Da “Lavoro,
altro che miracolo Poletti costretto a smentirsi” di Carlo Di Foggia, su “il
Fatto Quotidiano” dell’1 di aprile 2015: (…). Ieri (31 di marzo n.d.r.) l’Istituto
di statistica ha diffuso i dati mensili sull’occupazione: nel solo mese di
febbraio si registrano 44 mila occupati in meno (quasi tutte donne) e 23 mila
disoccupati in più (+0,7 per cento), con il tasso di disoccupazione che sale al
12,7 per cento, tornando ai livelli del dicembre scorso. Rispetto a febbraio
2014 – primo mese dell’era di Matteo Renzi a Palazzo Chigi – l’occupazione è
cresciuta dello 0,4 per cento (+93 mila), mentre la disoccupazione ha fatto un
forte balzo in avanti del 2,1 per cento: significa 67 mila posti di lavoro
persi. Solo poche ore prima, il Sole 24 Ore riportava anche la retromarcia del
ministro del Lavoro Giuliano Poletti: dopo aver sbandierato pochi giorni fa i
“79 mila contratti stabili in più siglati tra gennaio e febbraio”, Poletti si è
deciso a comunicare al quotidiano della Confindustria anche quelli “cessati”,
ridimensionando così il loro numero a 45.703, buona parte dei quali, come si
temeva, sono stabilizzazioni di contratti precari e non nuovi posti di lavoro. È
la certificazione di una corsa ad accaparrarsi l’incentivi stanziati dal
governo con la legge di Stabilità: la decontribuzione fino a un massimo di
8.060 euro, che ha provocato una valanga di richieste all’Inps e potrebbe
portare nel giro di pochi mesi a esaurire le risorse stanziate (1,9 miliardi di
euro nel 2015).
(…). Venerdì scorso, per dire, Poletti aveva comunicato le
anticipazioni sui contratti siglati (“nei primi due mesi del 2015 si registrano
155 mila contratti in più rispetto al 2014”) per coprire il tonfo del fatturato
dell’industria registrato a gennaio (-1,6 per cento rispetto a dicembre). Sarà
un caso, ma da ieri l’Istat ha deciso di comunicare anche la media mensile
rispetto ai tre mesi precedenti “per offrire ai lettori andamenti che risentono
meno della variabilità che si osserva a breve termine”. Tradotto: cerchiamo di
fare un po’ di chiarezza vista la confusione regnante. (…). Al di là dell’Istat,
però, sono proprio i numeri (…) a fare chiarezza. Dai dati, infatti, emerge che
l’aumento dei contratti a tempo indeterminato di gennaio e febbraio è dovuto
essenzialmente alle stabilizzazioni di rapporti di lavoro già in essere, e a un
“effetto rimbalzo”, visto che negli ultimi tre mesi del 2014 le attivazioni
avevano subito un brusco calo (passando da circa 117 mila a poco più di 88
mila). In pratica, le aziende hanno aspettato il nuovo anno per assumere, proprio
per accaparrarsi i generosi incentivi previsti a partire da gennaio. Non solo.
Nei primi due mesi del 2015 insieme alle “attivazioni”, sono cresciute anche le
“cessazioni” di contratti stabili: dai 243 mila licenziamenti del 2014, ai 257
mila di gennaio-febbraio di quest’anno. Era già successo nel dicembre scorso,
quando Poletti venne smentito a stretto giro dal suo dicastero: aveva
anticipato i dati delle comunicazioni obbligatorie del terzo trimestre 2014, da
cui si evinceva “un incremento di 400 mila unità”, guardandosi bene dallo
specificare che quelli “cancellati” erano però 483 mila. Ieri, seppure in
misura minore, è avvenuta la stessa cosa. Il ministero, poi, non ha voluto
diffondere anche i dati di marzo 2014. Non è un dettaglio da poco: stando ai
numeri, in quel mese le attivazioni “stabili” dovrebbero essere state almeno
200 mila, e questo ridimensiona non poco le uscite di Poletti. Se venisse
considerato l’intero trimestre, infatti, probabilmente i “79 mila contratti a
tempo indeterminato in più rispetto al 2014” rivendicati dal ministro del
Lavoro sarebbero molti meno. Tanto più che l’altra faccia della medaglia è
rappresentata dall’aumento dei contratti precari (circa 54 mila unità), dal
calo di quelli di apprendistato (da 34 mila del 2014 ai 33 mila di
gennaio-febbraio 2015, mentre quelli “cancellati” sono più di tremila), su cui
il governo aveva puntato molto: dovevano essere il cuore della “Garanzia
giovani” (il cui flop è ormai conclamato) e invece vengono divorati dalla corsa
agli incentivi. (…).
Da “Le donne
perdute. In un mese più di 42mila senza lavoro” di Chiara Saraceno, sul
quotidiano la Repubblica dell’1 di aprile 2015: (…). L’occupazione maschile,
ricordiamolo, è stata la più colpita dalla crisi, passando da un tasso del
70,2% nel 2008 al 64,7% nel 2014, laddove per le donne si è passati dal 47,3%
del 2008 al 46,8% del 2014. Paradossalmente la crisi ha prodotto una riduzione
del gender gap nell’occupazione, non tramite un aumento dell’occupazione
femminile, ma a causa di una forte riduzione dell’occupazione maschile. Mentre
si è ulteriormente allontanato l’obiettivo europeo del raggiungimento del 70%
di occupazione femminile, anche gli uomini sono scesi al di sotto di quella
percentuale e faticano a tornare ai, non altissimi, livelli pre-crisi. Quanto
alle donne, se hanno mantenuto meglio le proprie, pur svantaggiate, posizioni
in termini percentuali, ne hanno perse in termini di sicurezza. È infatti
aumentato molto il part time involontario, non quello scelto come temporanea
strategia di conciliazione tra partecipazione al mercato del lavoro e
responsabilità famigliari in una società in cui la divisione del lavoro
famigliare tra uomini e donne rimane rigido e il sistema dei servizi
insufficiente e spesso costoso. È aumentato, cioè, il part time imposto dalle
aziende, specie nel terziario, come strumento di flessibilizzazione della
manodopera, a prescindere dai bisogni di questa, in termini vuoi di reddito,
vuoi di conciliazione. È aumentata anche la disoccupazione femminile (di sette
punti percentuali nell’ultimo anno, a fronte di una diminuzione di oltre il 2%
per gli uomini), perché più donne oggi si presentano nel mercato del lavoro
riducendo la percentuale delle inattive. Non si tratta solo di giovani
istruite, ma anche di donne di mezza età a bassa qualifica e con carichi
famigliari, che un tempo si sarebbero dedicate solo alla famiglia ed oggi
invece, spesso per far fronte alla perdita o alla riduzione dei salari
maschili, sono alla ricerca di una occupazione. Il dato della perdita di
occupazione femminile nel mese di febbraio (…) è il segnale della persistenza
delle difficoltà che le donne incontrano a entrare e rimanere nel mercato del
lavoro. Difficoltà che hanno a che fare con resistenze più o meno esplicite dei
datori di lavoro, aggravate, se non legittimate, dalle difficoltà a conciliare
responsabilità famigliari e lavoro remunerato. (…). Nel frattempo, il sistema
dei servizi per la prima infanzia, dopo i tagli drastici di questi anni, rimane
al palo, soprattutto dopo che il decreto, poi diventato disegno di legge, sulla
“buona scuola” — che conteneva il definitivo inserimento di nidi e scuola per
l’infanzia nel sistema scolastico nazionale come diritto di tutti i bambini e
un organico scolastico a sostegno del tempo pieno — sembra essersi perso per
strada e difficilmente potrà essere approvato in tempo per il nuovo anno
scolastico. E dei servizi per le persone non autosufficienti non si parla
proprio, lasciandoli alla responsabilità esclusiva delle famiglie, cioè spesso
delle donne. Il basso tasso di occupazione femminile è una delle cause
dell’alta incidenza di povertà nelle famiglie in Italia. Per aumentarlo non si
può contare solo sulla buona volontà delle donne. Occorrono politiche sia
imprenditoriali sia pubbliche intelligenti e non di corto respiro.
Da “Diritti,
la spallata arriva dal Jobs Act” di Mario Fezzi, su “il Fatto Quotidiano”
del 25 di febbraio 2015: (…). L’abrogazione sostanziale
dell’articolo18 (…) dovrebbe garantire la ripresa dell’occupazione e di tante
nuove assunzioni. Ma perché mai? Come è dimostrato da studi e ricerche, è solo
il trend positivo economico che può fare da incentivo alla ripresa delle
assunzioni. La situazione economica in apparente ripresa dovrebbe di per sé
determinare nuove assunzioni. E a questo dovrebbe aggiungersi l’effetto
positivo della decontribuzione dei contratti a tempo indeterminato del 2015
prevista dalla legge di Stabilità. Se ci sarà ripresa dell’occupazione, sarà
dunque per effetto di questi due fenomeni e non certo dell’eliminazione
dell’articolo18. (…). Difficilmente comprensibile poi è l’altra affermazione
del capo del governo secondo cui, con il nuovo schema di decreto sul riordino
delle tipologie contrattuali, si eliminerebbero la gran parte dei contratti
parasubordinati per convogliare tutti verso il contratto a tempo indeterminato.
In realtà i contratti di parasubordinazione restano tutti, eccezion fatta per
job-sharing e associazione in partecipazione, oltre ai contratti a progetto. E
non è stato minimamente toccato nemmeno il contratto a termine (…): come si
pensa di portare tutti nel contratto a tempo indeterminato se si mantiene un contratto
(quello appunto a termine) che rappresenta oggi l’80 per cento delle assunzioni
e che resta molto più conveniente per le imprese? Per quanto riguarda il
contratto a progetto poi, la sua abolizione, a partire dal gennaio 2016, è
stata presentata con le medesime suggestioni che avevano visto dodici anni fa,
l’eliminazione dei co.co.co. in favore dei co.co.pro. Ho sentito il presidente
del Consiglio e il suo ministro del Lavoro affermare che l’eliminazione per
legge dei co.co.pro. produrrà la scomparsa delle false collaborazioni e il
mantenimento solo delle genuine collaborazioni autonome. La stessa cosa era
infatti stata affermata nel 2003, all’entrata in vigore del decreto legislativo
276 che cancellava i co.co.co: e abbiamo visto tutti come i contratti a
progetto siano diventati rapidamente un numero incalcolabile. Allo stesso modo
è ampiamente prevedibile che la cancellazione dei co.co.pro. produrrà l’obbligo
per i lavoratori a progetto di dover aprire la partita Iva per mantenere una
sorta di rapporto di lavoro. A fianco di un aumento esponenziale di nuove
partite Iva, poi, si aggiungerà una reviviscenza massiccia del lavoro nero. Tornando
sul contratto a termine, c’è da notare che il decreto approvato prevede che il
superamento delle soglie previste per legge o per contratto non determini la
conversione del contratto in un rapporto a tempo indeterminato, ma venga
semplicemente applicata una sanzione amministrativa. È stato anche
sostanzialmente riscritto l’articolo 2094 del codice civile: dal gennaio 2016
le collaborazioni che si concretizzino in prestazioni di lavoro esclusivamente
personali, continuative, di contenuto ripetitivo e le cui modalità di
esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e
al luogo di lavoro, rientrano nella disciplina del rapporto di lavoro
subordinato. (…).
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