Sostiene Francesco, che è vescovo
di Roma, dell’insostenibilità della “globalizzazione dell’indifferenza”
nel mondo cosiddetto progredito e cristianizzato. Sostiene Francesco, che è
vescovo di Roma, che è il dominio del denaro a dettare i tempi ed i modi delle
guerre. Lo è stato da sempre. Anche allorquando i predecessori di Francesco,
che è vescovo di Roma, benedicevano le navi in partenza oltre gli oceani
sconosciuti per quell’opera di evangelizzazione e di morte che ha segnato la
vita e la storia del mondo che è detto cristianizzato. Ha scritto il professor
Umberto Galimberti sul settimanale “D” del quotidiano la Repubblica dell’8 di
settembre dell’anno 2012 – “Il razzismo?
Una brutta storia” -: (…). …abbiamo limitato il concetto di
"prossimo" a quelli che sono come noi, che condividono gli stessi usi
e costumi, che hanno una faccia bianca rassicurante, che parlano la nostra
lingua, che hanno sufficienti risorse economiche per non chiederci niente, e
soprattutto che non ci importunano sulla strada se non per un distratto buon
giorno o buona sera. Questo è l'ambito entro il quale abbiamo circoscritto la
nozione di "prossimo". Al di là di questo artificioso “prossimo
tuo” vi è l’indifferenza tanto condannata da Francesco che è vescovo di
Roma. Poiché anche i morti ammazzati per le contrade della Siria sono dovuti
all’ingordigia del denaro e di quant’altro afferisca alla parte del mondo che
soggioga tutto ciò che non rientri in quella sua aberrante “nozione di prossimo". In
una dotta analisi della situazione in quell’angolo d’Oriente Gilles Kepel ha
scritto – sul quotidiano la Repubblica del 2 di settembre, “Dietro il caos in Siria l’ombra dell’Iraq e i regni dell’oro nero”
-: Le
rivoluzioni arabe sono in primo luogo il prodotto della decomposizione di un
sistema politico concepito per resistere alla paura della proliferazione
terroristica dopo la «doppia razzia benedetta su New York e Washington»
perpetrata da Bin Laden e dai suoi accoliti. Contro Al Qaeda, avevamo eretto un
baluardo di regimi autoritari e corrotti, ma dotati di servizi di sicurezza
efficienti. L’esigenza della democrazia era stata sacrificata sull’altare della
dittatura, ma Ben Ali, Mubarak, Gheddafi e altri come Ali Saleh, non sono stati
altro che dei despoti patetici che hanno cristallizzato contro se stessi il
malcontento popolare, portando a delle rivoluzioni che sono dilagate da Tunisi
al Cairo e da Bengasi a Sana’a nella primavera del 2011. (…). Le «primavere
arabe» sono state accolte con benevolenza in Occidente, ma hanno comunicato
un’ondata di panico nella spina dorsale delle monarchie petrolifere del Golfo.
La prospettiva di un «contagio democratico » ha terrorizzato queste dinastie i
cui membri monopolizzano i proventi del petrolio e del gas. Il pericolo toccava
ormai la penisola arabica stessa, mentre la comunità internazionale guardava da
un’altra parte lasciando prevalere gli idrocarburi in pericolo sui diritti
umani a rischio. (…). È in questo contesto che si è sviluppata la rivoluzione
siriana. All’inizio, aveva lo stesso profilo che in Tunisia o in Egitto: una
gioventù istruita si metteva a capo delle rivendicazioni democratiche contro un
potere autoritario. Ma l’intensità della repressione e la sua trasformazione
graduale in guerra civile a carattere confessionale ha impedito il sollevamento
delle forze armate contro il presidente. Il finanziamento in petrodollari e la
distribuzione di armi provenienti dai Paesi del Golfo — uniti per sostenere i
sunniti che avrebbero scardinato l’asse sciita se Damasco fosse caduta — ha
cambiato la situazione sul terreno, favorendo la penetrazione militare dei
gruppi islamisti e rendendo più difficile il sostegno alle forze democratiche
della resistenza. La Siria diventa dunque l’epicentro dello scontro tra l’asse
sciita e i suoi avversari sunniti, ostaggio di una guerra per procura fatta
prima di tutto per controllare gli idrocarburi del Golfo. La vittoria di Assad
rafforzerebbe Teheran e, dietro all’Iran, la Russia, messa da parte in Medio
Oriente. (…). Ricevo dall’amico Giovanni Torres La Torre, che è
scrittore e pittore di vaglia, l’ode “Per
i bambini trucidati in Siria. Morte a Damasco” che volentieri di seguito posto.
Sotto calcinacci
restano sepolti nell’abbraccio
i bambini e le madri
nella notte della loro morte.
Il giorno dopo
gente che va e gente che viene
per strade affollate dalle
macerie
e altre madri che urlano il loro
dolore
maledicendo la guerra
e la sete e il pianto che
torturano la voce.
Quando si coprono con lenzuoli
i corpicini stesi sui marciapiedi
coi loro volti sbiancati dal
veleno,
cosa fa la luna annerita nel
cielo
che pure sa orientare il tempo
degli innesti
del parto e della semina dei
frumenti?
La luna è sempre là,
calante e crescente
illumina come meglio può
sepolcri e serenate d’amore,
il volto degli innocenti
e la maschera dei loro assassini,
le tombe dei santi e le cupole
dei paesi dimenticati,
i tetti di lamiera e le ricchezze
del mondo.
Non c’è scampo, il disco di luce
di pietra
indica la strada
a padri e madri e fanciulli
scalzi
che non lasciano orme.
II
L’alfabeto degli antenati e il
gioco dei numeri
riposano nelle acque dell’Eufrate
e del Mare Mediterraneo
con le ossa di naviganti e di
fuggiaschi.
Altre pietre, tavolette e poemi
dell’antica civiltà
sfidano il tempo
con la voce della poesia del
deserto
canto che fu ammirato nella nenia
che risuona ancora nello
smarrimento.
Non brillano più i cuori
e i giorni dei bambini sono
privati dal loro splendore
perché la guerra distrugge la
bellezza della scrittura,
e il volto delle figure di
argilla e pietra
si insanguina nella bocca dei
morenti.
Non ci sono più gemme alle fronde
dei giorni
né vesti di primavera
né belati di armenti.
Occhi di perle bagnate di rugiada
non scrutano più l’orizzonte,
e non cercano più miracolosi
prati le carcasse degli armenti.
III
Sulle fosse delle vittime non
cresce l’erba
e non ci sono fiori a portata di
mano.
La luna amica della gente
illumina la strada di un’antica
preghiera
che una donna ha ancora voce di
cantare
stringendo alle ossa del suo
petto
un gomitolo di stracci,
sudario del figlio morente.
Capo d’Orlando, agosto-settembre
2013
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