Vogliamo riprovare a guardare la
luce che è in fondo al tunnel? È luce fioca, tremolante, come di fiammella
esposta al primo vento che possa facilmente spegnerla. Ma i cantori ed i lesti
turiferari l’intravedono nonostante le cautele di coloro che, moderni aruspici,
leggono bene nel ventre molle del mercato globalizzato. Ma tant’è la piaggeria
dilagante che qualsivoglia richiamo al cosiddetto principio di realtà cade
inesorabilmente nel vuoto. Ma qui preme guardare a quella luce che è vista al
fondo del tunnel ma con occhio diverso. È che, nelle questioni della economia,
la vulgata corrente trascura d’osservare più da vicino gli attori primi che
sono lor signori, ovvero gli imprenditori e manager che progettano
arricchimenti facili e senza che comportino loro alcuna responsabilità sociale.
Del resto, è cosa nota, che nelle crisi a pagare per le difficoltà incombenti
siano maestranze e forze del lavoro. Se un prodotto non soddisfa il mercato non
si è mai visto che a risponderne siano i vertici aziendali e la corte che li
circonda. Scrive Alessandro Robecchi su “il Fatto quotidiano” di ieri 26 di
settembre – “La gloriosa imprenditoria
italiana. Perfino peggio della politica” -: Ce ne è abbastanza per denunciare
un grave caso di strabismo: tutto questo parlar male della politica e dei
politici ha messo in secondo piano le gloriose capacità dell’imprenditoria
italiana che rappresenta l’altra metà delle corruzione. In termini generali,
certo, a grandi linee: dove passa una mazzetta c’è un politico da un lato e un
imprenditore dall’altro. (…). Conosco l’obiezione: fare impresa in Italia è
difficile, ma pare che sia difficile per gli italiani, perché se fosse
difficile per tutti non verrebbero qui a comprare a man bassa. Poi, certo,
possiamo fare collezione di belle frasi sulla casta, sulla politica, sui
cialtroni che ci governano e che non spariscono mai e stanno sempre lì. Perché
invece i Colaninno, i Bernabé, i Tronchetti Provera, i Passera spariscono? Non
pare: saltano da un consiglio di amministrazione all’altro come usignoli sui
rami, quasi sempre lasciandosi dietro disastri epocali e balzando a combinarne
di nuovi. Sempre salutati come salvatori della patria, coraggiosi innovatori,
costruttori di ardite strategie accolte dalla òla dei commentatori che dopo
due, tre, quattro anni si esercitano a demolire quelle costruzioni. Pure loro
(i commentatori) non se ne vanno mai: il loro passare dagli applausi (evviva,
si salvaguarda l’italianità di Alitalia!) ai fischi (ma che avete fatto!
Dovevate vendere subito ai francesi!) nello stesso film, addirittura nella
stessa scena, è garanzia di durata. Il concetto di responsabilità (ho
detto/fatto/pensato una cazzata, me ne vado) non è contemplato, chi rompe non
paga, non porta via nemmeno i cocci, e si prepara a nuovi mirabolanti successi.
Ineccepibile. Tanto è vero che il collaudato copione si rinnova in queste
circostanze settembrine sempre con gli stessi attori e le “spalle” di supporto.
Alitalia. Finmeccanica. Telecom. E che dire delle profumatissime liquidazioni
che lor signori riceveranno a disastro avvenuto? Si prenda Telecom. Ieri, la
sua massima autorità, ha candidamente dichiarato d’essere stato tenuto
all’oscuro sull’affare di cessione allo spagnolo “invasore”. E sì che al tempo
che è stato dei Prodi e dei D’Alema si inneggiò ai “capitani coraggiosi” –
testuale D’Alema - che si erano prodigati a salvare il carrozzone ed il bel
paese. Oggi, attorno a quei “capitani coraggiosi” è calato il
silenzio. Si intasca e si continua a saltare “da un consiglio di
amministrazione all’altro come usignoli sui rami, quasi sempre lasciandosi
dietro disastri epocali e balzando a combinarne di nuovi”. È storia
passata e recente del bel paese. Ha scritto sempre ieri Massimo Giannini sul
quotidiano la Repubblica – “La ballata
dei poteri morti” -: Tutti bugiardi. Perché tutti sapevano tutto,
da mesi se non addirittura da anni. Non c’è fine più annunciata di quella che
sta per portare Telecom nelle braccia di Telefonica. Sui quotidiani e sui
settimanali, negli ambienti politici e in quelli borsistici, il dramma dell’ex
colosso tricolore è all’ordine del giorno da tempo. E l’opzione spagnola era
già quasi scontata dal 2007, quando Telefonica fu imbarcata dentro la holding
di controllo Telco, spacciata come «operazione di sistema» dagli improbabili
architetti di Mediobanca, Generali e Banca Intesa. Per scongiurarla, i soci
«eccellenti» dell’ex Salotto Buono avrebbero dovuto avere in tasca i miliardi
necessari ad una robusta iniezione di capitali freschi. I manager avrebbero
dovuto avere in testa un piano di sviluppo del business telefonico e delle
alleanze globali. I politici avrebbero dovuto avere in mano un progetto di
politica industriale degna della quinta potenza del pianeta. E invece, dopo la
spoliazione della Stet successiva alla «madre di tutte le privatizzazioni», la
truffa dei nocciolini duri perpetrata dalle nobili casate sabaude pronte a
controllare le aziende con una fiche di pochi spiccioli, il saccheggio
realizzato dalla squadra tronchettiana, non c’è stato quasi più nulla. Solo la
prosecuzione della razzia con altri mezzi: dal 2007 ad oggi, nella cinica
accidia della comunità finanziaria e politica, Telecom ha subito un ulteriore
drenaggio di risorse per circa 24 miliardi. A chi millantano la loro meraviglia
e la loro indignazione, oggi, i controllanti e i controllati? (…). Dunque su
Telecom (…) non si celebra la saga dei Poteri Forti, ma la ballata dei Poteri
Morti. Questo è ciò che resta del famoso «capitalismo di relazione» (e in
qualche caso «di corruzione»). Capace di regalare la telefonia italiana a un
indebitatissimo Cesar Alierta per un piatto di lenticchie. Di consentire agli
spagnoli di portarsi via l’intera posta senza fare l’Opa, senza far arrivare
neanche un euro nelle casse svuotate di Telecom e nei portafogli delusi di una
Borsa trattata come una bisca. E questo è ciò che resta dell’establishment
economico e dell’élite finanziaria. Mosche del capitale, che succhiano i loro
ultimi dividendi sulle spoglie delle aziende e di chi ci lavora. (…).
Telefonica prenderà il controllo di Telecom senza consolidare il suo debito.
Lascerà che siano gli altri, nel frattempo, a fare il “lavoro sporco”. Cioè
smembrando l’azienda e avviando uno spezzatino selvaggio, attraverso il sacrificio
della attività più redditizie in Brasile e in Argentina, mercati dove il gruppo
italiano dava fastidio a Telefonica perché competeva alla pari sul mobile. Alla
fine delle tre tappe fissate dall’operazione, Alierta ingoierà Telco,
finalmente alleggerita dai debiti. Il tutto avverrà a un prezzo di 1,09 euro ad
azione, di cui beneficeranno solo i «compagnucci della parrocchietta» milanese,
messa in piedi dalla Galassia del Nord sei anni fa. Il 78% degli altri
azionisti, comuni mortali che hanno comprato in Borsa, non vedranno un
centesimo. (…). Ricordate dei cosiddetti “furbetti del quartierino”?
Solamente dei principianti a confronto con lor signori. Poiché non vi sfuggirà
che dei cosiddetti “capitani coraggiosi” ne spuntano copiosamente ad ogni stagione
politica. Ce ne rende memoria Federico Fubini sul quotidiano la Repubblica del
25 di settembre con un pezzo, “L'aereo
francese”, che è tutto un dire: Quando il 19 marzo del 2008 atterra a Roma
Jean-Cyrille Spinetta, allora numero uno di Air France, per Alitalia si
presentano buone notizie. La compagnia è alle soglie del fallimento, disertata
dalla clientela, ma Spinetta rilancia: Air France è disposta a comprare
Alitalia dal Tesoro per una somma fra 2,5 e 3 miliardi di euro, in più si
accolla i tre miliardi di euro dei suoi debiti e si impegna a investirne altri
sei in dieci anni. Un’operazione da circa sei miliardi a beneficio delle casse
dello Stato (…), più altri sei in sviluppo futuro. Non se ne farà di niente. La
Cgil in Alitalia osteggia la fusione e Berlusconi sposta l'ago della bilancia
puntando la campagna elettorale di allora sull'«italianità» della compagnia.
Oggi tutti i protagonisti di allora sono costretti a sperare che la stessa Air
France prenda il controllo di Alitalia con appena 150 milioni: venti volte meno
del prezzo rifiutato cinque anni fa. Ma questa è solo una parte della beffa,
poi arrivano gli altri oneri. (…). Nell'estate 2008 infatti il governo
Berlusconi favorisce una cordata di investitori privati italiani nella
compagnia, spostando i tre miliardi di debiti di Alitalia su una nuova bad
company sotto il controllo del Tesoro.
Cioè a carico dei cittadini. Inoltre, ottomila dipendenti vengono messi in
mobilità, ancora una volta a carico dello Stato, e undicimila restano. (…). Qui
sorge il primo problema perché, accollando ai cittadini i debiti della vecchia
Alitalia, di fatto il governo concede alla cordata italiana un aiuto di Stato.
Una violazione della parità di condizioni fra concorrenti. Meridiana e Ryanair
presentano ricorso alla Commissione europea, ma sono sfortunati: il
responsabile dei Trasporti all'epoca è Antonio Tajani, ex portavoce di
Berlusconi, cioè del padre dell'operazione nuova Alitalia. «A Bruxelles ci
presero a pesci in faccia», ricorda ora l'esperto di Antitrust e all'epoca
consulente di Meridiana Roberto Pardolesi. (…). Potrà quella luce in
fondo al tunnel, seppur esiste, resistere alla turbolenza dei mercati? E di lor
signori - di melloniana memoria -, cosa ne dovremmo fare? Esiste per lor
signori una cassa integrazione, una messa ai margini per incompetenza –
lasciando al potere giudiziario di accertare eventuali operazioni delittuose -
avendo dilapidato risorse, ricchezze e financo il buon nome di questo
disastrato paese?
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