"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 4 ottobre 2013

Quellichelasinistra. 2 Lo scandalo della diseguaglianza.



“Quellichelasinistra”. Ché non si sentono di “stare a sinistra”, come per l’occupazione di una casamatta. Per una guerra che non si conduce più. Ché non si sentono “di sinistra”, così indistintamente. Di “quellichelasinistra” Marco Revelli – su la Repubblica dell’8 di agosto, “Bisogna sentire lo scandalo della diseguaglianza” – ha detto a Simonetta Fiori: «Cosa vuol dire essere di sinistra? È un impulso prepolitico, una radice antropologica che viene prima di una scelta di campo consapevole. Davanti alle disparità di classe o di censo o di condizione sociale, c’è chi si compiace, traendone la certificazione del proprio essere superiore. E c’è chi si scandalizza, come capitò a Norberto Bobbio quando scoprì da bambino la miseria dei contadini che morivano di fame. Lo “scandalo della diseguaglianza”, lo chiamò proprio così. Un’indignazione naturale, che non è comune a tutti». (…). Verrebbe da dire, “antropologicamente diversi”. Come qualcuno ha definito i magistrati del bel paese. E “quellichelasinistra” si sono ritrovati per un quasi ventennio a sentire sulla propria pelle quella diversità, una solitudine da ingenerare malessere. Oggigiorno si può ben dire d’avere resistito alla montante barbarie, politica, sociale, etica. In quel quasi ventennio avvertivano quella diversità ma ne coglievano l’afflato umano. Afflato alto e consapevole. E mentre scrivo non posso non pensare ai disperati morti nel mare di Lampedusa. Ove si misura, come afferma Simonetta Fiori nel porre la domanda successiva, “lo scandalo della diseguaglianza”. Lei quando cominciò ad avvertirlo? «Da bambino, quando facevo le scuole elementari a Cuneo. Negli anni Cinquanta la frattura sociale era molto visibile, e nella mia classe convivevano ceti molto diversi. Una mattina venne chiamata la madre di due miei compagni, a quel tempo alloggiati in una caserma abbandonata. Davanti a tutta la scolaresca fu severamente rimproverata perché i suoi bambini non si lavavano. Io provai un grande disagio. Non dissi nulla a casa».
E anche oggi, in una realtà nazionale radicalmente mutata, lo scandalo si ripete. «Quello nato dopo la morte del Novecento è un mondo infinitamente più diseguale. Ed è un mondo che non offre alternative a se stesso. Sono queste le grandi sconfitte storiche della sinistra, ossia di una forza politica e culturale che possiede nel Dna il valore dell’eguaglianza e la capacità di immaginare un’alternativa allo stato di cose presente». I morti di Lampedusa stanno lì a dimostrare l’insensatezza di questo mondo globalizzato, reso sempre più disuguale, disumano. E “quellichelasinistra” sono stati lì – nel quasi ventennio - a pensare, resistendo, ad un mondo che si sarebbe dovuto cambiare. E nel quasi ventennio non hanno lasciato spazio alle illusioni mediatiche, ai facili proclami, alle insensatezze di chi legiferava contro il resto dell’umanità povera, indifesa, l’umanità dei migranti che sono sempre esistiti, come migranti lo sono stati i poveri ed i diseredati di questo disastrato paese. Poiché “quellichelasinistra” sentivano dentro pensieri e parole che erano diversi dai pensieri e dalle parole del quasi ventennio dominante. E sentivano che i pensieri giusti e le parole giuste provenivano da altre parti e si ritrovavano confortati nei pensieri e nelle parole dei loro maestri. Scriveva il professor Umberto Galimberti nel Suo “Eleonora e Babacar” pubblicato sul settimanale “D” del 2 di ottobre dell’anno 2010: Scrive Barbara Spinelli in “Ricordati che eri straniero”: - Grazie allo straniero siamo portati a chiederci chi siamo, che cosa vogliamo, da dove veniamo. E per effetto di questa domanda siamo portati a trasformarci -. L'arretratezza di un paese, la sua ignoranza, le sue infondate paure, si misurano anche nella modalità con cui quel paese è disposto ad accogliere lo straniero. Noi lo accogliamo solo se serve a raccogliere pomodori con una retribuzione misera e per giunta in nero, oppure se è in grado di svolgere tutti quei lavori che gli italiani rifiutano. La misura dell'accoglienza è quindi il profitto e le condizioni di accoglienza non si distanziano di molto dalle condizioni di schiavitù. Siamo ancora molto lontani da quella misura che gli antichi Greci avevano assunto come criterio di accoglienza e che Isocrate così riassume: "Atene ha fatto sì che il nome di Elleni designi non più una stirpe, ma un modo di pensare. [...] Per cui siano chiamati Elleni non quelli che hanno in comune con noi il sangue, ma quelli che hanno in comune con noi una paideia", che è poi la capacità di apprendere che non si eredita con il sangue, ma si impara crescendo insieme. Là dove si assume il sangue o il mito della razza per trovare un'identità e in quel mito rinchiudersi come in un fortino ben protetto, vuol dire che non c'è più alcuna traccia culturale in cui reperire la propria identità. E tutto questo in un paese come l'Italia che, più di tanti altri, ha visto un'interrotta mescolanza di razze, a partire dall'impero romano popolato da genti dalle più lontane provenienze, e poi nell'alto medioevo con l'invasione di popolazioni di origine teutonica e asiatica, quindi gli arabi che in Italia meridionale hanno portato arte e cultura, i normanni, e di seguito gli spagnoli, i francesi, gli austriaci. Davvero se c'è un popolo senza identità di stirpe e di razza è proprio l'Italia, la cui identità è data, più che dal sangue, dall'arte, dalla musica e dalla cultura oggi in via di estinzione. (…). E dall’estinzione di quella cultura ne è derivata una perdita secca d’umanità, relegando in un angolo oscuro le parole che dovrebbero suonare sempre altissime, “libertà, “fratellanza”, “eguaglianza”. I morti di ieri e di ieri l’altro e del tempo che sembra andato sono i morti assassinati in nome dello “scandalo della diseguaglianza”. Continua Simonetta Fiori nell’intervista a Marco Revelli: Però ogni volta che ha promesso (la sinistra n.d.r.) un mondo più felice ha prodotto grande infelicità. «La catastrofe del socialismo reale è parte della scomparsa della sinistra, che ne è stata paralizzata. Ma una sinistra che rinuncia a proporre un altrove cessa di essere sinistra. È nata proprio per quello. (…).».
La sinistra come il Candide di Voltaire, che gioisce del mondo in cui vive ritenendolo il migliore possibile. «(…). La sinistra ha rinunciato a immaginare un’alternativa proprio nel momento in cui il mondo in cui aveva deciso di identificarsi stava entrando in crisi. Mi riferisco all’ultima reincarnazione del capitalismo — il “finanzcapitalismo” secondo la felice definizione di Luciano Gallino — cioè un’economia già provata, che per tenersi in piedi ha bisogno del doping della finanza. Bene, quando la casa cominciava a manifestare le prime crepe, la sinistra s’è seduta alla tavola apparecchiata, contenta di esserci: finalmente siamo come gli altri».
Finalmente siamo uomini di mondo: le scarpe di buona fattura, le belle case, gli agi borghesi un tempo contestati... «Una sorta di apocalisse culturale, sia sul piano delle filosofie — la fine della ricerca di senso — sia su quello sociale. Più che combattere il privilegio, l’impressione è che si sia cercato di entrare nella sua cerchia. (…)».
Dalla sua ricostruzione, però, i padri sembrano migliori dei figli. «Gli eredi delle sinistre novecentesche non sono stati all’altezza del compito. È un universo popolato di figure fragili. O perché continuano a proporre categorie che sono morte con il Novecento, con effetti patetici. O perché (…) - più che interpretare e governare i processi storici — hanno scelto di galleggiare su un senso comune condiviso».
Vuole dire che la sinistra è rimasta senza eredi? «C’è una sinistra radicale che muore volontariamente intestata, ossia senza testamento, (…). E la sinistra più istituzionale ha seguito altre rotte. La mia generazione - in questo senso - ha completamente fallito. Rappresentiamo nella politica un enorme buco nero. E il fallimento s’acuisce nei confronti delle nuove generazioni, che hanno tutte le ragioni per metterci sotto processo. Abbiamo monopolizzato l’idea della trasgressione senza riuscire a costruire un mondo vivibile e alternativo».
Sta parlando della generazione sessantottina. «Sì, le nostre idee non sono state utilizzate dai poveri del mondo, ma dai supermercati. Vogliamo tutto, lo vogliamo subito. (…)».
(…). E ora, a sinistra, da cosa si riparte? «Intanto bisogna uscire dall’involucro. Rompere la bolla in cui si è cacciata la politica. Una costellazione di oligarchie, in cui si diventa oligarchi alla velocità della luce. Nel momento in cui vieni eletto in Parlamento diventi altro da te. Ho visto persone cambiare, nello sguardo, nel linguaggio, nel modo di vestire. L’ho visto in tutti, quasi senza eccezioni. Se vuole ripartire, la sinistra deve spezzare quell’involucro». Ha lasciato scritto Giorgio Gaber: “Qualcuno era comunista perché credeva di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri. Qualcuno era comunista perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo. Perché sentiva la necessità di una morale diversa. Perché forse era solo una forza, un volo, un sogno era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita. Sì, qualcuno era comunista perché, con accanto questo slancio, ognuno era come… più di sé stesso. Era come… due persone in una”. Sono, per l’appunto, “quellichelasinistra”.

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