Da “Quei
nuovi poveri con lo stipendio” di Chiara Saraceno, sul quotidiano la
Repubblica del 16 di luglio 2015: Nel 2014 , dopo tre anni di aumenti
costanti, la diffusione della povertà si è fermata. Le buone notizie finiscono
qui e mi sembra difficile considerarle, come è stato detto, “non negative”. Non
c’è stato, infatti, nessun miglioramento nella percentuale di famiglie e
individui che vivono in povertà relativa e nemmeno di quelli che vivono nella più
grave povertà assoluta, rispettivamente un milione e 470mila famiglie e 4
milioni e 102mila individui. Non solo, la povertà assoluta continua a rimanere
particolarmente elevata tra i minori, il 10 per cento, pari a più di un milione
di minori e i giovani tra i 18 e i 34 anni, l’8 per cento, pari a 857mila. Qualche
miglioramento c’è stato solo per particolari sottogruppi, come le coppie con
due figli (che tuttavia peggiorano un po’ dal punto di vista della povertà
relativa), le famiglie con persone di riferimento in età tra i 45 e i 54 anni e
le famiglie che vivono i piccoli comuni, specie nel Mezzogiorno. C’è stato, a
prima vista sorprendentemente, un miglioramento anche per le famiglie con
persona di riferimento in cerca di occupazione (anche se queste continuano ad
avere l’incidenza di povertà assoluta più alta), forse perché più che negli
anni precedenti vedono al proprio interno occupati o ritirati dal lavoro. È
infatti aumentato in questi anni il numero delle famiglie in cui è la donna ad
essere occupata. Ed è noto come in molti casi sia la pensione di un genitore
anziano a mantenere anche le famiglie dei figli adulti disoccupati. Avere una
occupazione, tuttavia, non sempre è sufficiente per tenere fuori dalla povertà
se stessi e la propria famiglia, specie se si è operai o assimilati. Un reddito
modesto, specie se è il solo e se ci sono figli minori, può non essere
sufficiente a far fronte ai bisogni di una famiglia. Sono anche rimaste tutte
le caratteristiche tipiche della distribuzione della povertà in Italia. Accanto
alla ricordata forte incidenza della povertà minorile, dovuta soprattutto alla
diffusione della povertà nelle famiglie con tre o più figli, e al fenomeno dei
lavoratori poveri, il dualismo territoriale, con un tasso di povertà assoluta nel
Mezzogiorno doppio di quello del centro-Nord: 8,6 per cento a fronte del 4,2
per centro del Nord e al 4,8 per cento del Mezzogiorno. (…). I dati forniti
dall’Istat quest’anno consentono (…) di confrontare la situazione degli
stranieri (residenti regolarmente) e delle famiglie di stranieri con quella
degli autoctoni. Tra le famiglie di stranieri l’incidenza della povertà
assoluta è quasi sei volte quella tra gli autoctoni, 23,4 per cento rispetto a
4,3 per cento. Le famiglie miste sembrano più protette, anche perché è più
frequente che sia l’uomo ad essere italiano, ma sempre molto più vulnerabili di
quelle tutte autoctone, con il 12,9% di povere assolute. La differenza tra
italiani e stranieri è molto maggiore al nord che al sud, stante la maggiore
diffusione della povertà tra le famiglie italiane in queste ultime regioni. Si
conferma che gli stranieri in Italia, per le loro caratteristiche in termini di
qualifiche professionali, ma anche per il tipo di domanda di lavoro che
trovano, appartengono allo strato socio-economico più basso della società,
condividendo, in modo accentuato, le vulnerabilità sperimentate anche dagli
italiani che si trovano nelle stesse condizioni. Anche in questo caso, i più a
rischio sono i minori e i giovani.
Da “Meno
deficit, più tasse” di Franco Mostacci, su “il Fatto Quotidiano” del 22 di
luglio 2015: (…). Quando il Pil aumenta è normale che anche il gettito tributario si
incrementi. Ma se il primo ristagna o cresce poco una pressione tributaria
asfissiante sottrae risorse che potrebbero essere destinate a consumi e
investimenti, cioè a creare lavoro e migliorare la qualità della vita. Pazienza
, se a fronte di maggiori tasse fossero
erogati servizi sociali, ma non è il caso dell’Italia. I tributi servono per lo
più a pagare sprechi e corruzione del passato (sotto forma di interessi sul
debito pubblico) e del presente. Negli ultimi 20 anni il gettito tributario è
aumentato dell’88%, passando da 258 a 486 miliardi di euro, il Pil nominale (a
prezzi correnti) è cresciuto del 64% e quello reale del 9% (…). I maggiori
incrementi si sono avuti tra il 1996 e il 1998 (governo presieduto da Prodi,
ministro del Tesoro Ciampi), nel 2006-2007 (ancora Prodi) e nel 2012 (Monti).
Nel frattempo la pressione tributaria – il rapporto tra tasse e Pil – è passata
dal 26% al 30% (…). Nel 1995 il rapporto deficit/Pil raggiungeva il 7,3% e per
rispettare uno dei requisiti per essere accettati nell’Eurozona, fu attuata una
politica fiscale di vaste proporzioni. Molti ricorderanno il contributo straordinario
per l’Europa, che nel 1997 fruttò
all’erario 4.900 miliardi di lire (2,5 miliardi di euro). Con quasi 30 miliardi di euro di tasse in più
in un anno, la tosatura fu generale. Quell’anno le imposte dirette aumentarono
del 10% (Irpef +9%, l’Irpeg – ora sostituita dall’Ires - +43% e l’Ilor – poi
abrogata per lasciare il posto all’Irap - +20%), le imposte indirette del 9%
(raddoppiarono da 1,6 a 3,2 miliardi di euro le imposte governative) e quelle
in conto capitale del 151% (oltre alla già citata tassa per l’Europa altri 3,5
miliardi di euro furono rastrellati con una ritenuta d’acconto sul Tfr). E
quando l’Istat rese noti i conti nazionali del 1997, redatti secondo le regole
del Sec1979 allora vigente, il deficit/Pil
era al 2,7% e l’euro era a portata di mano, con la piena soddisfazione del
Governo e un po’ meno di coloro che avevano pagato le tasse. Oggi, con
l’introduzione delle nuove regole di contabilità nazionale (il Sec2010), si
scopre che nel 1997 il rapporto
deficit/Pil era al 3%. Resta il fatto che senza il maggior gettito di 30
miliardi di euro il risultato sarebbe stato tra il 5,4% e il 5,7%. Si può
quindi affermare, senza timore di essere smentiti, che gli italiani per passare
dalla lira all’euro hanno pagato, e neanche poco. Nel 1998 (dopo l’avvicendamento
tra Prodi e D’Alema, con Amato ministro del Tesoro) fu introdotta l’Irap,
l’imposta regionale sulle attività produttive che fruttò all’erario altri 27
miliardi e la pressione tributaria salì al 29%, livello al quale si mantenne
stabile anche nel 1999, quando furono aggiunte le addizionali regionali e
comunali sull’Irpef (2,5 miliardi di euro). La cura da cavallo fece scendere
l’indebitamento all’1,9% del Pil, un livello mai raggiunto negli ultimi 40
anni. Con il governo Berlusconi (2001-2005) la pressione tributaria diminuì, ma
l’indebitamento riprese quota. Al momento non ci furono conseguenze, perché i
dati che pubblicava l’Istat erano rassicuranti. Nel 2001 il deficit/Pil fu
stimato all’1,4%, mentre ora, dopo numerose revisioni al rialzo, sappiamo che
era al 3,4%. Un valore che avrebbe potuto far aprire nell’immediato una
procedura per deficit eccessivi nei confronti dell’Italia. Erano gli anni in
cui la Grecia truccava i conti pubblici per poter entrare nell’euro e anche
Francia e Germania avevano un indebitamento superiore al 3% del Pil. Cosicché
nessuno aveva interesse a controllare cosa faceva il vicino. Nel 2005, dopo 5
anni consecutivi di sforamento, la Commissione europea aprì una procedura di
infrazione per deficit eccessivo nei confronti dell’Italia. Toccò quindi a
Prodi, tornato nel frattempo al Governo, porre rimedio ai conti pubblici. La
pressione tributaria che era scesa al 27% riprese a crescere. Le tasse aumentarono di 38 miliardi di euro
nel 2006 (+10%) e di 27 miliardi di euro nel 2007 (+6%). In forte crescita il
gettito Irpef (21 miliardi in due anni incluse le addizionali), l’Ires (17
miliardi di euro), le ritenute sugli interessi e su altri redditi da capitale
(circa 4 miliardi), l’Iva (10 miliardi), l’Irap (5 miliardi), le imposte sui
tabacchi (1,7 miliardi) e su lotto e lotterie (1,7 miliardi). Riportato
l’indebitamento a livelli fisiologici, Prodi lasciò il testimone nuovamente a
Berlusconi che, insieme al suo ministro
dell’Economia Tremonti, ridusse nuovamente la pressione tributaria dal 29 al
28%, ma, complice la crisi economica internazionale, non poté impedire che
l’indebitamento volasse al 5,3% nel 2009, causando l’apertura di una nuova
procedura di infrazione per deficit eccessivo. Fu solo nel 2012, con le manovre
fiscali del governo Monti, che l’indebitamento netto fu ricondotto al 3%. A
farne le spese ancora una volta gli italiani, costretti a sostenere il fardello
di ulteriori 23 miliardi di euro di tasse (di cui 13 di maggiori imposte sui
fabbricati nel passaggio da Ici a Imu) e una pressione tributaria schizzata al
30%, valore rimasto invariato con i governi Letta e Renzi. All’interno
dell’Eurozona solo Finlandia (31,1%) e Belgio (30,6%) hanno una pressione
tributaria maggiore di quella italiana, di quasi 5 punti superiore alla media (…).
Il Paese dove si pagano meno tasse è la Slovacchia (16,7%), ma anche in Spagna
(21,5%), Germania (22,9%) e Grecia (23,5%, +3% dal 2006) la situazione è
decisamente più favorevole. Uno sguardo d’insieme alle differenti modalità e
intensità di tassazione è sufficiente per comprendere quanto sia lontana l’idea
di una politica fiscale europea comune. L’Italia ha la quota più bassa in
assoluto di gettito Iva (5,8% sul Pil), pur avendo un’aliquota ordinaria che si
colloca in posizione intermedia tra il 17% del Lussemburgo e il 24% della
Finlandia. I fattori che nel nostro Paese determinano questa situazione sono
sia l’ampio ricorso alle aliquote
ridotte del 4% o del 10%, sia l’incidenza dell’evasione fiscale. In compenso
l’Italia detiene il triste primato delle tasse sui prodotti (5,4%; in Germania
il 2,5%), sulla produzione (3,6%, superata solo dal 4,6% della Francia; in
Germania lo 0,7%) e sul reddito (14,5%, subito dietro a Belgio 16,2% e
Finlandia 15,3%). In queste condizioni appare ben difficile una solida ripresa
economica. La diminuzione della pressione tributaria, da tutti auspicata, deve
però fare i conti con il rapporto deficit/Pil
che ha una stretta relazione inversa con essa. La storia degli ultimi 20 anni ci ha
insegnato che per rispettare i vincoli di bilancio sono state aumentate le
tasse e sarà ben difficile che le cose possano cambiare di qui in avanti. Nel
Def dello scorso aprile, il Governo ha previsto che il gettito tributario
aumenterà di 80 miliardi tra il 2014 e il 2019. La pressione tributaria
crescerà dal 30,1% al 30,7%, raggiungendo un picco del 31,2% nel 2016-2017 (…).
Il recente annuncio di Renzi di un taglio di 50 miliardi di euro in 5 anni a
partire dal 2016 (quasi il 10% del gettito totale), sta quindi a significare che le tasse in ogni caso aumenteranno, anche
se - solo - di 30 miliardi di euro. In
tale eventualità la pressione tributaria scenderebbe al 28,5%, tornando ai
livelli del 2011 e, comunque, sarebbe sempre
abbastanza elevata. In questo modo salterebbe il pareggio di bilancio, in quanto
dall’avanzo previsto di 0,9% di Pil nel 2019, si tornerebbe a un deficit di
1,2% (o poco meno se si tenesse conto degli effetti benefici sulla crescita di
una minore tassazione). Considerando le clausole di salvaguardia su Iva e
accise previste dalle Leggi di stabilità già approvate, le coperture per dare
seguito alle promesse di Renzi appaiono alquanto incerte. Non resta che
attendere la Nota di aggiornamento al Def del prossimo settembre, con la quale
il Governo svelerà come rendere compatibile l’annuncio del premier con il
rigoroso percorso di risanamento dei conti pubblici previsto dalle regole
europee.
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