, liturgie, salotti, guerre, giochi, cacce, balli, schermaglie amorose, accademie, politica con il fine ultimo di tirarsi fuori da quella stramaledetta paura. Ma attenzione: il Nostro, il professor Cordero intendo dire, afferma che l’uomo ha bisogno di una routine che l’assorba. Quindi la routine del posto fisso tornerebbe comoda oggigiorno, eccome. Comoda a chi? Al capitale innanzitutto. Eviterebbe ai più di guardarsi dentro. Eviterebbe ai più di scandagliare la propria anima. E di scoprirne una coscienza riposta. Una coscienza di classe, per esempio. Cose d’altri tempi. E di scoprire magari un sé inaspettato. Nuovo e diverso. Una ricerca del sé che dovrebbe interessare anche il dottor Mario Monti. Ma non è così. Peccato per tutti quegli esclusi che ho prima elencato: le jeux sont faits, rien ne va plus. Nulla è più valido, i giochi sono fatti. Ma il Nostro illustre Autore scandaglia pervicacemente sulla noia e d’intorno. Scrive alla pagina 105 della Sua opera straordinaria: Pensieri inconsueti: ad esempio, che giochi, uffici, onori, politica, salotti, affari amorosi, siano una difesa dal fondo buio dell’anima; è una vista insopportabile, perciò l’uomo s’affattura dei passatempi che l’assorbano. Siamo animali vulnerabili dalla noia, ignota a formiche, ragni, gatti, cavalli, ma il peccato d’Adamo non c’entra: semmai l’inverso; nel paradiso terrestre rischia l’inebetimento e forse la trasgressione nasce lì; vuol rompere il tedio d’una vita fannullona; finalmente espulso, gioca partite talmente ardue da riempirgli l’anima. S’annoiano gli stupidi, tanto più i ricchi. (…). Vengono fuori pensieri inconsueti: proprio così. Ché il dottor Mario Monti voglia evitare che i destinatari ultimi delle sue parole - dal sen fuggite - abbiano a divenire così ricchi da annoiarsi al pari dei ricchi e degli stupidi? Lodevole pensiero il suo, ma pericolosa impresa la sua: renderebbe tutti gli esseri umani come automi, senza un’anima da scandagliare, adusi all’indefesso lavoro per la gloria del soldo, del capitale. È proprio vero: i banchieri non hanno un’anima. Non hanno da scandagliare un’anima. Ergo, non sono vittime della monotonia, non si annoiano. Ecco il motivo per il quale sono proprio diversi da tutti gli altri. Da tutti noi. Come quel tale Ebenezer Scrooge di dickensiana memoria. Arido e tirchio, senza l’anima.

sabato 4 febbraio 2012

Dell’essere. 5 Una donna. Un ricordo di Anna Maria Longo.

È sorprendente come la vita prepari gli eventi suoi e li concateni in maniera che gli stessi appaiano sì nella loro sempiterna casualità ma pregni di messaggi, che oggi definiremmo subliminali, occulti ma non tanto solo se gli stessi appartenessero pienamente al mondo degli umani. E quali sono stati gli eventi che mi spingono a vergare queste mie poche righe? Ho potuto vedere, ché mi era sfuggito nel corso della normale distribuzione nelle sale, lo straordinario film Milk, di Gus Van Sant, con un eccezionale Sean Penn, Emile Hirsch e Josh Brolin. Vi si racconta di minoranze e delle loro lotte affinché venissero riconosciuti ad esse gli irrinunciabili diritti di tutti gli esseri umani. È il mio primo evento. Il secondo si è materializzato all’accensione del mio portatile, accensione inconsueta per l’avanzato orario della sera, allorquando una e-mail dell’amico carissimo  Sabatino Nicola Ventura mi informa dell’avvenuta scomparsa di una donna straordinaria, la compagna Anna Maria Longo. Scrive Ventura, ricordando Anna Maria Longo, essere stata la “donna dell’impegno e delle battaglie per l’emancipazione femminile a Catanzaro e in Calabria, (…). Dalla fine degli anni ’50 a oggi è stata la protagonista delle lotte per il riscatto della donna. E’ stata una studiosa e una teorica della battaglia di genere. Le donne progressiste e democratiche di Catanzaro, ma dell’intera Calabria si sono riconosciute in Anna Maria. Non per nulla Sabatino Nicola Ventura ha intitolato la e-mail, che ho avuto il privilegio di ricevere e per il quale privilegio lo ringrazio, Un ricordo di Anna Maria. E di seguito scrive ancora affettuosamente: “Nella qualità di dirigente dell’Unione Donne Italiane, ha svolto un lavoro di grande importanza. Rivedo, come se fosse ora, le numerose donne e ragazze di Catanzaro che attorno ad Anna Maria affermavano il diritto di esserci e di contare alla pari degli uomini, ma anche attraverso il riconoscimento delle peculiarità, diverse, della donna. Gli esseri umani sono una comunità di genere. Devono stare assieme con pari dignità e cittadinanza. Anna Maria ha fatto scoprire a tante donne il diritto alla peculiarità di genere. Ha insegnato a tanti uomini che la mortificazione della donna è frutto di costruzioni culturali: sovrastrutture, come si usava definirle tanti anni fa”. È questa e-mail il secondo evento di quella concatenazione che la vita ci regala sorprendendoci il più della volte. Ha scritto il professor Umberto Galimberti nel Suo “Vestali della memoria”, pubblicato sul quotidiano La Repubblica del 7 di giugno dell’anno 2003: “(…). Chi è custode della memoria se non la donna, il cui ancoraggio alla natura, che al pari della donna è madre, la rende così solidale alla vita, da spingerla a ricostruirla là dove passa la potenza distruttiva degli uomini, il cui ancoraggio alla natura  è davvero flebile e immemore rispetto al fascino che su di loro esercita, quel campo da gioco che è per loro la storia? Non la storia antica, che avendo parentela con l’origine e la nascita delle civiltà è evento femminile, ma con la storia di oggi, che, sradicata dalla memoria delle origini, è pura volontà di potenza. (…)". Ecco, è venuto a mancare non solo un essere umano, una donna vera, ma si è spento un pezzo della memoria collettiva di questo Paese. Anna Maria Longo ha combattuto per l’affermazione dei diritti, quelli delle donne, di tutte le donne, così come nel film di Gus Van Sant si è narrato delle lotte, della vita e della morte, tragica, di uno dei protagonisti massimi del secolo ventesimo. Il terzo evento, che si concatena mirabilmente agli altri due, è lo straordinario pezzo che Sabatino Nicola Ventura mi ha trasmesso nella e-mail e, per come mi scrive, è tratto da “un Suo libro, molto autobiografico dei sentimenti e delle scelte, Il guscio, pubblicato circa venti anni fa”, pezzo che di seguito trascrivo in parte.

I ricordi si stagliano in immagini di vissuto politico; trattengono il valore simbolico assunto nei momenti, nelle tappe decisive e importanti del percorso di liberazione. E’ l’otto marzo del ’77. Ogni anno siamo scese in piazza nella storica data, ma la novità di questa festa non ha precedenti. Il corteo è immenso, festoso, variopinto: gonne lunghe di cotonina fiorata, fiori nei capelli, facce splendidamente truccate; mani alzate con i pollici e indici congiunti a simbolo d’utero; un solo grido, una sola voce e siamo tante. La gente ci guarda stupita, frastornata; non comprende; legge nei nostri gesti un’oscenità che offende pudori e rispettabilità; inorridisce alle nostra grida; è “un impazzimento” recita ogni commento, anche se ad essere impazzite siamo in tante e tra queste vi sono donne insospettabili, di indiscussa serietà e rispettabilità. Il corteo è un annuncio politico: l’UDI si fa movimento; si rompe la gabbia dell’organizzazione paludata con regole e riti; si scompiglia la gerarchia. Cambiano le motivazioni della militanza; il personale è politico e rivendica bisogni nuovi, differenziati; ridisegna, a sua immagine, obiettivi e modalità originali di lotta. Scoprire il desiderio e piacere di sé, in quanto donna; è rivoluzione! A partire da sè si scava sul comune denominatore di sofferenza: l’oppressione maschile è senso comune delle donne e si assume ad obiettivo di lotta del nostro pensare e lavorare assieme. Sono trascorsi appena due anni, da quando ho partecipato alla competizione elettorale, candidata dal PCI, per il coniglio regionale della Calabria. Per pochi decine di voti non sono stata eletta; il maschilismo del partito aveva fatto trincea; lì per lì, la delusione mi era sembrata una cocente sconfitta. “Fuori le donne dalle istituzioni” è lo slogan del movimento ed io ne sono più delle altre convinta; appartiene al passato la mia esperienza elettorale. E’ inesauribile la creatività delle donne: la politica si fa corpo, perde astrattezza, assume volti, comportamenti propri ad ogni singola donna; concettualizza i bisogni comuni; si fa simbolo. I manifesti diventano tazebao, si personalizzano; ore ed ore di lavoro paziente per farli: la fantasia cromatica disegna soggetti, scampoli di storie che narrano la nostra esperienza. Alba e Silvana ci insegnano come usare matite e pennelli; impariamo, ci divertiamo. Vogliamo parlare a tutte:  giovani e meno giovani; ignoranti e colte; alle inquiete ed alle depresse; il nostro linguaggio povero, stenta a trovare parole che dicano il “non-dicibile”: il desiderio, il piacere,il segreto dell’esperienza di ognuna, il dramma di ogni occulta sofferenza, di ogni solitudine. E’ anche per alcune il momento dell’addio! Lasciano, abbandonano il movimento; hanno paura. Si sottraggono al rischio della messa in discussione della propria vita; cercano scampo dagli interrogativi impietosi sul rapporto coniugale; cedono alle pressioni dei mariti insospettiti, incattiviti per quello stare “insieme tra donne” senza che si possa esercitare il solito, abituale, controllo. Sono allontanamenti dolorosi , ma non irreversibili perdite. Un filo sotterraneo, una affinità segreta le terrà agganciate al movimento anche senza militanza; anche se di fatto, si lasciano chiudere tra i muri di casa in trincea, obbligate all’impegna di custodi del nido: Il femminismo è stato per loro, come per tutte, un incontro irreversibile: la partenogenesi della propria identità e di amore per sé. Nessuna può tornare indietro, ad essere quella di prima. Verranno tutte al congresso dell’UDI di Catanzaro del ’78, convocato come il”decimo” dell’associazione nazionale; ha come slogan: “La mia coscienza di donna in un grande movimento organizzato”. Sono presenti quasi seicento donne: parlano con facilità; usano parole della quotidianità e sono efficaci, comunicano, stimolano, insidiano antiche rassegnazioni, passività stratificate; strappano i veli al “potere” che li usa, prospettano dove e come vogliono investire l’esplosione di energia liberata. Cantano, recitano, sferzano con l’ironia tagliente; il congresso è anche spettacolo: “Donna è bello”. (…). A casa riporto la mia eccitazione; voglio comunicarla, coinvolgere, vivificare il rapporto con Lui; vorrei che mi apprezzasse, sollecitandolo ad una più calda intimità. Parlo sinceramente di me, tento di parlare di noi ed è un muro di gomma che mi trovo, quando non scatta sulla difensiva scaricandomi una genericità di problemi gravosi, di soldi, di cose da fare e che mai si fanno; svicola e si perde nell’irrilevante. Imperterrita continuerò a parlare fingendo l’ascolto fino a quando mi sarà sconvolgente misurare tutta la fatica retrodatata dell’inanità di tante mie parole al vento. Sicuramente l’affettività con le amiche surroga e, senza accorgermi, sostituisce in qualche modo il legame che continuo a ritenere fondante ed indispensabile al mio equilibrio sessuale-affettivo e psichico di donna…