Scrive Alfonso Gianni in “Capitalismo finanziario globale e
democrazia: la stretta finale” – pubblicato sul numero 29 della rivista “Alternative per il
Socialismo” -: La incompatibilità dell’attuale capitalismo con la democrazia è (…) conclamata
e spudoratamente dichiarata. Da qui non consegue affatto un’assenza di
politica, o il semplice primato dell’economia e della tecnica sulla politica,
come da qualche parte viene sostenuto, ma al contrario una ben precisa politica
fondata sì sul primato dell’economia, o meglio della finanza da un lato e
dall’impresa dall’altro, ma nei confronti del lavoro. Il neoliberismo non
avrebbe retto al crollo verticale di credibilità che si è manifestato in
particolare in quel lasso di tempo che va dall’autunno del 2008 a larga parte del 2009,
quando la crisi mondiale è esplosa in tutta la sua drammaticità evidente, se,
in particolare in Europa, non avesse preso corpo una teoria e una pratica
compiute dell’austerity, proiettata nei tempi lunghi – si pensi solo ai venti
anni che servirebbero all’Italia per rientrare sotto il 60% del rapporto
deficit/Pil secondo il Fiscal Compact – e connessa con controriforme
strutturali, quali la liquidazione degli istituti del welfare state e la totale
liberalizzazione e precarizzazione del mercato del lavoro. Questo era
necessario e vitale per il sistema capitalistico per contrastare la diminuzione
del tasso di crescita e dei profitti e quindi aprire una nuova fase di
accumulazione, che non poteva che derivare dalla cancellazione degli spazi
economici pubblici – e con essi dei diritti al soddisfacimento gratuito dei
bisogni dei cittadini – per aprirli all’intervento del capitale finanziario. (…).Fine
della lunga, lunghissima citazione. Che ha il pregio di mettere a fuoco quegli
aspetti della “crisi” che artatamente, scientemente vengono sottaciuti se non nascosti alla
pubblica opinione. Almeno la più avvertita. Ché il resto di quella pubblica
opinione disdegna addentrarsi nei pensieri più complessi avendo pesantemente
subito quella “scarnificazione” del pensiero che è stato il miracolo primo,
il capolavoro, dell’attuale fase del capitalismo finanziario. Scrive infatti
Alfonso Gianni che (…). …la vittoria più significativa della classe padronale, (…), sta
nell’avere annichilito il suo avversario – (…) -, nell’avergli tolto la
coscienza di sé, nell’avere rimesso in discussione la stessa natura di classe
in sé, attraverso il fenomeno della precarizzazione, della cattura delle forme
di partecipazione anche inconsapevoli al ciclo della formazione del valore,
della tendenziale utilizzazione di ogni attività umana nella realizzazione del
profitto, della totale mercificazione, come ad esempio l’intrattenimento che
non ha più solo la funzione di legittimazione e di consenso del e al sistema,
ma una direttamente economica e profittevole. E per rimanere sul
terreno delle cose che avvengono nel bel paese l’Autore sostiene: Non è
un caso che l’attacco al cuore della nostra Costituzione sia quello rivolto ai
suoi Principi Fondamentali e alla Parte I, in particolare laddove si regolano i
Rapporti Economici. Infatti la democrazia nella modernità esiste in quanto si
riconosce non solo la distinzione ma la contrapposizione di diversi interessi e
di almeno due soggetti – il capitale e il lavoro – e la necessità che la loro
lotta non porti alla comune rovina della società civile. Se si nega in assunto
questa dualità si erode il principio e la necessità della democrazia stessa. Per
questa ragione la sua difesa non può prescindere dalla conoscenza e dalla
critica a ciò che avviene nell’organizzazione materiale e produttiva. (…).
Conoscenza e critica che non appartengono, più in misura diffusa, alla
stragrande maggioranza della opinione pubblica che, seppur nuovamente e
pesantemente proletarizzata, continua a comportarsi come quella categoria
sociale individuata dall’uomo di Treviri e che egli definì “lumpenproletariat”, categoria
e non più “classe” ridotta a vivere senza “la coscienza di sé”. Ho
letto sul numero del settimanale “D” del 23 di novembre l’ultima corrispondenza
di Federico Rampini che ha per titolo “La
grande mela divisa tra ricchi e poveri”. Scrive l’illustre opinionista: Proprio a fianco del prestigioso
Stern Building, sempre sulla 109esima, ci sono le case popolari gestite dalla
Hope Community, una ong non-profit che cerca di aiutare i più poveri. A pochi
metri da chi abita in appartamenti del valore di molti milioni, ogni mercoledì,
giovedì, venerdì e sabato la Common Pantry distribuisce frutta e verdura ai
senzatetto e ai tanti "denutriti o malnutriti" di East Harlem. Creata
nel 1980, la Common Pantry è arrivata a servire pasti gratuiti fino a 25mila
persone. Le file alla Common Pantry (…), si stanno facendo di giorno in giorno
più lunghe. Dal primo novembre, infatti, per una scelta dei repubblicani al
Congresso, sono stati tagliati drasticamente i "food stamps" o
buoni-pasto dell'assistenza pubblica federale. Molte famiglie che dipendevano
da quei buoni-pasto per arrivare a fine mese, ora si accalcano alla
distribuzione gratuita della Common Pantry. La domanda di alimenti alle code
dei poveri è cresciuta del 20%. La scena della distribuzione di cibo, a pochi
metri dai palazzi di lusso con piscine e fitness, è una sintesi di ciò che ha
preparato la vittoria elettorale del nostro nuovo sindaco. (…). Tra la fine
dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, New York sotto l'influenza di politici
riformatori, volle costruire dei settlements, o insediamenti, che portassero a
vivere gli studenti di buona famiglia e la nuova borghesia nelle vicinanze dei
ghetti per immigrati. I settlements dovevano mescolare i ceti sociali, favorire
la reciproca comprensione e integrazione. Oggi certe diseguaglianze estreme di
New York ci riportano al primo Novecento, se non proprio ai tempi di Dickens.
Uno dei programmi della Common Pantry oltre a sfamare i poveri di East Harlem
vuole offrire igiene, alloggio, assistenza medica. Si chiama Project Dignity. È
singolare che la dignità di una parte dei newyorchesi debba dipendere dalla
carità di quell'altra città. La corrispondenza di Federico Rampini,
come sempre ripulita dai “fronzoli” e pertanto diretta ed
intellegibile per chiunque, come è avvenuto per altri momenti del Suo lavoro di
acuto ed attento osservatore, apre su quegli scenari che, seppur anticipati in
quella società multietnica, saranno a breve gli scenari che milioni e milioni
di altri esseri umani vivranno direttamente sulla loro pelle.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
giovedì 28 novembre 2013
martedì 26 novembre 2013
Cosecosì. 63 "Terra dei fuochi".
“Sono nipote di un uomo
che, presentendo che la morte lo attendeva all’ospedale dove lo stavano
portando, scese nell’orto e andò a dire addio agli alberi che aveva piantato e
curato, piangendo e abbracciando ognuno di essi, come se di esseri amati si
fosse trattato. Quell’uomo era un semplice pastore, un contadino analfabeta,
non un intellettuale, non un artista, non una persona colta e sofisticata che
decideva di lasciare questo mondo con un grande gesto che la posterità avrebbe
ricordato. Si sarebbe detto che stava salutando ciò che fino a
quel momento era stato di sua proprietà, ma di sua proprietà erano anche gli
animali che gli davano da vivere e lui non andò da loro per salutarli. Si
accomiatò dalla famiglia e dagli alberi come se per lui fosse stato tutto la
sua famiglia. (…). Non saprò mai cosa mosse lo spirito di mio nonno in quell’ora estrema,
cosa pensò e provò, quale chiamata urgente guidò i suoi passi insicuri fino
agli alberi che lo aspettavano. Forse sapeva che gli alberi non possono
muoversi, che sono legati alla terra dalle radici e che da queste non possono
separarsi, se non per morire. (…). Difendere gli alberi è difendere la Terra.
Mio nonno lo sapeva e non sapeva né leggere né scrivere. Un vecchio analfabeta mi
ha dato la migliore delle lezioni. Qui ve la offro, se la riterrete giusta e
umana. (…)”. Tratto da “Quel
vecchio uomo che abbracciava gli alberi“, di José Saramago. Ricevo e
posto di seguito la lirica pervenutami dall’amico Giovanni Torres La torre.
Terra dei fuochi.
I
Quale altro cielo tenterà
l’aquilone
tra fumi pestiferi che sporcano
ali d’uccelli
calura di morte che scioglie le
cere di Icaro
in questo autunno quando migrano
nel giro consueto delle stagioni
sorvolando questa parte di
inferno
nella terra un tempo felice?
Quali altre zolle
cercheranno le cicale e le
formiche
e che amori le fanciulle
e quali prati per correre i
bambini superstiti
e i padri nel vederli crescere
e i contadini per piantare e
spiantare
e raccogliere i frutti del loro
lavoro?
Quali future primavere
inviteranno farfalle ballerine
a posarsi su fiori avvelenati
e quale miele innamorerà ancora
la bocca della giovinezza
nella Terra dei fuochi?
II
Di quale mondo abbiamo memoria
e di quali paesaggi della
Campania Felix
nel rimpianto della parola che fu
di Plinio il Vecchio
per le terre coltivate
dall’antica sapienza contadina
e
bellezza del paesaggio
che un tempo generoso aveva
depositato
nell’anima nella carne e nelle
pietre
di quel mondo oramai leggenda?
E perché altri uomini di fango
e malefici ingegni
hanno devastato avvelenandola
la memoria dei luoghi
il suolo l’aria le acque
il seno delle madri
il sorriso dei bambini?
III
Quali armonie resteranno
di canti suoni e dialetti
per dire la maledizione e lo
sgomento degli antenati
di pagine di scrittura e regole
grammaticali
di belle parole dei maestri della
perduta infanzia?
e quali libri di scienze ed erbe
medicinali
che hanno guarito passioni di
conoscenza e ferite
fatiche di uomini e armenti
in questa terra ora impestata
dagli untori?
e quali ritratti di santi
cercheranno ancora devozione
ai bordi degli specchi della vita
che presi dal cancro sfarinano
nell’argento che muore?
IV
Bastimenti di morte
scendevano da Nord a Sud
per inondare di fiele
le terre della Campania
con la complicità di tanti
municipi
deputati senatori governatori e
prefetti
tutori della Legge
in grande parte muti per viltà
indifferenti al dolore delle madri
e alle pene delle piccole vittime
dei padri e delle famiglie
martoriate
sordi al suono delle campane
ciechi all’inchiostro di giudici
giornalisti sindaci
medici e scrittori.
V
Luna visionaria che continua il
suo viaggio
nei cieli appestati della Terra
dei fuochi
stanca e dolente per il lutto
alle porte delle case
e i nomi che escono nei lamenti
delle madri
coi ritratti nell’addio alla vita
fresco di inchiostro
che lasciano senza promessa di
tornare.
Luna del funesto chiarore
nella notte dei briganti della
camorra
delle persiane chiuse nel fondo
della notte
e malandrina
quando albeggia
alle balaustre di tanti municipi
ove sbiancano le belle bandiere
nella vergogna del silenzio
mentre garriscono a Casal di
Principe
e altre ancora per miracolo che
si ripete
nel petto dei superstiti
nei cortei e nei viaggi funebri
d’ogni giorno.
giovedì 21 novembre 2013
Quellichelasinistra. 3 Tupamaros: la felicità al potere.
“Quellichelasinistra”.
Quelli che non erano “di”. Quelli che non stavano “a”.
“Quellichelasinistra”
che stavano con i “tupamaros”. “Quellichelasinistra” l’avevano
nel cuore. Ha scritto Riccardo Staglianò su “il Venerdì di Repubblica” dell’8
di novembre nel Suo straordinario reportage che ha per titolo “La felicità al potere. Intervista a José
Mujica”: …la scuola dei Tupamaros sembra non aver partorito leader rancorosi.
Eleuterio Fernández Huidobro, altro internato di Punta Carretas e oggi ministro
della Difesa, della forza del presidente fornisce un riassunto assoluto: «Pepe
pensa come Aristotele ma parla come Juan Pueblo»; il nostro Mario Rossi. Se
Mario Rossi parlasse come Pasolini. (…). Perché romantico resta, eccome. (…). Afferma
il Presidente: «Erano i tempi del socialismo scientifico, dell'ambizione di capire
quale fosse il disco fisso dell'animale uomo. Che resta, essenzialmente, un
animale utopico, nel senso che ha sempre bisogno di qualcosa in cui credere,
perché se non ci si innamora di qualcosa non ha senso alzarsi tutte le mattine
e continuare a lottare». Quando “quellichelasinistra” avevano un
sogno grande così. Che sta tutto nella Sua storia che Riccardo Staglianò
brevemente tratteggia: Dai primi anni Sessanta fa parte dei
Tupamaros, un movimento di lotta armata che si muove sull'onda della
rivoluzione cubana. Lo arrestano quattro volte. Gli mettono sei pallottole in
corpo. Organizza la più massiccia evasione della storia, così almeno la raccontano
i sudamericani, facendo uscire 106 persone grazie a un rocambolesco scavo di
tunnel. Quando lo riacciuffano seppelliscono vivi lui e gli altri otto
principali leader del movimento. Al primo passo falso dei compañeros fuori,
uccideranno uno dei «nove ostaggi» dentro. Dopo tre anni gli consentono di
ricevere libri. Lui chiede testi di matematica e Chacra, una rivista di
agraria. Reni e vescica però non reggono. I medici prescrivono due litri
d'acqua al giorno, i secondini gliene concedono una tazza. Sua madre gli porta
un vaso da notte rosa, ultima spiaggia dell'emergenza liquidi. Beve la sua
pipì. Quando nell'85 finisce la dittatura militare e li liberano lo brandisce
come un talismano, pieno di margheritine. Dai diamanti non nasce niente.
I “tupamaros”
chi? Avevo scritto in un mio post precedente – “Quelli che erano di sendero luminoso” -: E dei “Tupamaros”? Cosa ne è
stato dei “Tupamaros”? E di
Monsignor Camara? E di Monsignor Romero? E di Leonardo Boff? La Storia, la
Storia grande, non ha concessioni da fare agli umiliati ed ai perdenti di
sempre. “…el pueblo unido jamas serà
vencido…”. Sarà vero? Ne dubito assai. È che divento sempre più vecchio e
quindi sempre più disilluso. E come per un incanto, dalle nebbie fitte
della Storia, è come il tornare in vita di quelle schiere d’esseri umani che
hanno nel loro piccolo mondo tentato di cambiare il corso della Storia del
mondo più vasto. E si materializzano i “tupamaros”, non vinti ma vincitori,
nella straordinaria figura di José Pepe Mujica, che la stampa del pianeta, avvertita,
è come se lo restituisse non alla memoria ma alla vita. Come se avesse
viaggiato nell’aldilà e si fosse materializzato ai tempi scuri che ci è toccato
di vivere. Scrive del “Presidente” Riccardo Staglianò: Lui, José «Pepe» Mujica, è
felicissimo anche rinunciando al 90 per cento del suo stipendio presidenziale. (…).
Nel '95 è il primo ex tupamaro a essere eletto in Parlamento. Poi diventa
senatore. Poi ministro dell’Agricoltura. Infine, nel novembre 2009, presidente
con il 52 per cento dei voti (slogan: «Un governo onesto. Un Paese di prima
classe»). È cambiato tutto, tranne l'uomo. E la casa, di una cinquantina di
metri quadrati, in cui vive con la moglie e che preferisce alla residenza
presidenziale. È nel soggiorno, davanti a un tavolinetto su cui è quasi
impossibile prendere appunti tanto è angusto e stracolmo di carte e libri, che
si svolge l'intervista. (…). Dei novemila euro cui avrebbe diritto come
appannaggio mensile, Mujica ne prende 900 e dà il resto in programmi di microcredito.
(…). «Perché lo fa?». (…). «La mia idea di vita è la sobrietà. Concetto ben
diverso da austerità, termine che avete prostituito in Europa, tagliando tutto
e lasciando la gente senza lavoro. Io consumo il necessario ma non accetto lo
spreco. Perché quando compro qualcosa non la compro con i soldi, ma con il
tempo della mia vita che è servito per guadagnarli. E il tempo della vita è un
bene nei confronti del quale bisogna essere avari. Bisogna conservarlo per le
cose che ci piacciono e ci motivano. Questo tempo per se stessi io lo chiamo
libertà. E se vuoi essere libero devi essere sobrio nei consumi. L'alternativa
è farti schiavizzare dal lavoro per permetterti consumi cospicui, che però ti
tolgono il tempo per vivere». (…). «Lo spreco è funzionale all’accumulazione
capitalista», che (…) «ha bisogno che compriamo di continuo, ci indebitiamo
fino alla morte». (…). Annota Staglianò: …quando parla di ridurre la
diseguaglianza economica, tendi a crederci. Perché non lo dice, lo fa. Potrebbe
stare nel castello, preferisce questa camera e cucina e dare il resto a chi non
ha neanche quello. (…). «Se si dimezzassero i 2000 miliardi di dollari per
spese militari si cancellerebbe la fame dal mondo. I mezzi ci sono, li
spendiamo male». (…). «Si parla da 20 anni di Tobin Tax, sulle transazioni
finanziarie? Per Wall Street cambierebbe poco, tantissimo invece per il welfare
in crisi ovunque: perché non si fa?». (…). Anche papa Francesco ha conosciuto:
«Un gran personaggio. Condividiamo la sobrietà. Se lo lasciano fare potrebbe
riportare la Chiesa a una vocazione più popolare». (…). È convinto che …la
differenza tra destra e sinistra è proprio che quest'ultima dovrebbe avere
«come priorità la fratellanza, ridurre le differenze economiche, e quindi
sociali» (…). Sarà mica socialista? «La sinistra, (…), la dividerei in tre
fette: i nostalgici, che dicono le stesse cose di 50 anni fa, quelli totalmente
in linea col mercato e infine quelli, come me, che ne riconoscono
l'indispensabilità, ma lo criticano per migliorarlo. Perché io so bene che il
capitalismo serve a produrre ricchezza, quindi tasse, buone per i servizi di
cui anche i poveri si avvantaggiano. E so anche, come non capivo invece qualche
decennio fa, che non ha senso sacrificare una generazione promettendo la felicità
per quella successiva. A quest'idea rivoluzionaria, che ha avuto il sopravvento
a Cuba e altrove, preferisco una via più gradualista che non perda di vista che
la partita si deve vincere adesso, in questa vita». (…). Ed il cambio
di strategia sembra proprio al passo col tempo. Non punta alla dittatura del
proletariato. (…). «Uno è molto più felice se è il capo di se stesso. E abbiamo
centinaia di esempi, come Envidrio, una vetreria gestita dagli ex dipendenti
che va benissimo. Serve un cambiamento culturale per far questo, ma dà
risultati duraturi. Non com'è successo nell'ex Unione sovietica, passata dallo
statalismo agli oligarchi». (…). …lui scommette su un umanesimo nuovo. Che ha
qualcosa della «decrescita felice» («Sì, ho letto Latouche, ma mi influenzano
di più i classici: i problemi dell'uomo sono da sempre gli stessi») (…). Perché
«la politica è l'arte di organizzare il futuro, senza subirlo come se fosse il
terremoto». (…). …dice che «la vita è breve, ci scappa dalle mani, e nessun
bene materiale vale altrettanto: capire questo è fondamentale» e all'ascoltatore
avvertito scorre davanti il film della vita di questo Mandela sudamericano che,
come il sudafricano, non ha sviluppato sentimenti di vendetta durante la sua
tremenda prigionia. Un Uomo così straordinario, un uomo di 78 anni,
quale messaggio può dare agli uomini disorientati di questo millennio? Ha
scritto Nadia Urbinati sul quotidiano la Repubblica del 7 di novembre – “I doveri della sinistra” -: Come
si può pensare di fare a meno della Sinistra in una società nella quale il
tasso di disoccupazione ha superato il 12 per cento, la soglia di povertà è
sempre più alta, e il senso di impotenza dei giovani e meno giovani ha effetti
deprimenti sull`intera società? (…). …le sorti possono cambiare (…). Possono
cambiare se sappiamo spiegare di chi sono le responsabilità di questa crisi
devastante: sono della Destra non della Sinistra, del giacobinismo liberistico
che ha conquistato il palazzo d`Inverno prima a Londra e a Washington per poi
mettere al bando in pochi anni la social-democrazia del vecchio Continente e
dimostrare che al benessere diffuso si arrivava meglio e prima scatenando il
capitale invece di responsabilizzarlo e regolarlo. Si tratta ora di deviare da
questo percorso: la sfida non è facile, ma non utopistica (…). Certo, ci vuole
coraggio. Il coraggio di quest’Uomo di 78 anni. Il coraggio e le grandi
“utopie”
di quelli che furono i “tupamaros”
che ancor oggi stanno tra di noi. Per indicarci chi sono “quellichelasinistra”.
Che non sono “di”, che non stanno “a”.
martedì 19 novembre 2013
Eventi. 13 Leggere “Le isole vagabonde”.
Avviene sempre, allorquando si
intraprenda una lettura nuova, che ricordi e sensazioni tornino ad affollare la
mente e lo spirito del lettore. E così è accaduto sin dal primo approccio con
la nuova fatica letteraria del professor Giuseppe Sicari – “Le isole vagabonde”, Pungitopo Editore (2013), pagg. 133, € 12 -.
Poiché la fortuna di un libro, la sua stessa sopravvivenza e la ragione del suo
esistere sono legate a sottili, quasi invisibili fili che, come iridescenti
ragnatele, ne incapsulano l’apparire - preceduto spesso da attesa ansiosa – ed
il suo successivo percorso. Così è stato per “Le isole vagabonde” come per le precedenti pubblicazioni di
Giuseppe Sicari. E tra i ricordi e le sensazioni suscitati sin dai primi
approcci mi è tornato alla mente quanto il grande Umberto Eco fa dire al Suo
Guglielmo da Baskerville in quell’opera somma che è “Il nome della rosa”: Il bene di un libro sta nell'essere letto.
Un libro è fatto di segni che parlano di altri segni, i quali a loro volta
parlano delle cose. Senza un occhio che lo legga, un libro reca segni che non
producono concetti, e quindi è muto. Ed è bene che “Le isole vagabonde” venga letto. Ed i “segni” che il libro di
Sicari contiene sono tanti, tantissimi, ché appare quasi difficile
districarsene alla prima lettura. Poi tutto si appiana. E le prime sensazioni
che la scrittura di Sicari suscita portano a pensare alle vicende dell’ebreo
Prospero Mussumeci, ventiseienne ebreo e medico, come grande metafora delle
cose della vita degli umani. Come se dietro i “segni” storici ed
inequivocabili che l’opera di Sicari contiene e propone si volesse alludere ad
un qualcosa di più grande, di più universale, di trascendentale quasi, come un
qualcosa che l’Autore per celia volesse tenere in serbo per sé e non disvelare,
affidando alla fortuna futura del libro l’eventualità che quei “segni”
superiori venissero alfine rivelati. E preso così, sin dal primo
approccio con l’opera nuova, dalla ricerca di quei “segni” nascosti, per
comprenderne a pieno il messaggio che sta tra trama ed ordito, mi è venuto da
pensare al londinese John Donne (1572 – 1631) – che è stato un poeta e
religioso inglese - che nel Suo sermone “Nessun
uomo è un'isola” ebbe a dire: Nessun uomo è un'Isola, intero in se stesso.
Ogni uomo è un pezzo del Continente, una parte della Terra. Se una Zolla viene portata
via dall'onda del Mare, la Terra ne è diminuita, come se un Promontorio fosse
stato al suo posto, o una Magione amica o la tua stessa Casa. L’arcano
dei “segni”
nascosti è rivelato alla pagina 30 dell’opera di Sicari. E l’opera di disvelare
l’illustre Autore l’affida a Rosario
Paternò – detto “Sarino” -, il suo “bordonaro” che, etimologicamente
parlando, è il “buddunaru” che deriva dalla lingua primigenia della città
dello Stretto, da quel quartiere della città di Messina situato nella vallata
del torrente Bordonaro, per l’appunto, oggigiorno invisibile agli occhi dei
visitatori poiché convenientemente ricoperto da un manto stradale. E "burdunaru"
è sinonimo di "mulattiere", di "conduttore di animali da soma",
di colui insomma che, ben ripagato, conduce e cura, mantiene e custodisce i cosiddetti
“bardotti", ovvero gli ibridi concepiti dall'incrocio di un'asina con un
cavallo che, all’epoca dei fatti narrati da Sicari, solevano essere le
cavalcature utilizzate per lunghi viaggi. E Sicari a “Sarino” il “bordonaro”,
all’indirizzo del medico ebreo Mussumeci, che conduce per monti e valli, fa
dire: Nun si facissi ‘ncantari, dotturi! Chiddi su’ isuli fatati, oj ccà,
dumani ddà, camminanu e camminanu e nun si fermanu mai. Sunnu isuli vagabunni. E
l’angoscia dei “segni” da rinvenire s’allenta alle parole del mulattiere. Isole
come isole, “isole vagabonde” e non già metafore esistenziali. E la
fantasia corre sfrenata nel corso della lettura. E la magia della lettura rende
immagini, suoni, profumi e quant’altro la meravigliosa terra di Sicilia serba
nella sua storia, nei suoi ruderi oramai cadenti, nelle parole dei suoi abitanti che, nell’opera di Sicari,
diventano come un canto corale, e che sembrano esplodere quasi – almeno per chi
non abbia a frequentarne i luoghi con assiduità – come rivelazioni nuove di uno
spirito greve e leggero al contempo. E come un susseguirsi di colori ed
immagini irreali in un caleidoscopio così nell’opera nuova le “voci
siciliane” s’inseguono e si perdono negli spazi che l’agile fantasia
dell’Autore magistralmente rende anche all’inconsapevole lettore. Ed ecco
apparire la “burnia”, ascoltare i “bazzarioti” incontrati per le
strade del tempo, scambiarsi “salamilicchi e cicirimoddi”, “allicchettarsi”
secondo le convenienze, maledire gli inconvenienti del lungo viaggio nella più
tipica delle espressioni del luogo “ahi, ahi chi malanova mi vinni!”.
Per non dire poi delle parole proprie di quella civiltà contadina che,
nell’anno 1470, anno della storia narrata, facevano da collante nella vita
quotidiana. Ed ecco restituiti a nuova vita dall’Autore “’u bummulu”, ed “’u
tabuto”, e la “putìa”, ed i “guaddarusi”, e li “vastasi”, e la “simenza” ché, per quella
straordinaria civiltà legata alla terra, non stanno per i comuni semi ma per le
minutissime uova dei bachi da seta. Una ricerca storico-lessicale che fa
dell’opera nuova di Giuseppe Sicari una straordinaria antologia da leggere con
inusitato trasporto. E che dire ancora, ché sembra di risentirne il magico
suono, dei “ciancianedde”; e dei “babbasuni” che nella storia d’ogni
tempo hanno rappresentato l’anima buona e più sprovveduta di una larga fetta
del genere umano? Ché sembra ancora di sentire “banniare” per valli e
contrade quelli che al tempo della storia avevano compito di pubblicizzare e
reclamizzare. E l’occhio attento ed esperto dell’Autore, al pari del più abile
degli investigatori, scandaglia vita, costumi e costumanze di un mondo che la
magia della scrittura ci rende a piene mani. Bozzetti di vita ché pare di
risentire, risa e canti, nenie e ballate che ancor oggi, per la magia del
leggere, sembrano percorrere contrade e borghi dei luoghi toccati dal viaggiare
dell’ebreo Mussumeci, medico. Bozzetti di vita che l’abile Autore cesella con
l’arte matura d’un orafo. Bozzetti di credenze o di credulità di civiltà
contadina laddove l’ebreo medico incontra la “dutturissa”, al secolo “donna
Rosa ‘a Jalatisa”, alle prese con parassiti intestinali di una bambina
del tempo: “Luti cannaruti, senza manu e senza pedi, lassati li budeddi di ‘sta
criatura e tutti abbasciu vinni jiti e nun turnati”. È la rivisitazione
di un’antropologia contadina che rende, alla novella opera di Sicari, un
carattere “documentaristico-narrativo” d’inestimabile valore. È un esplodere di
figure e di situazioni imprevedibili e nuove che rendono al meglio la vitalità,
se non la carnalità, dei luoghi e delle figure umane che ne riempiono gli
spazi. Figure che sopravvivono al tempo e che sembrano ancor oggi abitare i
luoghi della storia che ci è magistralmente raccontata. “Peppi Marmanicu”, “Cicciu
Menzapicicia”, “Turi Cartafausa” e “Micu
Sucafrittuli”, per i quali personaggi il Nostro, amorevolmente, si
spinge a rivelarne le caratteristiche fisiche e d’umanità, laddove scrive che “Marmanicu
vuol dire strambo, svitato, pazzerellone, Menzapicicia allude al suo pene di
piccole dimensioni, Cartafausa è detto così perché è un piccolo imbroglione,
mentre l’epiteto di Micu allude alla predilezione per i ciccioli fritti di
maiale”. Straordinarie figure che il medico viaggiatore Prospero
Mussumeci incontra nella taverna di “’gnura Cuncetta”, l’ostessa, “un
fimminuni barbuto, muscoloso e alto otto palmi abbondanti”, nel piccolo
borgo del Capo d’Orlando, ove giunge dopo aver “firriato la Lecca e la Merca”,
ovvero i paesotti di Naso e di Ficarra, luogo il Capo d’Orlando ove gli vengono
elogiati i sopraffini piatti della taverna: Corpu di l’ariu! Mi vi pigghia un
sintomu maligno e ‘na malanova! Haiu lu piscistoccu supra lu focu e puru lu
sucu pri li maccarruni! N’auta vota! Dutturi, vi piaci lu piscistoccu alla
gghiotta? E li maccarruni di casa? Lu sentiti lu ciaru? Ché sembra
proprio di sentirne l’olezzo che sa d’unto quanto basta per renderlo
indimenticabile. Ché l’opera nuova di Giuseppe Sicari è anche rivisitazione di
percorsi, di memorie e di ricordi laddove registra, forte della memoria del
dottor Mussumeci, che “il castello e il territorio del Capo
d’Orlando fanno parte della baronia di Naso che ho visitato il mese passato. Il
profilo dell’estremità rilevata del promontorio ricorda, soprattutto per chi
arriva dal mare, la ben più maestosa rocca di Cefalù. Per questo gli invasori
arabi avevano chiamato questo luogo
Gafludi as Sugrà, la piccola Cefalù. L’attuale denominazione, invece, è
legata alla leggendaria figura di un paladino del re di Francia, Rolando, detto
anche Orlando”. E poi San Marco e San Filadelfio. Un viaggiare che è un’avventura
di storia, di luoghi, di odori e di sapori, di luci e colori. Ed i personaggi a
turno s’affacciano su di un palcoscenico che è maestoso e che è la terra di
Sicilia. È che in quel girovagare, verso un luogo che fosse soprattutto di pace,
l’ultima stazione segnata è quella di Alicata. Un luogo ove i “segni”
– seppur nascosti o non visti - della storia narrata si ricompongono tutti e
consentono all’Autore di sostenere, a proposito del girovagare del Prospero
Mussumeci, medico ed ebreo, che “forse, (…), ha finalmente trovato un
passaggio per le ‘sue’ isole e vi si è diretto senza perdere altro tempo. Non
lo biasimo, dunque, anzi! Sì, perché l’importante è questo: arrivare prima o
poi all’isola che abbiamo cercato per tutta la vita, si chiami Dindima o
Pasqua,Tahiti o Sant’Elena. Spesso, poi, non si trova agli antipodi, ma a poche
bracciate dal luogo dove stiamo e da dove l’abbiamo sempre agognata”. I
“segni”,
nella storia, ci stavano tutti.
domenica 17 novembre 2013
Cronachebarbare. 27 “Il paese di chi la spara più grossa”.
Rimaniamo sull’indecente tema “la
politica vola basso”. Un tema che non ha mai attirato e trovato l’attenzione
dei più. Donde, nessuna presa di posizione tale da invertire l’invereconda
prassi. Decaduto, in apparenza, il tema della “decadenza” del signor B.
ne è subentrato prontamente un altro con protagonisti diversi ma con la stessa
spocchia di chi sa di detenere il potere. Il tema corrente di questi giorni è
legato all’ambascia “dimissioni sì”/“dimissioni no” di un molto caritatevole
ministro della giustizia. Nessuno che le possa rimproverare il suo vezzo
caritatevole. Le si rimprovera l’inopportunità di certe sue iniziative che
hanno travalicato e mortificato il ruolo pubblico ed istituzionale per
ricondurre il tutto ad una questione non umanitaria ma familistica. In questo
disarmante ed allarmante scenario ogni qualsivoglia atto della politica nel bel
paese diviene un “volare basso” che non arreca benessere e serenità alla
comunità tutta, bensì ad una parte ben individuata di essa. E questo “volare
basso” investe tutti gli aspetti della vita politica ed istituzionale.
Lo ha ben specificato Antonio Padellaro su “il Fatto Quotidiano” di oggi con un
editoriale che ha per titolo “Il paese
di chi la spara più grossa”: (…). …la politica italiana è ormai un
incessante atto di fede. Prendiamo il ministro Cancellieri che spiega le
continue telefonate ad Antonino Ligresti nei giorni in cui altri tre Ligresti
finivano in galera “per consigli su problemi di salute miei e dei miei
familiari”. Come dubitare, del resto, delle parole di un Guardasigilli? E che
dire dell’ultima strepitosa profezia di Enrico Letta-Palle d’acciaio: “La
ripresa dell’Italia è a portata di mano, anche se ancora i segnali non sono
visibili”. Più che un premier sembra uno studioso di scienze occulte. Gli
italiani, naturalmente, neanche più ascoltano questa fantasmagorica alluvione
di giuramenti ingannevoli, promesse immaginarie e previsioni avventate. E per i
superstiti spettatori dei talk show televisivi, spesso l’unico divertimento
consiste nel vedere chi la spara più grossa. Quando politici e politicanti
scopriranno che tutto questo parlarsi addosso tra le macerie non serve a niente
sarà sempre tardi. (…). Un dubbio persiste: che veramente gli italiani
non ascoltino più “questa fantasmagorica alluvione di giuramenti ingannevoli, promesse
immaginarie e previsioni avventate”? Veniamo da un ventennio di
proclami e di false promesse ed a leggere le vicende degli ultimi anni della
politica del bel paese non si può certo dire che i millantatori siano stati
puniti per aver venduto fumo. E del resto, anche chi avrebbe dovuto combattere
senza tregua illusionisti e millantatori di professione alla fine si è
accordato con essi per una conduzione condivisa della cosa pubblica. Giustificandosi
dietro lo schermo della necessità. Della eccezionalità. Per la qual cosa chi
avrebbe dovuto contrastare i venditori di fumo si sono invece impegnati ad acquisirne
le più segrete strategie. Ed è da dire – visti i risultati - che i discepoli
non fanno sfigurare i maestri. Un significativo ed esaustivo campionario nello
sport divenuto nazionale a “chi la spara più grossa” lo ha
proposto Marco Palombi, sempre su “il Fatto Quotidiano”, del giorno 16 di
novembre col titolo “Conti a posto”: le
balle d’acciaio”. Balle
raccontate ad ogni pie’ sospinto dal premier in carica. Di seguito si propone,
nella sua interezza, l’interessante campionario.
Il debutto. “Dal tour europeo
sono tornato con qualche elemento fiducia in più: ho detto che l’Italia non
vuole sbracare, vuole mantenere gli impegni, ma non possiamo più accettare che
l’Europa sia solo tagli, tasse e austerità”. (5 maggio)
L’ottimismo. “Sono fiducioso che
l’Ue coglierà gli sforzi che l’Italia sta facendo per rimanere virtuosa”. (17
maggio)
Serietà. “L’Italia è un Paese
serio e un Paese serio prende degli impegni e li mantiene, a cominciare da
quelli sulle politiche per la crescita. Ma senza fare nuovi debiti e senza
scaricare sui nostri figli le scelte sbagliate”. (18 giugno)
Ciclismo. “Nei prossimi 18 mesi
avremo tre fasi: la prima, quella attuale, è la più difficile ed è il gran
premio della montagna. La seconda, a fine anno, sarà il falso piano e, infine,
nel 2014 avremo la discesa”. (25 giugno)
Pie illusioni/1. “Parte una nuova
fase: i sacrifici fatti al momento giusto, perché avevamo fatto troppi debiti
in passato, e le scelte dei governi precedenti confermate da noi hanno
consentito di uscire dalla procedura di deficit eccessivo e di avere un premio
importante: maggiore flessibilità sul bilancio 2014 che ci consentirà di fare
investimenti produttivi”. (3 luglio)
Pie illusioni/2. “L’Europa premia
chi si impegna: è un bel messaggio per i cittadini europei e per l’Italia che
si è impegnata e oggi ha il suo premio”. (3 luglio)
Visioni. “I sacrifici sono uno
strumento per ottenere un fine e oggi c’è la percezione che i primi segnali
positivi si vedono”. (2 agosto)
Futuro. “I sacrifici li abbiamo
fatti e li stiamo facendo non perché ci sia qualcuno a imporceli, ma perché
siamo un Paese adulto che vuole ricominciare a costruire il futuro dei propri
figli. Dobbiamo avere maggiore fiducia in noi stessi”. (17 agosto)
Ordine. “Siamo orgogliosi che
l’Italia sia un Paese con i conti in ordine”. (21 agosto)
Bacchettate.“Negli altri G20 ci
avevano dato i compiti a casa, perché eravamo stati malandrini: oggi invece
possiamo ragionare sulle cose positive da fare per il futuro e non ci prendiamo
le bacchettate sulle dita come in passato”. (6 settembre)
Autonomia. “La legge di Stabilità
la scriveremo noi, non Bruxelles, perché siamo usciti dalla procedura di
deficit eccessivo”. (14 settembre)
Previsioni. “Oggi il mondo e
l’Europa non ci trattano più da osservati speciali. Oggi è finita l’epoca del
rigore fine a se stesso e della sola austerità”. (14 settembre)
Premonizioni. “Se l’Europa è solo
tasse, austerità, recessione e nessuna luce in fondo al tunnel la legge di
Stabilità non servirà a nulla: quando si chiede di fare sacrifici, poi bisogna
anche indicare dov’è la terra promessa”. (24 settembre)
Trionfo/1. “Per la prima volta da
anni facciamo una legge di Stabilità in cui i conti quadrano senza aumentare
tasse e senza fare tagli al sociale e alla sanità”. (15 ottobre)
Trionfo/2. “Siamo fuori
dall’emergenza, ora vanno applicate le riforme: questo budget sarà il primo in
cui il debito scenderà, così come il deficit, la spesa pubblica, le tasse”. (17
ottobre)
Atto di fede. “La ripresa
dell’Italia è a portata di mano, anche se ancora i segnali non sono visibili”.
(13 novembre)
Commentava Antonio Padellaro su “il
Fatto Quotidiano” del 6 di novembre – “Sistema
Anna Maria” – sempre sul caso soltanto sopito del “ministro umanitario”: Che
spettacolo! (…). …l’unica verità politica di questa messinscena viene
attribuita al costernato premier nipote che, inorridito dalla prospettiva di un
rimpasto, avrebbe pigolato: “Se salta lei, salta tutto”. Proprio vero, poiché
la tanto umana Anna Maria nelle telefonate con casa Ligresti rappresenta in
realtà un solido e collaudato sistema di relazioni, al vertice del quale c’è il
Quirinale con sponde a destra e a sinistra, nell’alta burocrazia ministeriale e
nella finanza che conta. E un sistema non si dimette certo. (…). Così
vanno le cose. E non c’è da ben sperare.
mercoledì 13 novembre 2013
Capitalismoedemocrazia. 41 “La crisi ti fa ricco”.
Mi appresto a “saccheggiare”
il mio epistolario. Lo faccio con la speranza che il mio corrispondente non
l’abbia a male. Ne conosco le qualità Sue umane, l’apertura Sua mentale e le
capacità Sue intellettuali innegabili. Ma il “saccheggio” mi duole
parimenti. È un epistolario che non ha il sapore delle antiche missive. Non è
vergato su candidi fogli con la calligrafia richiesta. È ridotto ai fogli
elettronici che imperversano oggigiorno. Freddi. Definisce “epistolario” il
Sabatini-Coletti come “raccolta
stampata di lettere, soprattutto di personaggi celebri - sec. XVI”. Il
mio epistolario non ha lettere stampate su carta preziosa ed i corrispondenti
non sono da ascriversi ai “personaggi celebri”. Ciò non toglie
che si possa avere un epistolario ancor oggi. Sarebbe il caso che lo si
definisse “e-mailario”. Ha scritto in data 9 di novembre il carissimo mio
corrispondente: Caro Aldo (…) sto maturando un'idea più pragmatica e meno ideologica
della politica. Pur non rinnegando niente del mio passato (una cosa c'è di
buono al mondo ed è la volontà buona), è ormai da tempo che rivedo in modo
critico le mie vecchie convinzioni. (…). Alla base di tutto c'è la convinzione
che il mondo è cambiato e che guardare la realtà con le lenti del passato si
finisce col non comprenderne i connotati. Bisognerebbe cambiar lenti
conservando naturalmente la montatura. (…). Non avevo ancor letto il
dossier di Federico Fubini “La crisi ti
fa ricco” pubblicato sul quotidiano la Repubblica del giorno 11 di
novembre. E prima dell’illuminante lettura avevo risposto così il 10 di
novembre: Carissimo (…), è fuor di dubbio
che stiamo invecchiando (diversamente detto nel testo originale). Io, tu e tutti quanti quelli della nostra
stagione. È un fatto incontrovertibile, è un processo lungo ed inarrestabile. È
per questo motivo che il titolo che hai voluto dare alla precedente tua e-mail (dell’8
di novembre) mi è sembrato un tantino
azzardato: "controcorrente".
Rispetto a cosa? Per andare dove? Era grande cosa esserlo ai tempi della nostra
giovinezza; oggigiorno mi appare quasi patetico. Poiché i tempi che siamo
chiamati a vivere sono anche, e non soltanto, il frutto di quel non essere
stati "controcorrente" al tempo che ci obbligava d'esserlo. Oggi,
sarebbe certo buona cosa avere
"un'idea più pragmatica e meno ideologica della politica". Ma, ad
una lettura più attenta del presente, mi viene da dire che spogliare la
politica delle ideologie è quella "scarnificazione del pensiero"
della quale vado dicendo da un po' di
tempo – (…) -, denunciandone la pericolosità latente, che avvantaggia i
"nemici" di sempre. E la visione "ideologica" sarebbe un
bene che tornasse ad essere bussola di orientamento e di impegno. Per tornare
ad essere "controcorrente"? Chissà, forse. Poiché, a fronte di un
fallimento epocale e storico di questa fase del capitalismo finanziario,
tornare a "guardare la realtà con
le lenti del passato" ci farebbe scorgere i reali
"connotati" dell'oggi. Poiché aver cambiato le "lenti conservando naturalmente la montatura" ci ha
condotti alle immagini distorte che tutti noi oggi confusamente intravvediamo.
E la "montatura" è quella "struttura" e quella relativa
"sovrastruttura" (te ne ricorderai di certo) che i pochi si arrogano
il diritto di "costruire" per tutti. (…). Così mi premuravo di
scrivere all’amico carissimo. E poi la lettura illuminante. Scrive Federico
Fubini: Impossibile dimenticare il 2012, per chiunque lo abbia vissuto in
Italia. L’anno in cui moltissimi iniziarono a sospettare che forse, per questa
volta, non ci sarebbe stato un lieto fine. (…). Vent’anni dopo, nel 2012, sul
Paese ha iniziato a stendersi l’ombra del dubbio che stavolta la durezza della
crisi finanziaria, poi della recessione economica, sarebbe stata definitiva. Avrebbe
lasciato il segno: gli stili di vita non sarebbero tornati ai tempi migliori
così presto e ciò che si credeva possibile nella vita, non lo sarebbe stato
più. Per intere generazioni, cambiava la portata delle aspirazioni. Ma davvero
è andata così? La contabilità dei numeri, che di solito si presume fredda,
racconta una sua storia con un colpo di scena finale. Basta fare qualche conto
per capire che l’Italia del 2012 è una forbice sghemba. (…). È qui che
entra in azione quella che ho definito una “lotta di classe all’incontrario”:
di quelli che stanno in alto contro quelli che stanno sempre più giù nella
scala sociale. Una lotta condotta con la parola d’ordine: le “classi
sociali non esistono più”. Una bugia colossale, che oggi ci viene
squadernata con il dilagante disagio sociale che ha investito il corpo grasso e
molle di quello che è stato il cosiddetto “ceto medio”. Impoverito. Senza più
alcuna chance di “ascesa sociale”. Scrive Federico
Fubini, notista economico e punta di diamante del quotidiano la Repubblica: È
un’Italia a doppia direzione in cui quasi nessuno resta fermo in mezzo, dov’era
prima del grande crollo. Chi sta sempre meglio deve il suo cambio di condizione
alla crisi tanto quanto chi sta sempre peggio. Ecco la contabilità del 2012.
Numero delle imprese fallite nel 2012: 12.463, ossia 34 al giorno. Variazione
nel numero di persone che, ufficialmente, sono rimaste senza un posto di
lavoro: più 507 mila, oltre mezzo milione (senza considerare le centinaia di
migliaia in cassa integrazione). Andamento del prodotto interno lordo: meno
2,4%, il peggior crollo del fatturato nel dopoguerra dopo quello indotto nel
2009 dal fallimento di Lehman Brothers. E il numero dei ricchi? Be’, quello è
un’altra storia. Una vicenda uguale e contraria. I ricchi aumentano nel 2012.
Per la precisione, 127 mila italiani in più il cui patrimonio stimato supera il
milione di dollari americani. L’equivalente di una città di medie dimensioni. I
milionari in dollari d’Italia erano un milione e 412 mila alla fine del 2011 e
sono saliti a un milione e 529 mila alla fine del 2012. In sostanza, mentre
l’economia metteva la retromarcia, le imprese morivano a migliaia al mese e le
persone restavano senza lavoro, mentre gran parte degli italiani vivevano la
fine dell’idea che ci sarebbe sempre stato un lieto fine, uno stellone
nazionale, per alcuni le cose andavano un diversamente. I milionari d’Italia
(in dollari) sono aumentati del 9,5%. Nel 2012 horribilis. E qui ci
soccorre l’analisi precisa e la competenza di Federico Fubini. Nel mare
magnum della comunicazione non sempre si ha la percezione esatta dei
fatti e degli avvenimenti. Tanto di più in un settore, quello
economico-finanziario, nel quale l’aridità delle cifre non invoglia i più
all’attenzione ed all’impegno per capirne qualcosa di più. E non sempre i media
si pongono al servizio dell’uomo della strada. Riesce nell’impresa ardua
Federico Fubini, per l’appunto: (…). …deve esserci qualcos’altro che getta
luce sull’andamento a forbice dell’economia italiana. Un indizio lo fornisce
per esempio il Ftse Mib, il listino principale di Milano, che nel 2012 è salito
in una percentuale curiosamente simile alla variazione nel numero di milionari
d’Italia: se questi ultimi sono cresciuti del 9,5%, la Borsa di Piazza Affari è
salita dell’8,5%. Una seconda traccia viene poi dagli andamenti delle
obbligazioni, in particolare dei titoli di Stato italiani. Nel primo giorno del
2012 un Btp a dieci anni rendeva il 7,068%, nell’ultimo giorno di quello stesso
anno invece solo il 4,49. Poiché i prezzi dei bond si muovono in direzione
inversa rispetto ai loro rendimenti — salgono quando questi ultimi scendono
(ovvero, più salgono di costo meno rendono, meno premiano, per via del rischio
d’investimento e/o d’insolvenza n.d.r.) — si
ricava che le quotazioni della famiglia dei Btp sono cresciute nel 2012 di
circa il 10% sull’insieme delle scadenze dai tre mesi ai dieci anni. Di nuovo,
un’impennata sorprendentemente simile a quella nel numero dei milionari. Se due
indizi fanno quasi una prova, ecco dunque la spiegazione più probabile
dell’aumento degli italiani ricchi mentre tanti altri si avvicinavano alla
povertà: moltissimi di quei 120 mila milionari in più, sono diventati tali
perché è salito il valore del loro patrimonio investito in azioni o obbligazioni.
È un fenomeno impossibile da cogliere se si guarda alle dichiarazioni dei
redditi, perché i profitti da capitale sono tassati alla fonte in banca e non
rientrano nelle denuncie e nei prelievi Irpef. E ovviamente non tutti i ricchi
in Italia investono tutto il loro patrimonio in società quotate a Milano o in
titoli del Tesoro. Ma molto sì, e quell’andamento al rialzo in Italia è pur
sempre indicativo di ciò che è accaduto anche in altri mercati finanziari
d’Europa o negli Stati Uniti. In sostanza: le imprese italiane nel 2012
fallivano o licenziavano, ma chi aveva patrimoni liquidi e li investiva stava
sempre meglio. È uno dei paradossi della crisi. (…). Sono state le grandi
banche centrali, con le loro enormi ondate di liquidità, che hanno fatto salire
tutte le barche sui mercati finanziari. Le loro azioni hanno fatto crescere la
Borsa e i prezzi dei bond e, chi aveva patrimoni, ne ha beneficiato. È uno dei
grandi paradossi di questa crisi. (…). Ora tocca alle democrazie occidentali,
non ai banchieri centrali, gestire le conseguenze di quest’ultimo morso della
crisi. È la considerazione conclusiva di Federico Fubini. Sarebbe
necessario a questo punto il ritorno della “politica”, ma di quella buona. Poiché
solo il ritorno della “politica buona” e con un preciso
orientamento sociale potrebbe fornirci le giuste lenti per una visione
realistica degli avvenimenti del nostro tempo. È che aver cambiato le lenti “conservando
naturalmente la montatura” ha avuto come risultato ultimo il disastro
di oggi.
domenica 10 novembre 2013
Capitalismoedemocrazia. 40 Destini globali.
Vola bassa la politica nel bel
paese. La sua inanità ha qualcosa di speciale, di unico, della quale è
difficile assai definirne i contorni. Nella inanità della politica del bel
paese ci sono tutta l’inconsistenza e l’inutilità che si possano concepire.
Basterebbe dare uno sguardo al calendario politico del bel paese. Continua la
manfrina della “decadenza”. Bon, che come ben s’intende, il
francesismo ha il significato di “bello”. Un bello spettacolo, tanto
per intenderci. E poi ci sono le “primarie”. Bon, che, per rimanere al
francesismo in uso, non è proprio un bel vedere. E quando è toccata dai
problemi forti ed alti, la politica del bel paese annaspa. Farfuglia. Emana borborigmi
- dal greco βορβορυγμός – tipici delle cavità gastriche in difficoltà. Il
confronto tra le parti avviene sempre ai più bassi dei livelli. E se c’è da
alzare lo sguardo, per esempio all’Europa, è tutto un proliferare di
insensatezze e di banali parole d’ordine che non riescono a costruire una
opinione politica e pubblica condivisa. Ha scritto sul quotidiano La Repubblica
del 6 di novembre Barbara Spinelli, una delle mie Muse – “Europa, l’ufficio delle lettere smarrite” -: Populismo è un’ingiuriosa parola
acchiappatutto che non spiega nulla. Come spesso nella nostra storia, è
sotterfugio autoassolutorio di chiuse oligarchie: lo spiega Marco D’Eramo in
uno dei migliori saggi usciti in Europa sul populismo come spauracchio (…). Serve a confondere l’effetto
(la rabbia dei popoli, il suo uso) con la causa (l’Europa malfatta, malmessa).
Letta fa la stessa confusione, (…). La questione di fondo è (…) un’altra. La
questione di fondo è che il mondo va avanti secondo un percorso che solamente
le grandi dimensioni, le grandi aggregazioni – politiche ed economiche -,
potranno influenzarne la direzione. Questa lapalissiana verità non entra mai a
far parte dei voli raso-terra della politica del bel paese. Scrive ancora
Barbara Spinelli: Non il nome interessa sapere, ma perché in Europa cresca un’umanità così
infelice, disgustata. Chiamarla populista o reazionaria è fermarsi alle soglie
del perché. La domanda sulle radici del grido è elusa. E la risposta è
inservibile, se proteste e proposte tra loro tanto dissimili vengono espulse
come grumo compatto che intasa chissà quale progresso. Bollare un intrico di
sdegni e rifiuti vuol dire ignorare che l’Europa di oggi distilla veleni
cronici. Non basta dirla per farla, alla maniera performativa dei governi
attuali. Vuol dire nascondere quel che pure è evidente: nazionalismo e
conservazione sono vizi che affliggono i vertici stessi e le élite degli Stati
dell’Unione. E nel maggio del prossimo anno anche l’Italia sarà
chiamata a parlare d’Europa, con un voto. Come se ne parlerà? Se ne sta di già
parlando? Dichiara Martin Shulz – quello indicato al ruolo di Kapò da quel
buontempone del signor B. e che è attualmente presidente del Parlamento Europeo
e candidato dei socialisti d’Europa alla guida della Commissione dell’Unione
Europea -: Non riduciamo il dibattito a una battaglia tra pro e anti europeisti.
Offriamo la scelta tra un’Europa di centrodestra e un’Europa di centrosinistra.
È questo il parlare giusto, con una fuoriuscita dal mucchio secondo
idealità e visioni contrastanti se non opposte. Sta avvenendo tutto ciò in
Italia? Siamo precipitati ai livelli più bassi della prassi politica: poiché ci
sentiamo fuori dalle ideologie? Continua Barbara Spinelli: L’Europa così com’è non è
minacciata dalla rabbia (…) dei propri cittadini. È minacciata da governi
restii a delegare sovranità nazionali non solo finte ma usurpate, visto che
sovrani in democrazia sono i popoli. La crisi del 2007-2008 la tormenta
smisuratamente a causa di tali storture. Un’austerità che accentua povertà e
disuguaglianze, un Patto di stabilità (Fiscal Compact) che nessun Parlamento ha
potuto discutere: l’Europa che si vuol ripulire dai populismi è questa. (…). Le
menzogne «servono a trasferire la colpa delle debolezze nazionali dalle spalle
dei cleptocrati a quelle del popolo che lavora duramente». È un’alleanza che
non ha più opposizione da quando la sinistra classica ha adottato, negli anni
’90, i dogmi neoliberisti. Gran parte della popolazione è rimasta così senza
rappresentanza: smarrita, dismessa, punita da manovre recessive che paiono
esercitazioni militari. È questa parte (una maggioranza, se contiamo anche gli
astensionisti) che protesta contro l’Europa: a volte sognando un irreale
ritorno alle monete e alle sovranità nazionali; a volte chiedendo invece
un’altra Europa, che non dimentichi il grido dei poveri come seppe fare tra il
dopoguerra e la fine degli anni ’70. (…). Se nulla si muove l’Europa sarà non
più riparo, ma luogo che ti espone, ti denuda. Tenuto in piedi da élite di
consanguinei – che campano di favori personali fatti e ricevuti senza che
dubbio li sfiori (è il caso Cancellieri); che annunciano una ripresa smentita
dai fatti (…). Poiché, nella ristrutturazione delle economie planetarie
le dimensioni avranno il loro peso politico ancorché economico. Il movimento
tellurico che si intuisce ma non si vede ancora delle economie nei prossimi
anni trova attenzioni e significative risposte laddove tutto ciò ha un valore
ed un significato. Ma non nel bel paese. Riporta in una corrispondenza Federico
Rampini – “Obama accusa la Cancelliera e
la difesa è il mini-dollaro” – sul settimanale Affari&Finanza del 4 di
novembre -: La Germania trascina a picco l'intera eurozona. Non solo soffoca la
ripresa altrui imponendo politiche di austerity che accentuano la crisi, ma si
sottrae alle proprie responsabilità puntando su un modello di crescita trainato
dall'export, incompatibile con le necessità dei suoi vicini. (…). Gli
argomenti, sono quelli che Barack Obama ha usato fin dall'epoca del G-20 di
Pittsburgh, nell'autunno del 2009. Si tratta di una "dottrina Obama"
che peraltro è ampiamente condivisa da tutti gli economisti keynesiani. In
sostanza, se il mondo soffre di squilibri tra nazioni che consumano troppo
(America) e nazioni che risparmiano troppo (Germania, Cina, Giappone),
l'aggiustamento va fatto da ambo le parti. Alcuni devono aumentare la propria
propensione al risparmio. Altri devono consumare di più, e così facendo
finiranno per importare di più. Non si può immaginare che l'aggiustamento
avvenga da un lato solo, per il semplice motivo che gli squilibri sono
simmetrici e interconnessi. Se tutti gli Stati volessero avere un eccesso di
risparmio e una bilancia commerciale in attivo (…), la Terra dovrebbe riuscire
ad avere un saldo in surplus con qualche altro pianeta. Il fatto che la
Germania dia lezioni di buona gestione agli altri, ma si rifiuti di aumentare i
consumi e l'import, non è soltanto un controsenso economico. È anche una
strategia distruttiva verso gli anelli deboli dell'eurozona. (…). …quell'accusa
del Tesoro americano è legittima, è giusta, è sacrosanta. Farebbero bene a
impadronirsene Enrico Letta e François Hollande. In effetti quel documento del
Tesoro americano risponde a un'esigenza ben più pressante per l'Italia e la
Francia, che non per gli Stati Uniti. La politica avrebbe bisogno
d’alzare lo sguardo. Le è forse impossibile, presa com’è da quel solipsismo che
nelle sue forme più deteriori diviene un individualismo esasperato di singole
persone o di intere caste. Come per la politica del bel paese, per l’appunto. È
su questi scenari e su questi temi forti che la politica dovrebbe provare a
misurarsi. Il resto è un blablabla inutile e fastidioso. Poiché anche
dall’altra parte del mondo si osserva il divenire degli scenari prossimi
venturi. Scrive Giampaolo Visetti sullo stesso numero del settimanale Affari&Finanza
– “Pechino al bivio duello al plenum tra
stato e mercato” -: Negli ultimi 15 anni, l’economia cinese non
è mai cresciuta tanto lentamente. Viaggia tra il più 7,5 e il più 7,8%,
rispetto alle due cifre di quattro anni fa. La crescita è quasi dimezzata e gli
analisti prevedono la stagnazione attorno al 2020. Senza il traino di Pechino,
la Cina e il resto del mondo si troverebbero ad affrontare problemi inediti,
per il capitalismo hitech. La necessità di allontanare tale spettro è la
ragione che assegna una missione storica al prossimo Comitato centrale del
partito comunista, dal 9 al 12 novembre. (…). I 200 membri del plenum sono
davanti ad un bivio: spingere la Cina sempre più verso l’economia privata, per
allontanarla dalla dipendenza dalle esportazioni, oppure riportarla verso il
monopolio di Stato, per affrancarla dai consumi interni. La prima via, quella
riformista, è promossa dal presidente Xi Jinping e dal premier Li Keqiang,
spaventati dalla prospettiva di una stagnazione che possa minare la stabilità
del Paese. La seconda è sostenuta da ampi settori della sinistra del partito,
che teorizza il neo-maoismo come risposta alla crisi del capitalismo
finanziario dell’Occidente. Dietro ai nuovi leader si schierano le piccole e
medie imprese private, stanche di apparati burocratici corrotti che favoriscono
la posizione dominante dei colossi pubblici. I nostalgici di un sistema maoista
sono appoggiati invece dalle famiglie che dominano le grandi imprese, le
banche, le assicurazioni e le materie prime, formalmente di Stato, ma nella
sostanza casseforti dei pochi clan che hanno governato la nazione negli ultimi
quarant’anni. (…). La seconda potenza mondiale è chiamata a scegliere anche il
suo profilo produttivo. E noi a fare i vasi di terracotta. E la
politica dove sta? Che fa?
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