All’articolo 3 della nostra magna
Carta sta scritto: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti
alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di
opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della
Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando
di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno
sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Nella
costituzione materiale del bel paese questo articolo non esiste più. E da un
bel pezzo. Poiché quel suo perentorio “rimuovere gli ostacoli di ordine economico
e sociale” al tempo del liberismo più selvaggio ha partorito la “social
card”, ovvero la negazione palese del dettato costituzionale. Una
sostanziale vergogna. Poiché aver pensato alla “social card” ha voluto
significare che quel “compito” affidato alla politica non
ha da essere. Poiché aver pensato alla “social card” è stata l’ammissione finalmente
confessata che la povertà è di questo mondo, è di questo paese che cancella
così quell’imperativo “compito” che pur si era dato. È stato
un abbassar la guardia, è stato uno stare con quell’1% che detiene tanto provvedendo
ad elargire le briciole a tutto il resto del paese. Come si vive con la “social
card”? Meglio che senza? Quanto è bastevole affinché si possa
perseguire – secondo la Carta – “il pieno sviluppo della persona umana e
l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica,
economica e sociale del Paese”? Perché non si danno le risposte giuste
alle domande ineludibili? Istruiti quanto basta con la cosiddetta ultima “legge
della stabilità” si è voluto stabilizzare la “povertà made in Italy”,
come da costituzione materiale vigente. Come si vivrà con 14 euro in più al
mese? E non per tutti. Ha scritto Carlo Verdelli sul quotidiano la Repubblica
del 30 di ottobre, nel già citato Suo scritto
“L’ultimo miglio della povertà”: Povera
Italia che improvvisamente si scopre povera. Ai 4,8 milioni di persone che secondo
l’Istat non ce la fanno più (8 per cento della popolazione, il doppio rispetto
a 5 anni fa), vanno aggiunti altri 9 milioni e mezzo che tirano a campare con
meno di 506 euro al mese. Il totale fa spavento, 14 milioni e rotti. E lo
spavento cresce con i 6 milioni di analfabeti e un tasso di abbandono
scolastico tra i più alti dell’Unione europea. Ha scritto Francesco
Cundari sul quotidiano l’Unità del 21 di agosto dell’anno 2011 col titolo “La crisi è figlia di precise scelte
politiche”, Autore citato nel post di ieri, ha scritto che,
secondo la vulgata del liberismo più selvaggio e dell’inarrestabile
finanziarizzazione della economia, i mercati sarebbero capaci di autoregolarsi
e che non esisterebbe più alcuna differenza significativa tra destra e
sinistra. Non per nulla, a ben vedere, questa seconda affermazione è una
diretta conseguenza della prima: se i mercati possono regolarsi da soli,
scompare necessariamente ogni differenza tra destra e sinistra, per la semplice
ragione che scompare la politica, che è innanzi tutto confronto tra i
rappresentanti di diversi interessi - tutti ugualmente legittimi, s'intende -
per la distribuzione delle risorse. È avvenuta quella che da tempo vado
definendo come la “lotta di classe” all’incontrario. Un colpo da maestri. Sostiene
lo scrittore ed opinionista Goffredo Fofi – in “La vocazione minoritaria”, Laterza editore (2009), pagg. 165, € 12
-: “Una
delle astuzie della società attuale – almeno in Italia – è di aver convinto i
poveri ad amare i ricchi, a idolatrare la ricchezza e la volgarità. In passato
i poveri solitamente non amavano i ricchi: li si convinceva, anche con la
forza, a sopportare la loro condizione, si tollerava anche che peccassero di
invidia, al più li si spaventava con la prospettiva delle pene dell’inferno.
Negli anni Ottanta, negli anni di Craxi, è esplosa invece una cosa del tutto nuova:
la tendenza a negare le differenze tra i ricchi e i non ricchi, a far sì che i
non ricchi si pensino ricchi, che amino i ricchi come maestri di vita, come
modelli assoluti di cui seguire ogni esempio”. Un colpo magico.
Definitivo. Dall’obnubilamento delle coscienze
e dalla “scarnificazione” del pensiero
- come mi piace sostenere - il quadro a tinte fosche che ne risulta è
quello che la cronaca impietosamente offre alla nostra atterrita visione
quotidiana. Storie crudeli di uomini e di donne, che hanno lavorato e creato
ricchezza e sicurezza sociale. Uomini e donne che sono da annoverare oggigiorno in quei “14 milioni e rotti” buttati
fuori dalle loro esistenze, dai loro sogni, dalle loro speranze. Storie
che Carlo Verdelli ha trascritto nel Suo reportage. Storie di sconfitte e di
esclusione, storie d’inumana, misera realtà. (…). …a Carau Antonio, camionista
fino al fatidico 2011, sta diventando insopportabile. «Ho la patente C, 40 anni
di esperienza, l’ultima nel trasporto di carta igienica ai supermercati.
Licenziato, sbam, e nessuno che mi riprende perché a 60 anni, dicono, sono
vecchio. Durante il giorno giro,come tutti noi fregati dal Duemila, spesso vado
alla libreria Sormani dove danno dei film, faccio le code alle mense, mi
ammazzo di colloqui per un lavoro. Ma il vero tormento è la notte. Dormo tra
due marocchini. Ruttano, scoreggiano, non hanno rispetto, si lavano i piedi
dove io devo lavarmi la faccia. Fortuna che ho un amico imbianchino. Gli ho
chiesto di lasciarmi la sua macchina per la notte. Farà più freddo ma almeno
non sentirò la puzza dei cameroni». E così pure (…). …Dario Colucci è un
inquilino di Mambretti (ove è ubicato a Milano un nuovo dormitorio
pubblico n.d.r.), anche lui ha conosciuto il salto in basso repentino, da rompersi le
ossa. Odontotecnico diplomato, 30 anni da artigiano di dentiere e ponti fino
alla specializzazione in modellazioni tridimensionali, ha perso tutto in un
colpo, come al casinò: lavoro, casa, famiglia, tre figli. «I clienti non
pagavano, il laboratorio è soffocato, ci hanno uccisi di tasse. Avevo il mutuo
della casa da pagare, ho consegnato le chiavi alla banca e mi sono trasferito
nella mia Ford Fiesta». (…). E dopo la Fiesta, signor Dario? «Non resistevo
più, ghiacciava anche dentro. Mi sono trovato un localino segreto all’ospedale
di Niguarda, vicino alla sala prelievi. In cambio di non venir denunciato,
aiutavo gratis quello che caricava le macchinette di bibite e merende alle 5 di
mattina. Anche quando sono venuto in Mambretti, ho dato una mano. Pitturare i
muri, pulizie. Adesso quelli dell’Arca mi hanno affidato l’incarico di
operatore notturno. Lo dico sottovoce ma sto ritrovando fiducia». Storie
dei cosiddetti “colletti bianchi”: Caterina Disi ha 48 anni, dei lunghi capelli
neri senza neanche uno bianco e non cerca compassione. Nata in Sardegna,
diploma di educatrice professionale alla Sapienza di Roma, un curriculum di
dieci pagine, ultimo lavoro riconosciuto alla Asl di Ravenna che però la
licenzia, da due anni e mezzo è in giro con le sue valigie. Single, dorme in un
convento di suore, aspetta gli esiti della causa che ha intentato alla Asl («Mi
daranno dei soldi ma non mi ridaranno il posto»), non va alle mense per la
vergogna («Mangio biscotti, piuttosto »), entra ed esce dagli uffici di
collocamento come dalle librerie, senza mai niente in mano. «Ma la fede non mi
fa perdere la speranza. Avrei potuto schiantarmi nella depressione, invece non
ho mai preso un farmaco. Il mio unico sonnifero è il rosario. Ma non accetto
tutto, non accetto più. Ho studiato tanto, lavorato tanto, non ho commesso
reati e mi ritrovo nella povertà assoluta. Pretendo rispetto dal mio Paese.
Pretendo autonomia e ruolo sociale. Voglio giustizia, perché la merito».
Dice Caterina Disi “non ho commesso reati”. In questi giorni, in queste ore, un
cittadino della Repubblica d’Italia – e la corte dei suoi sudditi - si dimenano
sbavando affinché non venga applicata una legge dello Stato. Se fosse incappata
Caterina Disi in quello stesso reato al momento successivo della sentenza della
Cassazione avrebbe viste applicate, da subito, le pene irrogate. Per Caterina
Disi non ci sarebbe stato un “quarto grado” di giudizio, ché tale
è divenuta la manfrina recitata in questi giorni nei palazzi del potere da
quell’”antipolitica” che il potere lo detiene costi quel che costi.
Ed intanto il Paese affonda poiché è certo oramai che i cittadini del bel paese
non “sono
eguali davanti alla legge”. Quel “quarto grado” andrebbe cancellato,
è da nomenclatura sovietica signor B.!
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