Oggi è l’8 di settembre. Ci sono
date, nella storia dei popoli, che documentano, più di tantissimi altri
“strumenti” d’osservazione e d’analisi, la storia più o meno virtuosa e la vita
più o meno operosa delle comunità umane. E l’8 di settembre dell’anno 1943 è
una di quelle date che suggellano il carattere proprio di un paese. Oggi è un
altro 8 di settembre. Non ci sono uomini in fuga dalle loro responsabilità,
carriaggi in viaggio verso altri luoghi di salvezza; quest’8 di settembre – che
precede i giorni che segneranno la vita sociale e politica del bel paese - ci
si augura che non sia a divenire una nuova data d’infausta memoria. Ricorda
Giovanni Valentini sul quotidiano la Repubblica di ieri 7 di settembre – “Ma il voto popolare non cancella i reati”
- : È
(…) questa mentalità collettiva – o “senso comune”, indotto dall’imbonimento
della televisione commerciale – che può contribuire a spiegare il deficit di
indignazione, la carenza di una larga disapprovazione pubblica nei confronti
degli atti illeciti di Berlusconi. Il processo di identificazione reciproca tra
il leader e il suo popolo è arrivato al punto da ipnotizzare o narcotizzare il
pubblico dei teledipendenti. Lui stesso ha incarnato così un “modello di
comportamento” in negativo, trasferendolo dalla sfera degli affari a quella
della politica. Se manca l’indignazione pubblica, manca di conseguenza
l’indegnità personale. Quella consapevolezza, cioè, che avrebbe già dovuto
indurre Berlusconi a dimettersi da senatore, dopo la condanna a quattro anni di
reclusione e cinque di interdizione dai pubblici uffici. Non si scopre oggi,
del resto, che l’opinione pubblica italiana, per una serie di ragioni storiche
e culturali, difetta di quell’etica civile che in altri Paesi è stata ispirata
soprattutto dalla riforma protestante. Altro che contenzioso giuridico, dunque,
sulla retroattività o irretroattività della legge Severino. La decadenza è, in
pratica, una conseguenza automatica della sentenza emessa dalla Corte di
Cassazione. Al pari dell’incandidabilità, non può che scattare ex nunc, come
dicono i giuristi, nel momento stesso in cui il parlamentare diventa un
pregiudicato. E infatti, è una pena accessoria che si aggiunge a quella
principale della reclusione, come una sanzione amministrativa, in analogia con
gli effetti civili di una sentenza penale. Se un reo non può entrare in
Parlamento, evidentemente deve uscirne appena si accerta in via definitiva la
sua colpevolezza. È in questo quadro di avvilente sociologica realtà
che Vittorio Sermonti - scrittore, traduttore di teatro e di poesia, celeberrimo
lettore del sommo Poeta – ha inteso intervenire con una lettera aperta al
Presidente della Repubblica – sul quotidiano la Repubblica – affinché un nuovo
8 di settembre non abbia a segnare l’indecorosa storia politica del tempo che
ci è dato di vivere.
Caro Presidente ma che cosa sta
succedendo in Italia? Possibile mai che a un cittadino della Repubblica sia
permesso (come è stato permesso ai primi di agosto) di additare con le lacrime
agli occhi allo scherno di un migliaio o due di cittadini adoranti che
brandiscono bandieroni stampati in serie e cartelli girati all’indietro per
essere ripresi dalle telecamere, i giudici della Corte di Cassazione, colpevoli
di averlo condannato per frode fiscale?Possibile che gli sia consentito (come
gli è stato consentito) di ridicolizzare magistrati del più alto ordine
giudiziario come «impiegati che hanno fatto un compitino vincendo un concorso»,
lui unto dal popolo, cioè presidente-padrone di un partito che ha riscosso
parecchi consensi, comunque meno di un quarto del corpo elettorale, e che
personalmente è disprezzato da quasi tutti gli altri elettori, e irriso nel
resto d’Europa e del mondo? Possibile che quella bella manifestazione di
strada, diffusa in diretta tv, e introdotta dall’inno nazionale, si sia
insediata protervamente al centro dell’informazione televisiva e della vita
politica e civile della nazione da settimane e settimane? E che le parole del cittadino
con le lacrime agli occhi siano poi state citate impunemente dal suo staff a
esempio di responsabilità istituzionale e di moderazione politica? E che Lei,
signor Presidente, davanti alla nazione che la Sua persona ha onorato nel mondo
con tanta fermezza e tanto equilibrio sia scandalosamente convocato ogni giorno
che passa a tamponare una ininterrotta serie di ricatti per evitare il collasso
dell’esecutivo, mentre il Paese intero arranca per sopravvivere e il
Mediterraneo è spazzato da venti di guerra? Presidente, mio Presidente, Lei sa
molto meglio di me come una comunità tessuta di parole che non hanno più peso
né senso perché ogni affermazione vale la sua smentita, e in cui l’iniquità si
perfeziona nel cavillo, non è un Paese decente, certo non è un Paese per
giovani. Una accettabile stabilità di governo in una fase di estrema labilità
economica e di grande turbamento sociale entro un quadro internazionale
minacciosissimo va accanitamente difesa (chi non se ne rende conto?): ma forse
non a qualsiasi prezzo. E se il prezzo è l’ossatura morale del Paese, l’onore
della sua lingua, cioè della sua identità profonda, la povera faccia di
ciascuno di noi, io penso disperatamente che quel prezzo non vada pagato. La
politica svolga il suo compito; le istituzioni, il loro. Ma è arrivato il
momento che ogni singolo cittadino – in democrazia il solo soggetto che dia
corpo e legittimità alla maggioranza e, in casi estremi, l’unico contrappeso
alla maggioranza – si metta in piazza per dire chiaro che non sopporta più di
vivere ostaggio dell’egolatria eversiva di un frodatore del fisco, e tanto meno
(è un problema di noi vecchi), di morirci.
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