Da “Non si
gioca così coi dati solo per un tweet”, intervista di Carlo Di Foggia al
sociologo Luca Ricolfi (docente di “Analisi dei dati” presso l’Università di
Torino, animatore della “Fondazione Hume”, editorialista del quotidiano “Sole24Ore”)
pubblicata su “il Fatto Quotidiano” del 2 di aprile 2015: «Sì, mi sono accorto del
putiferio». (…). Lei ha parlato addirittura di “segnali di fumo” mandati dal
governo. «Perché c’erano numerose anomalie in quei dati comunicati alla stampa
da Poletti». Quali? «Mancava quasi tutto. I dati ufficiali sono trimestrali e
relativi a tutti i tipi di contratti e di settori, e inoltre includono anche le
cessazioni. I dati forniti dal ministro nei giorni scorsi, invece, ignorano le
cessazioni, sono al netto del lavoro domestico e della Pubblica amministrazione
e sono lacunosi (ci sono certi mesi dell’anno e non altri)». Com’è possibile
che un ministro arrivi a comunicare solo dati parziali, peraltro senza metterli
per iscritto? «Perché, come quasi tutti i politici, pensa che avere per un
giorno i titoli dei giornali faccia bene alla salute dell’anima e porti voti al
partito. Tanto poi se i dati sparati senza controllo vengono smentiti, quasi
nessuno si premura di dargli altrettanta visibilità».
Poletti ha mentito
deliberatamente? «Non credo vi sia alcun dolo, ma solo approssimazione,
sciatteria, superficialità e disorganizzazione degli uffici. Io immagino una
catena di comando di questo tipo (ma è solo una congettura): Renzi a Poletti:
“Mi trovi qualche dato di cui possa entusiasmarmi con un bel tweet?” Poletti ai
suoi: “Mi tirate fuori dall’archivio delle comunicazioni obbligatorie qualche
dato che faccia vedere che il Jobs Act funziona?” Funzionario agli informatici:
“Andate un po’ a vedere se i dati delle assunzioni di gennaio-febbraio 2015
sono meglio di quelli di gennaio-febbraio 2014”. Informatico: “Eureka, abbiamo
un incremento a doppia cifra!”. Fine della catena, il tweet di Renzi è
servito». È un problema di malafede, di propaganda o di incompetenza dei membri
del governo? «Si tratta di un mix di spocchia e di ingenuità: spocchia perché
si prende la gente per abbindolabile, ingenuità perché a nessuno dello staff di
Poletti è venuto in mente di chiedere all’Istat se per caso non stavano per
uscire dati che avrebbero fatto fare una brutta figura al ministro». Perché
molti grandi giornali (Repubblica, La Stampa, Corriere) sono così acquiescenti
con la pessima abitudine di “sparare” dati incompleti e piegare i numeri solo
per ottenere un beneficio immediato? «Perché la maggior parte dei giornalisti
non è in grado di valutare le statistiche, e la maggior parte dei quotidiani
italiani sono istintivamente prudenti verso il governo in carica, quale che sia
il suo colore politico. Ed è quello che sta avvenendo anche in questi mesi.
Quasi nessuno dei grandi giornali si erge davvero a cane da guardia del potere
e difficilmente la realtà emerge con chiarezza». Basta diffondere ottimismo
statistico per rassicurare l’opinione pubblica? «L’opinione pubblica,
sfortunatamente, è distratta e interessata a cose più frivole. Ed è facilissimo
farle credere quel che si vuole se la stampa non è severa e molto competente». Dai
dati di ieri si evince quello che si temeva: buona parte dei contratti sono
stabilizzazioni di contratti precari, e l’effetto rimbalzo è dovuto alla corsa
ai generosi incentivi. Il Jobs Act creerà davvero molti posti di lavoro, come
sostiene il governo? «Secondo me ne creerà pochi, e per poco tempo. Nel 2015
avremo una bolla occupazionale (perché l’incentivo scade il prossimo 31
dicembre), ma nel 2016 saremo daccapo. (…)».
Da “Jobs
Balls” di Marco Travaglio, su “il Fatto Quotidiano” del 2 di aprile 2015: (…). Dalla
legge Treu del 1997 alla legge 30 del 2003 (abusivamente attribuita a Marco
Biagi ormai defunto) alla legge Fornero del 2012, ci è sempre stata spacciata
l’equazione “più flessibilità uguale più posti di lavoro”. Intanto i posti di
lavoro scendevano perché c’era sempre meno lavoro da dare a lavoratori sempre
più flessibili, ma sempre più inutili: a causa dell’incapacità dei cosiddetti
manager delle aziende italiane, delle gimkane burocratico-fiscali, e della
crisi globale. La colpa di Renzi – l’abbiamo scritto fin dall’inizio – è stata
una sola: sbagliare completamente l’agenda delle priorità del suo governo,
facendosela dettare dalla Confindustria (dai cui diktat copiò il Jobs Act),
dalle solite bande d’affari (dai cui memorandum plagiò le controriforme del
Senato, della legge elettorale e della giustizia) e dalla propaganda elettorale
(i cosiddetti “80 euro”, che poi 80 non sono quasi per nessuno, costano 10
miliardi all’anno e non hanno smosso i consumi di uno zero virgola). Poi ha
creato attese messianiche, promettendo che le mirabolanti “riforme” (parola
magica che ha ormai assunto una vita propria, autodimostrandosi e
autoinverandosi a prescindere dal contenuto delle medesime) avrebbero “fatto
ripartire l’Italia”, portandola “fuori dalla crisi”: investimenti, occupazione,
crescita. (…). Nell’ultima settimana non c’era giorno né giornale né
telegiornale senza almeno un titolo sul “boom dei contratti stabili fra gennaio
e febbraio”, sui “79 mila nuovi posti fissi”, sull’Italia che “riscopre la
fiducia”, manco fossimo nei primi anni 60, con commenti strombettanti di
premier, ministri, sottosegretari e sottopancia sulla “svolta buona” e la “fine
della crisi”. Magari. (…). …nei primi due mesi dell’anno le aziende,
incentivate dai contributi statali – 8 mila euro per ciascun nuovo contratto a
tempo indeterminato – hanno stabilizzato un po’ di precari e assunto un po’ di
disoccupati prima che si esaurissero le riserve del bonus. Già sapendo che il
nuovo contratto a tempo indeterminato consente loro di arraffare gli 8 mila
euro ad assunto e poi di licenziarlo fra un anno senz’articolo 18. Quindi i
nuovi contratti “stabili” sono spesso ancor più precari di quelli ufficialmente
precari. Ma soprattutto il dato di 79 mila contratti finto-stabili fra gennaio
e febbraio (che poi si sono scoperti essere 45.703, in gran parte ex contratti
precari stabilizzati, non nuovi posti di lavoro), mancava del suo naturale
contraltare: quello dei lavoratori che, nello stesso bimestre, hanno perso il
lavoro. I giornaloni e i tg dell’ottimismo obbligatorio si erano scordati
giusto questo piccolo dettaglio: per vedere se l’occupazione cresce o cala,
devi contare sia chi il lavoro lo trova sia chi lo perde, e poi fare la somma.
Altrimenti è come stimare la popolazione annua contando solo i nati e
scordandosi i morti. L’altroieri l’Istat ha comunicato che a febbraio l’Italia
ha registrato 44 mila occupati in meno (perlopiù donne) e 23 mila disoccupati
in più (+0,7%) rispetto a gennaio. Così il tasso di disoccupazione sale al
12,7% (+0,2, con un +2,1 di disoccupati) rispetto a un anno fa, quando nacque
il governo Renzi. Da allora, mentre il premier e i trombettieri annunciavano
continuamente centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro, e i Farinetti e i
Velardi andavano in tv a vantare falangi di neoassunti grazie alle “riforme”,
l’Italia ne perdeva altri 67 mila: quasi 6 mila al mese e 200 al giorno. Non è
tutta colpa del Jobs Act, che è appena entrato in vigore. Ma è stato il
governo, cioè Renzi visto che parla solo lui, a spacciare le nuove assunzioni
come un effetto prodigioso della sua legge: ora che arriva il saldo finale
negativo, spetterebbe a lui ammettere che è anche colpa del Jobs Act. Lo farà?
C’è da dubitarne (…). Lui se l’aspettava, era tutto calcolato. (…).
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