Osservate bene il box che ho
riportato dal quotidiano la Repubblica di oggi e che è parte di un reportage di
Carlo Verdelli che ha per titolo “L’ultimo
miglio della povertà”. Vivono in uno stato di “povertà assoluta” 4
milioni 814.000 italiani; nella cosiddetta “povertà relativa” 9 milioni
563.000. Dati che si commentano da soli. Dati crudeli. Dati allarmanti.
Allarmanti per chi? Sullo stesso quotidiano Massimo Giannini si è prodotto
nella presentazione dell’ultimo lavoro del sociologo Luciano Gallino – “Il colpo di stato di banche e governi”
(2013), pagg. 352, € 19, Einaudi Editore – con un pezzo che ha per titolo “Terminator il banchiere”. Scrive Massimo
Giannini che la “GCG”, o Grande Crisi Globale, non è un accidente della storia,
improvviso e imprevedibile, né un incidente del sistema, previsto e riparabile.
È invece l’effetto di una scelta consapevole e tragicamente sbagliata, che i
governi hanno condiviso con le istituzioni finanziarie e i think tank economici
del pianeta. Il collasso dei mercati non è effetto né della recessione mondiale
(creata da costi del lavoro strumentalmente giudicati insopportabili) né
dell’esplosione dei debiti pubblici (gonfiati da una spesa sociale falsamente ritenuta
insostenibile). Semmai è la causa dell’una e degli altri. L’accumulazione
finanziaria è stata “la risposta” che le classi dirigenti hanno dato “alla
stagnazione economica” e alla disoccupazione endemica. È lo scenario
che i volenterosi ragazzi di “Zuccotti Park” – sembrano ricordi
di un’altra era, provenienti da chissà quale pianeta - hanno cercato di
trasmettere e rendere universale affinché una risposta forte venisse da ogni
dove, ovvero quella loro drammatica denuncia dell’1% che determina il destino
del rimanente 99% degli esseri umani. Sostiene nel Suo pezzo Massimo Giannini: La
crisi origina dalle disuguaglianze, e nello stesso tempo le moltiplica. Lo 0,6%
della popolazione mondiale adulta detiene una ricchezza personale netta di 87,5
trilioni di dollari (pari al 39% della ricchezza totale del mondo), mentre il
69,7% ne possiede per 7,3 trilioni (pari al 3,3% del totale). Fermare la
“macchina”, finora, non è stato possibile. Scenari realizzatisi non per
un destino avverso ma per evidenti scelte e che si sarebbero potuti evitare o
correggere sul nascere sol che la politica fosse stata più accorta facendo
scelte ben diverse nella difesa di quel che un tempo veniva definito il “bene
comune”. Per uscire dal sempiterno gioco del “detto e del non detto” sono
andato a rileggere quanto Francesco Cundari scriveva sul quotidiano l’Unità del
21 di agosto dell’anno 2011 col titolo, inequivocabile, “La crisi è figlia di precise scelte politiche”: (…). A
quattro anni dal crollo dei subprime e a tre anni dal fallimento di Lehman
Brothers, il dibattito politico italiano e internazionale non potrebbe essere
più istruttivo. La crisi presenta il conto agli Stati, che si sono indebitati
proprio per salvare quella finanza che doveva fare da sé, autoregolarsi e
risolvere autonomamente tutti i problemi del mondo. E a Washington lo scontro
tra destra e sinistra è tra chi vuole tagliare lo stato sociale, a cominciare
dalla moderatissima riforma sanitaria di Obama, e chi vuole togliere i benefici
fiscali ai più ricchi. Esattamente come in Italia. Un quadro che dimostra la
falsità di due affermazioni a lungo circolate in questi anni: che i mercati
sarebbero capaci di autoregolarsi e che non esisterebbe più alcuna differenza
significativa tra destra e sinistra. Non per nulla, a ben vedere, questa
seconda affermazione è una diretta conseguenza della prima: se i mercati
possono regolarsi da soli, scompare necessariamente ogni differenza tra destra
e sinistra, per la semplice ragione che scompare la politica, che è innanzi
tutto confronto tra i rappresentanti di diversi interessi - tutti ugualmente
legittimi, s'intende - per la distribuzione delle risorse. Ora però si tratta
innanzi tutto di distribuire i sacrifici, purtroppo. Non per niente, dagli
stessi ambienti da cui fino a ieri proveniva l'elogio dei mercati e della
finanza che è all'origine della crisi, viene ora una violenta campagna di
delegittimazione della politica, che si accompagna alla ripetizione delle
stesse formule e delle stesse ricette che ci hanno portati fin qui. (…). Per
concludere con lo sguardo puntato sulla specificità della situazione italiana: Quello
che il mondo si appresta a pagare è il costo del liberismo, che in Italia si è
accompagnato a una particolare forma di conflittualità politica, tanto
esasperata nella forma quanto vaga nei contenuti, che ha favorito naturalmente
tutte le reazioni antipolitiche e antistatuali, dal leghismo al liberismo. Lo
stesso Silvio Berlusconi si è presentato come il campione dell'antipolitica,
l'imprenditore che alla politica era solo «prestato». In fondo, (…), la sua
intera parabola rappresenta la forma più estrema di privatizzazione del
politico. In Italia, purtroppo, paghiamo il conto anche di tutto questo. L'uomo
solo al comando, che con la sua sola persona doveva surrogare gli odiosi
partiti e gli inutili riti parlamentari, lascia un Paese allo sbando, lanciato
contro un muro. L'idea che si possa risolvere il problema procedendo nella
stessa direzione, e magari con una bella accelerata, non pare delle più
brillanti. E dopo – novembre 2011 - venne la cacciata ad opera dei “mercati”.
Ma non dalla politica buona e del “bene comune”. E lo scenario che ne è
conseguito è ben interpretato e reso evidente nella sua drammaticità dai dati
riportati nel box proposto in alto. Poiché ne diviene che, nell’assoluta
indifferenza dei più della politica, quel banchiere “Terminator”, per come lo
definisce Massimo Giannini, ha ben rodato il suo congegno di dominio assoluto.
Scrive l’illustre opinionista: La “macchina”, messa a punto nei laboratori
dei pensiero neo-liberista trans-nazionale, è ormai capace di auto-rigenerarsi.
La finanza produce finanza. La carta genera carta. La manifattura scompare. I
posti di lavoro spariscono. E in questa dissipazione programmata sviliscono
vite e svaniscono diritti. (…). Nella classifica delle top 20 mondiali, le 14
europee detengono attivi per 28,2 trilioni di dollari, mentre le 3 americane ne
hanno per 5,5 trilioni. Così diventa possibile la «creazione di denaro dal
nulla. In meno di dieci anni, la “macchina” immette sul mercato Ue titoli
cartolarizzati per 7 trilioni di euro (quasi la metà del Pil dell’Unione), 30,5
trilioni di dollari di derivati scambiati su piazze organizzate, e 597 trilioni
di dollari di derivati “Over the Counter” (di cui 58,2 trilioni di Cds, i
certificati assicurazione dei crediti). A questo si aggiunge lo “shadow
banking”, cioè il sistema “ombra” rappresentato da società che operano come
banche senza esserlo, che solo negli Usa vale 23 trilioni di dollari.
L’Occidente vive all’ombra di questa bolla immane, che si gonfia libera e
irresponsabile, esplode e poi ricomincia a gonfiarsi. (…). I governi, vittime
gregarie di una sindrome da “corteggiamento del capitale”, l’assecondano con
strategie economiche incentrate sul taglio del Welfare e sui salvataggi bancari
a carico dei contribuenti. I media, risucchiati dentro una nuova “fabbrica
dell’egemonia”, la cavalcano con un conformismo che finisce per deformare la
realtà. (…). E c’è sempre un qualcuno che vede la luce al fondo del
tunnel e c’è sempre un “babbo-natale” di turno (Letta-Saccomanni) pronto a
regalare la mancetta alle famiglie impoverite affinché si invoglino a
riprendere lo scialo di sempre.
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