Se foste Voi il giudice. Scrive
in “punta di diritto” Bruno Tinti su “il Fatto Quotidiano” del 27 di luglio
2013 – “Fisco, si fa presto a dire «necessità»”
-: La
legge prevede da millenni le cosiddette “scriminanti”, dette anche “cause di
giustificazione”. Tra queste c’è lo “stato di necessità”, art. 54 del codice
penale: “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto
dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave
alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti
evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”. Come sempre,
l’interpretazione della legge va fatta con attenzione. Fin qui il fine
giurista. Ed il costume di un paese? Anzi il malcostume? Due fatti. Incontro
l’amico divenuto nel tempo intraprendente imprenditore. Avrò il fatto già
raccontato. Da artigiano è divenuto nel tempo un “rampante”. Gira in Suv nera,
come prescritto. Non ha la semplicità di un tempo ma è divenuto sussiegoso. Il
nuovo stato ne ha fatto una persona diversa. In quell’occasione ha avuto modo
di deplorare uno Stato vampiro a suo dire. Ché, spiega, se lui non avesse evaso
gli obblighi fiscali non avrebbe potuto realizzare quel che ha realizzato. Cose
da inorridire. Dette con una sfrontatezza che non ha eguali. Alla mia risposta
intransigente che non vi era giustificazione alcuna all’evasione degli obblighi
fiscali – nel contempo il rampante usufruisce di tutti i servizi di uno stato
sociale colabrodo – pur di divenire un nuovo rampante in Suv, non ne è apparso
pienamente convinto ed il suo saluto è stato, nell’occasione laconico e senza
il calore emotivo di altre occasioni. Il suo “stato di necessità”? Ampliare la
sua attività di imprenditore. Ma al contempo, senza vergogna alcuna, godere dei
servizi e dei sussidi dello stato sociale pagato dagli altri. Aggiunge Bruno
Tinti: Il pericolo deve essere attuale (l’attualità è variabile: ho fame oggi;
il bilancio chiuderà in perdita tra un anno); se non è così, c’è tempo di
cercare soluzioni alternative. Il danno deve essere grave, per restare
all’esempio, abbiamo fame, i bambini sono ammalati, l’azienda chiude sicché io
non guadagnerò più una lira e i dipendenti perderanno il posto di lavoro. Il
fatto (illecito) deve essere proporzionato al danno: se il problema è che non
posso cambiare l’automobile o andare in vacanza; o che devo abbandonare la casa
per andare ad abitare in una più piccola; in questi casi non potrò invocare la
scriminante: non ho un diritto insopprimibile a vivere agiatamente. Ma
soprattutto il pericolo non deve essere volontariamente causato. Questo è il
punto fondamentale. Se ho vissuto come un nababbo negli anni grassi senza
accantonare riserve o se ho fatto investimenti imprudenti; allora non posso
scaricare sulla collettività le conseguenze delle mie scelte sbagliate,
appropriandomi dei soldi dello Stato o facendo mancare il mio contributo,
obbligatorio ex art. 53 della Costituzione: “Tutti sono tenuti a concorrere
alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”. (…). Cosa
succederebbe se si potesse impunemente rubare un sandwich, giustificandosi poi
con la Polizia dicendo: “Avevo fame”? Magari è anche vero. Ma se hai in tasca
un pacchetto di sigarette che ti è costato 4 euro, la risposta sarà: “E perché
non hai comprato pane invece di sigarette?”. Naturalmente questo è solo un
esempio; ma bisogna rendersi conto che lo “stato di necessità” è una cosa
seria: proprio non si può fare altrimenti; e non deve essere colpa tua se non
si può. Fassina forse non lo sapeva. (…). Se Voi foste il giudice. Dall’imprenditore
rampante, senza doveri sociali, ad una storia minima condominiale. La solita
noiosissima, interminabile “riunione condominiale”. Bla, bla, bla… Ed il solito
caso del condomino moroso. Che espone il suo “stato di necessità”. In questi
termini precisi: che sia preferibile comprare il ciclo al figlioletto che
pagare le mensilità al condominio. Ma intanto usufruisce dei servizi che il
condominio provvede ad elargire. Fatto avvenuto nel nostro condominio. Se Voi
foste il giudice. In “punta di diritto” Bruno Tinti scrive: Avrebbe
senso dire: “Rubare un pezzo di formaggio quando si ha fame è una questione di
sopravvivenza”? La risposta giusta è: “Dipende”. L’analogia ha due meriti.
Consente di ragionare senza ostacoli ideologici: tutti (o quasi) sono convinti
che rubare non sta bene. E poi permette di riflettere sul fatto che una gran
parte dell’evasione (quella che riguarda l’Iva o le ritenute d’acconto)
consiste nell’appropriarsi di soldi non propri: non si tratta dei ricavi
dell’imprenditore o del lavoratore autonomo ma di quattrini che egli riceve
perché li consegni al Fisco (Iva) o che egli dovrebbe consegnare al dipendente
affinché questi li consegni al Fisco e che invece deve versare direttamente
(ritenute). Insomma, molto simile al furto. Allora, perché “dipende”? (…). Il
Tribunale di Trento ha ravvisato la scriminante dello stato di necessità nel
caso di un imprenditore i cui creditori non avevano pagato, privando l’azienda
di ogni liquidità e cagionandole una crisi gravissima. Il Gip di Milano ha
sostenuto la stessa tesi nel caso di altro imprenditore, vittima
dell’inadempimento della Pubblica Amministrazione. Il Tribunale di Milano ha
valorizzato la storia economica dell’azienda e le difficoltà, non a questa
imputabili, che le avevano impedito l’assolvimento degli obblighi fiscali. Qual
è la differenza tra queste sentenze e l’improvvida affermazione di Fassina? I
giudici hanno dichiarato non punibile l’inadempimento fiscale dopo un’indagine
approfondita sulla condotta del contribuente, accertando che la situazione di
illiquidità non era attribuibile a lui e valutando le conseguenze che ne
sarebbero derivate sull’azienda. Il che vuol dire: non versare Iva e ritenute
non si può fare, è reato; se non si è versato è perché condotte di terzi, non
prevedibili (esiste debitore più affidabile della Pa? E, evidentemente, i
debitori dell’imprenditore di Trento meritavano fiducia) lo hanno reso
impossibile; una condotta diversa avrebbe cagionato danni gravi, proporzionati
a quello cagionato al Fisco. Fassina ha spiegato ai cittadini che B aveva
ragione: oltre un certo livello (soggettivo naturalmente: ma come, volete che
mi venda la Porsche?) evadere è legittimo. Meglio se se ne stava zitto.
Se Voi foste il giudice. Anni addietro Marco Pannella avviò una iniziativa politica
affinché venisse abolita la ritenuta fiscale alla fonte a carico dei lavoratori
dipendenti – del pubblico e del privato - da riversare all’erario. Si ritenne, dai
più della mia parte politico-sindacale, me compreso, improvvida l’iniziativa e
non meritevole di sostegno alcuno. A distanza di tantissimi anni, da quel tempo
andato, quella iniziativa non mi appare più tanto peregrina. A pensarci bene la
fascia sociale del lavoro dipendente non ha mai potuto godere di una “stato di
necessità”. Ad ogni inasprimento fiscale, ad ogni torchiatura delle buste paga,
ad ogni manovra o manovrina quel parco buoi non ha avuto altro scampo che
stringere ancor più la cinghia. Mentre tutto il resto dei rampanti ha
provveduto di per sé a creare e fare proprio uno “stato di necessità”.
Evadendo. Mollando lo stato sociale ma continuando a godere dei servizi da esso
elargiti. Se Voi foste il giudice. Ha scritto Tito Boeri, in “La sopravvivenza dei furbi”, sul
quotidiano la Repubblica del 26 di luglio 2013: L’economia sommersa, l’insieme di
attività svolte senza pagare tasse e contributi sociali, conta tra un sesto e
un quarto del nostro prodotto interno lordo, a seconda della stime. (…). È una
piaga nazionale, un fardello che pesa sulla parte più avanzata del nostro
tessuto produttivo, localizzata soprattutto nel Nord del paese, costringendola
a pagare anche le tasse degli altri (…). Allontana la soluzione dei problemi
del Mezzogiorno. Perché l’illegalità alimenta altra illegalità ben più grave: è
proprio sullo smercio delle produzioni del sommerso economico che spesso vive e
vegeta la criminalità organizzata, come ci ha spiegato con rara efficacia
Roberto Saviano. Il sommerso viene storicamente tollerato in Italia. (…). È
comprensibile che non si voglia forzare alla chiusura imprese in un momento
come questo. Ma perché dobbiamo farne pagare lo scotto alle aziende, anche
queste piccole per lo più, che sono in regola? Non sarebbe meglio ridurre la
pressione fiscale sul lavoro per tutte le imprese e, al tempo stesso,
rafforzare i controlli? La verità non detta da Fassina e da chi ieri lo ha
applaudito è che chi oggi vuole abolire le tasse sulla casa, anziché quelle sul
lavoro, e vuole tollerare maggiormente l’evasione, ha scelto di far pagare di
più le tasse a chi le ha sempre pagate. È una scelta di politica economica
conseguente, che ha accomunato i governi di centro-destra, che hanno in gran
parte gestito la politica economica in Italia negli ultimi 15 anni. Ieri
abbiamo avuto da parte di un sottosegretario aspirante segretario del Pd, un
sorprendente segnale di continuità con quelle politiche. (…).
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
lunedì 29 luglio 2013
sabato 27 luglio 2013
Cronachebarbare. 16 I “colpi di mano” di luglio.
A proposito di “colpi”.
Ci sono i cosiddetti “colpi bassi”. È che essi rimandano
all’arte del pugilato ed hanno ben poco da spartire col tema odierno. E poi c’è
il “colpo
di fulmine”. È che esso rimanda alla sfera emozionale degli umani.
Anche se, di recente, ho letto, in una cronaca estiva, di un “colpo
di fulmine” – se così lo si potesse denominare - che ha tragicamente
ucciso un giovanissimo bagnante. Qual è la probabilità d’essere presi sulla
spiaggia, sul bagnasciuga, a piedi nudi ed in costume da bagno da un “colpo
di fulmine”? Pochissime. Ci vuole una buona dose di sfortuna. Meglio
rimanere al “colpo di fulmine” che sta a capo delle nostre emozioni. E poi
c’è il “colpo di frusta”, che è cosa afferente ai traumi del tratto
cervicale e che meglio vien definito come il "colpo di frusta cervicale".
Nulla da spartire col tema odierno. E c’è poi il “colpo di calore”, che
ben lo si potrebbe, malauguratamente, riscontrare con le torride giornate di
questa stagione. E del “colpo della strega”? Anch’esso una
patologia, molto tenuta in considerazione – dai soliti furbi - nelle vicende
assicurative a seguito di incidenti stradali. Una carta vincente, sempre! E poi
il “colpo
di mano”. Ma il pensiero non vi porti a pensare alla destrezza dei
mariuoli di strada. Il vero “colpo di mano” è fatto da
onorevoli, molto onorevoli, personaggi dell’antipolitica al potere. E non da
oggi. Da sempre. Nei manuali del classico “colpo di mano” di luglio se ne
ritrova uno celeberrimo. È che i colpi di mano si fanno sempre nelle torride
giornate. Ci vuol sempre il clima giusto. La gente è stanca, non ne vuol
sapere, è distratta, va ciabattando - clap, clap, clap -; sorbisce gelati e
passeggia possibilmente a dorso nudo e con i pinocchietti di stagione. Ha ben
altro a cui pensare. Ed è allora che i maestri onorevoli del “colpo
di mano” tentano il “colpo” per l’appunto. Dicevo del celeberrimo “colpo
di mano” di qualche anno addietro. Quell’anno – il 1994 - viene
comunemente denominato della “discesa in campo”. Era per
l’esattezza il 13 di luglio della “discesa in campo”. Il governo
dell’innominabile aveva emanato un decreto legge a firma dell'allora Ministro
della Giustizia (sic!) Alfredo Biondi che, per tale ragione, nei sopradetti
manuali dei “colpi di mano”, viene ancora oggi ricordato come il "decreto
Biondi", o meglio, a detta dei più, il decreto "salva-ladri".
È che esso, il decreto “salva-ladri”, consentiva di
affidare benevolmente agli arresti domiciliari tutti coloro che fossero incorsi,
a loro insaputa, in crimini di corruzione. Si era appena usciti – o si tentava,
inutilmente, d’uscirne - da “tangentopoli”. Mai sentito parlare
di “tangentopoli”?
Ma la cosa più strana – mica tanto, poi, nel bel paese del calcio e della
canzonetta - fu che quel “colpo di mano” venne tentato nel giorno
in cui si sarebbero svolte le semifinali della Coppa del Mondo e l'Italia avrebbe
sconfitto la Bulgaria. E poi si dice che il calcio… All’apparire delle immagini
dei politici, dei mariuoli e dei lestofanti accusati di corruzione che uscivano
dal carcere per effetto di quel “colpo di mano” la gran parte dei
magistrati del pool Mani Pulite insorse dichiarando che avrebbe rispettato sì le
leggi dello Stato, incluso il così detto decreto “salva-ladri", ma che non
avrebbe potuto lavorare in una situazione di conflitto tra il dovere e la
propria coscienza chiedendo pertanto di essere assegnati ad altri incarichi. Ma
avvenne il miracolo, e che miracolo, che non si è più ripetuto: il “popolo
dei fax”, a migliaia e migliaia, svegliandosi come di soprassalto dal
sopore indotto dalla calura di quel tempo, inondò le redazioni dei giornali e
delle televisioni con le proprie proteste. Il “colpo di mano” venne in
gran fretta ritirato. I turiferari del tempo parlarono di "malinteso",
ed un certo Roberto Maroni – sempre come Ministro dell'Interno, quello che “al
Nord la mafia non c’è” - sostenne che non aveva nemmeno avuto la possibilità di
sapere del contenuto del tentato misfatto. Tanto per dovere di cronaca, il 28 di
luglio, sempre della “discesa in campo”, venne arrestato
Paolo Berlusconi, fratello dell’innominabile, con l'accusa di corruzione. Tanto
per cambiare. E la Memoria collettiva dov’è? Ancora oggi sulla spiaggia. E ci
risiamo. Cantava, soavemente e beatamente, un Riccardo Del Turco “luglio,
col bene che ti voglio…”. La stagione perfetta per i “colpi
di mano”, per l’appunto. Luglio 2013. Primo “colpo
di mano”. Da “Laide intese” di Marco Travaglio su
“il Fatto Quotidiano” del 25 di luglio – come se niente fosse accaduto 70 anni
dopo il “Gran consiglio” -: (…). L’ultimo stupore dei tartufi riguarda
la legge sul voto di scambio. Oggi il politico che baratta voti con la mafia in
cambio di favori, appalti, assunzioni, fondi pubblici agli amici degli amici
non commette reato. Perché questo scatti, occorre che i voti li paghi in
denaro, cash: cosa che naturalmente non fa nessuno (l’unico precedente, secondo
gli inquirenti, riguarda quel gran genio di Vittorio Cecchi Gori). I mafiosi
sono ricchi, ma abbisognano di “altre utilità” (proprio quelle che una manina
cancellò all’ultimo momento dal testo del ’92). Ora le “altre utilità” vengono
inserite nella riforma frutto del compromesso Pd-Pdl-montiani sotto l’alto
patrocinio del presidente ridens del Senato, Piero Grasso. Ma naturalmente è
tutto finto. Fatto l’inganno, trovata la legge. L’escamotage che salverà gli
scambisti ruota intorno ad altre tre soavi paroline: “consapevolmente”,
“procacciamento” ed “erogazione”. La prima pretende che il giudice processi le
prave intenzioni del politico votato dai mafiosi: il che, nel paese dell’“a mia
insaputa”, è impossibile. Diranno tutti che non se n’erano accorti, o che la
mafia li votava per simpatia. La seconda e la terza rendono insufficiente la
promessa di voti dal mafioso al politico: bisognerà dimostrare che questi sono
davvero arrivati (e come si fa? Si nascondono telecamere nei seggi?). Casomai,
in queste strettoie, si riuscisse a far passare qualche politico colluso, ecco
la soluzione finale: il riferimento al 416-bis, l’associazione mafiosa, per le
modalità di procacciamento: non basta che il mafioso porti voti, occorre pure
provare che l’ha fatto con metodi violenti e intimidatori. Se invece è stato
gentile, con un’occhiata delle sue o un riferimento ai bei bambini dell’elettore,
è tutto lecito. Cose che accadono quando si affida la legge sul voto di scambio
ai politici che lo praticano da sempre o hanno addirittura fondato un partito
col sostegno di Cosa Nostra. Ma in fondo è meglio così. In un paese dove a ogni
indagine o arresto o processo su un qualunque politico delinquente scatta la
rivolta dell’intero Parlamento e del 99 per cento della stampa contro la
persecuzione, l’accanimento e i teoremi ai danni del Tortora reincarnato,
inventare nuovi reati per i politici delinquenti non è solo difficile: è
inutile. E dannoso. (…). Secondo “colpo di mano”. Da “Soldi ai partiti, la spugna del Pdl”
di Liana Milella, sul quotidiano la Repubblica del 26 di luglio – il giorno
dopo del “Gran consiglio” -: Via il carcere per punire il finanziamento
illecito dei partiti. Via i quattro anni di pena. Solo "una sanzione
amministrativa pecuniaria". Firmato, ovviamente, il Pdl. Seppellita per
sempre Mani Pulite. Cancellate tutte le inchieste presenti e future. Una
moratoria pazzesca. Incredibile solo a pensarla, proprio di questi tempi. A
guardare il lungo catalogo delle leggi ad personam è il più clamoroso dei colpi
di spugna. Una maxi depenalizzazione. Mai, in vent'anni di norme per demolire
il codice penale, si era osato tanto. (…). …eccola qui la madre di tutti i
possibili azzeramenti. Cinque righe in tutto. Un emendamento al disegno di
legge del governo che cancella il finanziamento pubblico dei partiti e vorrebbe
fissare le nuove regole per garantire "la trasparenza". (…). Ebbene, ecco
comparire lì l'articolo 10-bis. (…). Dice l'emendamento: "All'articolo 7,
terzo comma, le parole da "reclusione a triplo" sono sostituite dalle
seguenti "sanzione amministrativa pecuniaria pari al triplo"".
(…). Che succede con questo emendamento? Bisogna leggere il terzo comma
dell'articolo 7 della legge 195. Essa impone che "chiunque corrisponde o
riceve contributi senza che sia intervenuta la deliberazione dell'organo
societario o senza che il contributo o il finanziamento siano stati
regolarmente iscritti nel bilancio della società stessa, è punito, per ciò
solo, con la reclusione da 6 mesi a 4 anni e con la multa fino al triplo delle
somme versate". Carcere più multa dunque. Doppia pena per chi viola una
fondamentale regola di trasparenza, cioè dà i soldi di una società senza che di
ciò resti traccia, con l'ovvia conseguenza che se la società ottiene poi dei
vantaggi dal politico non si può stabilire la relazione. (…). Mani pulite fu
costruita su tre reati, il falso in bilancio, la concussione, il finanziamento
illecito. Il primo lo hanno acciaccato nel 2001 per salvare Berlusconi. Il
secondo è finito vittima della legge sull'anti-corruzione. Adesso tocca al
terzo. Se davvero dovesse cadere anche il finanziamento illecito nessuno deve
più parlare di trasparenza e di lotta alla corruzione. Dicono che i
molto onorevoli lavoreranno tutta l’estate per provvedere al “bene
comune”. Quale? Speriamo, invece, che vadano presto in vacanza
chiudendo il “parlatorio” – senza un recondito secondo senso -. Per il bene
di tutti.
giovedì 25 luglio 2013
Eventi. 10 «Il più bel funerale del fascismo».
Ha dello straordinario il
“racconto”, se così lo si potrebbe definire, che del 25 di luglio di settanta
anni addietro ne ha fatto Jenner Meletti sul quotidiano la Repubblica del 22
Luglio 2013 col titolo, che sorprende anch’esso, “La pastasciutta della memoria”. Un titolo che potrebbe,
nell’occasione, sembrare dissacrante, irriverente. Ma non lo è. Poiché quel Suo
“racconto” è pregno di “Memoria” alta, altissima, di umanità piena, pienissima,
che ci soccorrono nei tempi cupi che siamo chiamati a vivere, cupi questi sì e
più di quelli, poiché essi sono senza visione di un futuro. Settanta anni
addietro erano tempi di guerra, di fame, di morte, ma dal “racconto” è come se quegli
anni cupi avessero una loro “leggerezza” che non la si ritrova nei giorni che
viviamo. La “leggerezza” della speranza. È a Giovanni Bigi che Jennerr Meletti affida la
narrazione di quelle giornate straordinarie: «E io ero là, quella mattina.
Ero ormai di casa. Agostino, uno dei fratelli, aveva sposato mia sorella Irnes.
Un altro Cervi, Gelindo, aveva sposato una sorella di mio padre, Iolanda.
Allora avevo 16 anni...». (…).«È passato uno in strada e si è messo a gridare:
"l'è caschè, l'è caschè...". È caduto, è caduto. "Ma chi è
casché?", chi è caduto? "Al Duce, i l'han mess in galera". È il
Duce, l'hanno messo in carcere ». L'intera famiglia si riunisce al fresco del
portico. Ci sono Alcide e la moglie Genoeffa, i figli Ettore, Ovidio, Agostino,
Ferdinando, Aldo, Antenore e Gelindo. È a questo punto che vien fuori
la straordinarietà di quel tempo, di quella gente. E sì che la guerra e la
tirannide nazi-fascista avrebbero dovuto fiaccare quei cuori e quelle menti. Si
è in quel di Gattatico, in provincia di Reggio Emilia, terra di lavoro e di cooperazione.
Terra di “sentimenti” alti e forti di umanità che la bruttura di quei tempi non
era riuscita a cancellare. Continua il Bigi per la penna – oggigiorno il
computer – di Jenner Meletti: «L'idea della pastasciutta — (…) — è venuta
ad Aldo e gli altri si sono detti subito d'accordo. "Non possiamo fare una
manifestazione perché se il Duce è caduto i fascisti e i tedeschi sono ancora
qui e Badoglio ha detto che la guerra continua. Ma il popolo ha fame e allora
gli diamo da mangiare. Non credo che avremo problemi"». L'organizzazione
viene affidata a Gelindo. «È stato lui ad andare dal fornaio di case Cocconi
per ordinargli la pasta. La farina? Due quintali li hanno messi i Cervi e mezzo
quintale noi Bigi, che come i Cervi eravamo affittuari, più ricchi dei
mezzadri. Certo, il grano si doveva portare all'ammasso ma noi contadini
eravamo furbi. Prima dell'arrivo della trebbiatrice — sorvegliata dai militi
fascisti — noi battevamo i covoni per terra, così recuperavamo parte del
frumento. Nelle nostre case non si pativa la fame». Il fornaio chiede l'aiuto
delle donne di case Cocconi per impastare la farina. «Gelindo va poi alla
latteria sociale Centro Caprara per chiedere al casaro di cuocere la pasta
nelle grandi caldaie che servono a preparare il parmigiano reggiano. Anche il
casaro chiede l'aiuto delle donne del paese per grattugiare il formaggio che
sarà il condimento della pasta, assieme al burro. Non c'erano le grattugie
elettriche, allora. Si faceva tutto a mano ». (…). «E io, Bigi Giovanni, ho
avuto un incarico importante: con il mio carro e il mio cavallo ho portato i
bidoni pieni di pasta fino alla piazza grande di Campegine. Li ho caricati al
caseificio alle ore 11». La voce si sparge, dalle case di campagna braccianti e
contadini escono con i piatti in mano, o anche con le zuppiere e si mettono
dietro al carro come in processione. (…). «Sul carro con me — racconta Giovanni
Bigi — c'erano quattro ragazze. Ricordo i nomi solo di tre di loro: Eletta Bigi
che era mia sorella, Amedea Barani e Maria Zaniboni. Diventeranno tutte
staffette partigiane. Alle 13 siamo in piazza e le ragazze cominciano a
riempire i piatti. Arriva subito il maresciallo dei carabinieri che parla con
Gelindo e dice: questa è una manifestazione e sapete bene che gli assembramenti
con più di tre persone sono proibiti. "No — gli risponde Gelindo — qui c'è
soltanto gente che ha fame. Maresciallo, prenda un piatto di pasta e torni in
caserma. All'ordine pubblico ci pensiamo noi, non succederà niente"». In
piazza c'erano anche gli altri fratelli Cervi. Se il “racconto” di
Jenner Meletti non fosse impresso sulla vile carta stampata di un quotidiano ma
fosse impresso sulla celluloide – come nei tempi andati del cinema prima che il
digitale la mandasse in pensione, alla celluloide intendo dire – assisteremmo
alla scena clou di quel film. In essa si coglierebbe la straordinarietà di quei
tempi e di quegli uomini e di quelle donne nei quali il nazi-fascismo non era
riuscito, con tutto il terrore disseminato a piene mani, a spegnere la
fiammella della umanità, dell’altruismo e di quel sentire che avrebbe poi dato
sostegno morale alla lotta partigiana che da quel 25 di luglio dell’anno 1943
avrebbe devastato gran parte del bel paese. E quella generosità e quella
umanità le ricorda, forse con grandissimo orgoglio, la voce narrante di
Giovanni Bigi: «Uno si avvicina ad Antenore e gli dice: c'è anche un fascista che
aspetta la pastasciutta, ed è in camicia nera. Antenore risponde: se è qui,
vuol dire che ha fame. Poi gli va vicino e gli dice: certo, la camicia nera te
la potevi togliere. E lui: ho solo questa. E Antenore, pronto: vedi come ti ha
ridotto il fascismo? Non hai nemmeno due camicie. Io ero lì, al fianco di
Antenore. E per la prima volta in vita mia vidi spuntare tre o quattro
cartelli, con scritto "Abbasso il fascismo", "Viva la
Pace"». Sono ormai vent'anni che, nell'aia e nei prati di casa Cervi, il
25 luglio si prepara la «pastasciutta antifascista». (…). «Io, quel pomeriggio (…),
rimessi i bidoni vuoti sul carro, credevo che tutto fosse finito. E invece...».
E poi la tragedia dei Cervi ad opera di un mostro morente. Scrive a
conclusione del Suo “racconto” Jenner Meletti: All'alba del 25 novembre 1943 la
casa dei Cervi viene circondata dai militi della Guardia nazionale
repubblicana. Alcide ed i suoi figli, assieme al partigiano Quarto Camurri,
vengono portati nel carcere dei Servi a Reggio Emilia. I sette fratelli,
assieme a Quarto Camurri, vengono fucilati alle 6,30 del 28 dicembre al
Poligono di tiro della città. Il 15 novembre 1944 la loro madre, Genoeffa
Cocconi, muore di crepacuore. «Oppressa dal dolore», scrissero sui manifesti
funebri. Riporta Jenner Meletti quel che ne scrisse papà Cervi a
proposito di quella “pastasciutta” collettiva: «È stato — (…) — il più bel
funerale del fascismo». E poi fu la guerra civile, quella vera, non
quella inventata (o sperata) per ottenere individuali salvacondotti. Dopo quel
25 di luglio dell’anno 1943 di salvacondotti non ce ne furono per nessuno. Si
morì, anche, per un futuro che fosse diverso.
mercoledì 24 luglio 2013
Lamemoriadeigiornipassati. 12 “La pastasciutta in bianco del 25 luglio”.
Domani è il 25 di luglio. 70 anni
dopo il 25 di luglio dell’anno 1943, quello del “Gran Consiglio”. Rossella
Cantoni, presidente dell’”Istituto Alcide Cervi”, lo ricordava così, quel 25 di
luglio, sul quotidiano l’Unità di sabato 24 di luglio dell’anno 2010 – “La pastasciutta in bianco del 25 luglio”
-: Il
25 luglio del 1943, il Gran consiglio del Fascismo vota la sfiducia a Benito
Mussolini e il re lo fa arrestare. Cade il regime. A Campegine, in provincia di
Reggio Emilia, si fa festa. Una famiglia di contadini un po’ particolari per
l'ingegno e la passione che mettono nel lavorare la terra e nell'opporsi alla
dittatura, fa il più bel funerale del Fascismo, per dirla con le loro parole.
Decide di offrire al paese un piatto di pasta asciutta. Sono i sette fratelli
Cervi con il padre Alcide, la madre Genoeffa e tante altre famiglie della zona.
Tempi di fame e povertà, anche nella bassa reggiana, c'è la guerra combattuta e
c'è la voglia di sperare. I Cervi ricreano la piazza, la riprendono dopo anni
di adunate pilotate, offrendo pastasciutta a tutti i compaesani, una pasta
frutto della farina e delle braccia di più persone che non avevano molto. Al
massimo potevano fare una pasta in bianco, con burro e parmigiano, ma quella la
fecero. Il 25 luglio è una data storicamente nodale, analizzata da storici e
giornalisti nella sua ufficialità, ma troppo spesso si è tralasciato di
raccontare la gioia che investì la popolazione, il carattere pacifico delle
manifestazioni spontanee che si improvvisarono, espressione di un antifascismo
diffuso, spesso nemmeno consapevole, che voleva la fine della guerra, della
fame e della paura. La Liberazione arriverà solo venti mesi dopo e costerà
ancora tanta sofferenza, ma quel 25 luglio il primo istinto fu di festeggiare
insieme. Quello spirito, quell'ottimismo, rivive ancora nella casa che fu dei
Fratelli Cervi, oggi Museo, ogni 25 luglio. (…). Non bisogna cancellare
quella Memoria. È dalla Memoria che si trae la linfa necessaria alla vita
futura. Ha scritto Massimo Recalcati, psicoterapeuta lacaniano, sul quotidiano
la Repubblica di ieri, 23 di luglio – “Rimozione
e pacificazione” -: In psicoanalisi esiste una legge del
funzionamento mentale che vale la pena oggi ricordare perché si presta a
leggere anche i fenomeni della vita collettiva: quello che si vuole cancellare
dalla memoria – (…) – ritorna sempre nella realtà e ha spesso la forma
dell’incubo. Per generare cambiamento autentico, nella vita individuale come in
quella collettiva, è necessaria innanzitutto la memoria della nostra
provenienza. Non è un caso che tutti i
tiranni tendano a cancellare il rapporto con la memoria e a falsificare i libri
di storia. In 1984 il Grande Fratello orwelliano rende come prima cosa
impossibile il pensiero storico perché sa che quel pensiero è sempre pensiero
critico, pensiero che sa fare obiezione alla falsificazione. (…).
Salviamo la Memoria. Non “scarnifichiamo” il pensiero.
lunedì 22 luglio 2013
Eventi. 9 “Uno strano funerale”.
Dobbiamo – devo – alla passione, alla
intelligenza ed alla tenacia dell’instancabile Franca Sinagra Brisca il
riemergere, dalle fitte nebbie che avvolgono spesso la memoria storica dei
popoli, della figura nobile ed altissima del perseguitato politico che ha nome –
poiché nella “memoria” si continua a “vivere” - Francesco Lo Sardo – Naso,
Sicilia, il 22 di maggio dell’anno 1871; Napoli, il 30 di maggio dell’anno 1931
-. Dobbiamo – devo – a Franca Sinagra Brisca aver potuto partecipare anni
addietro, in quel di C***, ad un convegno celebrativo della memoria di quel
grande martire e precursore della Resistenza, memoria andata perduta in un
mondo affetto da “cecità” ed indifferenza. Riporta Mimma Paulesu Quercioli, nel
volume edito da Feltrinelli (1977) “Gramsci
vivo nelle testimonianze dei suoi contemporanei”, una frase di quel grande
- che al tempo scontava la pena nel carcere di Turi, in compagnia di quell’altro
grande che è stato Antonio Gramsci – in risposta a coloro che lo sollecitavano
ad inoltrare domanda di grazia : « Hanno voluto la carne e si prenderanno
anche le ossa. Io non firmo». Ed oggi, un dono inatteso pervenutomi da Franca
Sinagra Brisca: il Suo straordinario racconto “Uno strano funerale”. Un dono inatteso ed un privilegio allo
stesso tempo, potendone disporre, su gentile concessione dell’Autrice, su questo
blog. Fu al termine di quel convegno che, avvicinato da una signora piacente e distinta,
ebbi a sentire commenti non proprio teneri sul “colore” politico dell’avvenimento.
Ebbi a rispondere, alla distinta, piacente signora, come ai tempi cupi di
Francesco Lo Sardo anche un altro personaggio di una grande famiglia liberale
avesse scelto i “comunisti” di allora per combattere la tirannide nera: Giorgio
Amendola, figlio del liberale Giovanni Amendola. È che i “comunisti” del tempo
erano tra i pochi a combattere senza tregua la tirannide fascista. A giorni è
il 25 di luglio. 70 anni dal 25 di luglio del “Gran consiglio”. Finiva la
rappresentazione in cartapesta del fascismo. Si dava inizio ad una
indimenticata tragedia storica e sociale. Ha scritto su la Repubblica di oggi –
“La pastasciutta della memoria” –
Jenner Meletti su quel 25 di luglio di 70 anni fa: “Alcide Cervi e i suoi sette
figli, quella sera del 25 luglio 1943, non avevano ascoltato la radio. Dovevano
alzarsi presto, per portare a casa il secondo taglio di fieno. Per questo alle
23,15 — quando ci fu il grande annuncio — erano già a letto. «Sua Maestà il Re
e Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di Capo del Governo, Primo
ministro e Segretario di Stato, presentate da Sua Eccellenza Benito
Mussolini... ». La notizia arrivò il giorno dopo, nell'aia della famiglia
Cervi”. Il racconto, ora, di Franca Sinagra Brisca.
All’attracco del porto ferroviario
di Messina un numero esiguo di persone vestite di nero, molto dignitose e quasi
eleganti, puntavano gli occhi all’acqua livida dello Stretto, corazza metallica
cosparsa di lame d’acciaio luccicanti, il loro sguardo vitreo coglieva, oltre
la grande pancia galleggiante del traghetto bianco in lento avvicinamento,
altre squame d’opaco biancore sull’altra sponda, le case di Villa San Giovanni
avvolte nell’aria tersa del mattino. Tre squilli d’avviso per l’approdo
imminente erano già stati lanciati insieme al fumo della ciminiera, gonfiatosi
in uno sbuffo. Erette sulla schiena, alte e affusolate, battute dal vento
instancabile di quel corridoio marino naturale, quelle sagome sarebbero potute
sembrare pali vestiti da umani, se non che c’era là in mezzo uno sventolio nero
di gonna, a indicare che una donna era sicuramente fra loro, Teresina Lo Sardo,
da troppi giorni vedova priva di cadavere. Rimasero immobili quando lo scafo
beccheggiando imboccò l’invaso, nonostante avessero sentito riflesso nelle
proprie ossa lo squassare del cadavere amato che fra poco sarebbe stato
vomitato fuori bordo e restituito a loro, che l’adoravano d’immenso pianto e
amore. Non potevano immaginare, per consolazione, che la storia avrebbe risollevato di lì a una
decina d’anni la loro umanità ferita a morte, che questo sarebbe avvenuto nella
storia d’Italia per mano di altri, della Resistenza, loro già messi fuori gioco
in quel punto della vita. Non potevano prevedere cosa riservasse il futuro,
conoscevano soltanto la crudeltà disumana di una popolazione irretita nei
peggiori dei comportamenti che un amico
professore, di cui s’erano perse le tracce, aveva definito con frase latina
“homo homini lupus”. Parve ai soli occhi di Teresa, ma ne ebbe la sicurezza
interiore, il volto di quell’amico essere lo stesso apparso un attimo solamente
affacciarsi alla ringhiera della nave lasciando cadere in mare, con statuario
gesto di accompagnamento, un garofano rosso*.
Sotto la tesa nera a Teresa sembrò d’aver riconosciuto una certa ampia
fronte scendere sul profilo del naso aguzzo, nel momento in cui l’apparizione
aveva sollevato il cappello come a ripararsi da una ventata inesistente che
glielo avrebbe scalzato, proprio nel punto in cui la nave urtò in entrata contro i respingenti e i parabordi
dell’invaso. Quella visione arrivò a Teresa come una carezza, dedusse che il
suo uomo era stato scortato da un pari, l’amico professore Concetto, e
avvertito il pericolo incombente sul clandestino a bordo, bloccò perfino il
pensiero dal proferirne il cognome, mentre ancora un assalto del cuore le
ricordò la sua tacita presenza nella dovizia di libri per Francesco che riusciva a fargli pervenire
direttamente dall’editore. Fu strazio interiore il fragore dell’uscita del
treno merci dalla cerniera di poppa, mandibola spalancata della nave, con
stridio si ferraglia e scossoni sui binari. Poi senza incertezze avvenne lo
spostamento, compatto a passo svelto, del gruppo dei personaggi in nero lungo
il marciapiede che dall’attracco porta in linea dritta al primo binario della
stazione; la macchia nera era adesso contrassegnata da un punto centrale rosso
vivo trattenuto al petto da Teresa, il suo mazzo di garofani, ultimo contatto
di sé col suo uomo. Dal portellone scorrevole del vagone merci quattro di loro,
pieni di asciutta commozione, da due piantoni militari ricevettero sulle spalle
la reliquia leggera che c’era nella bara,
curvi sotto il peso dell’ingiustizia e già esausti per l’attesa. “Mio
marito è stato ucciso consentite che almeno mi sia restituito il cadavere”
aveva telegrafato a Mussolini la moglie Teresa Fazio in Lo Sardo, quella donna
magra che lì pareva di vetro tagliente tanto era rigido lo sforzo di non urlare
e antica l’abitudine temprata a non
reagire per non soddisfare il piacere sadico di chi la morte aveva preso a
usarla per dileggio. Gli uomini s’erano scoperti il capo e accennato un
inchino, quindi si avviarono muti all’uscita dopo che la signora Teresa ebbe
deposto sulla bara un bacio portato dalla bocca sulla punta delle dita insieme
al mazzo di garofani rossi. Fuori li attendeva un semplice carro funebre a un
tiro, nerissimi il carro e il cavallo. Nel rapporto della questura del 6 giugno
1931, redatto nelle prime ore del pomeriggio, si legge: - Treno ore 6.15 giusta
intesa questura Napoli è qui arrivata salma condannato politico Lo Sardo
Francesco che proseguita immediatamente per Gran Camposanto ove in atto avviene
tumulazione avvenuta senza alcuna pompa e feretro est proseguito cimitero
seguito appena qualche congiunto e per itinerario prescritto Questura. Nessun
incidente. Personale servizio Polizia ha proceduto fermo sei comunisti sorpresi
isolatamente lungo percorso con probabile intenzione seguire carro funebre - Una
strana cassa di legno chiaro, forse di comune pioppo con evidenti listelli
assemblati alla meno peggio, camminava a passo normale appena oltre il
marciapiede sulle gambe lunghe di quattro uomini in nero con cappello e, a
seguire, quella donna con veletta nera le cui mani, che prima
reggevano i fiori, erano ora intrecciate saldamente alla cintura, la testa
appena piegata a sinistra e ormai bianchi i capelli, sostenuta sottobraccio
sicuramente da un parente stretto, uno dei suoi fratelli il maresciallo
Salvatore, i cognati ingegnere Giovannino e Giuseppe, il caro nipote avvocato
Ciccino, i nipoti dottor Salvatore e un giovane, forse Vincenzo. L’estrema
austerità nel silenzio totale dell’ora mattutina rosata e l’incedere cadenzato,
conferivano alla scena un carattere di irrealistica atroce solennità. Fuori
dalla tettoia della stazione nella piazza inondata di luce, il legno fu accolto
nella pancia del carro funebre tirato come d’uso da un cavallo in gualdrappa
nera, e una nuova macchia nera semovente, ma sbriciolata e complessa, si mosse
verso il Gran Camposanto fra due file di poliziotti neri, obbligata a un
percorso a gimcana per vie secondarie.
Lungo la strada lo sbattere di un’imposta persiana, aperta da una donna
prosperosa che restò interdetta a guardare, nell’ immobilità istantanea ruppe
il silenzio teso e sembrò commentare: “Madre di Dio, e che c’è il pericolo che il morto scappi o è
l’imbroglio di una carrozza piena di dinamite?”. Altri tizi con manganello in
camicia nera, a cui lo schermo dei muri a quell’ora ricusava al sole di proiettare l’ombra sul
basolato, e altri in borghese ma simili nel comportamento a scatti e
nell’occhiuto sguardo controllore, erano sparsi tutt’intorno per un centinaio
di metri. Sulla via deserta sbucavano dalle
traverse, qua e là alla spicciolata, uomini con le mascelle serrate e i
pugni stretti in tasca, qualcuno riconoscibile per il bavero della giacchetta
alzato fin sotto la coppola, che dava subito una occhiata finta indifferente
alla bara, per proseguire a torto con lo stesso passo del funerale, ma senza
affiancarsi, e qualcun altro commise l’ingenuità di scoprirsi il capo,
confidando nell’ovvio atto di civiltà per l’usanza funebre. Era stata vietata
la partecipazione a quel funerale e sapevano i rischi infelici della
disobbedienza. Quello era il feretro di un gran politico, nientemeno che il
siciliano Francesco Lo Sardo deputato al Parlamento Regio a Roma, fatto morire
di stenti in carcere, secondo dopo il primo assassinio impunito del collega
Matteotti. La presenza furtiva di quegli avventori durava poco, perché
scomparivano improvvisamente in una traversa o in un portone spalancato a bella
posta lungo il percorso, atterrati da una manganellata o costretti dal
perentorio ordine fascista di chi s’era accostato proditoriamente, per fargli
sentire la bocca d’una pistola puntata al petto o alla schiena. Pur avvertiti del divieto categorico e consci
dell’inevitabile pericolo, alcuni antichi compagni di strada e di lotta di
Francesco vollero testimoniare per
l’ultima volta la vicinanza a quel
relitto, che ancora in quelle condizioni continuava a rappresentare un grande
significato politico e una scelta di vita morale. “Il coraggio e la fede, in
questi tempi, sono la virtù di pochi. Amo essere tra questi pochi” aveva
scritto dal carcere. Rappresentava un baluardo dell’antifascismo, che i mandanti
dell’assassinio, incapaci di distruggerne l’eredità immateriale, intesero
occultare passando sotto silenzio per cinque anni, prima il sequestro
immotivato e poi il mortale abbandono carcerario, ora incarogniti nel divieto della cerimonia
funebre. Ma si può chiamare funerale questo
sparuto numero di nerovestiti attorno a una cassa senza corone né suono
di campane, con un semplice mazzo di fiori comuni evidentemente raccolti nel
giardino di casa? Quale sentenza poteva non risparmiare i morti e infierire su
quel deputato facendone un morto così derelitto anche nelle esequie? Ad ogni incrocio sostavano altre guardie
antirapina del feretro, che non doveva essere indagato né sulle cause né sul
giorno del decesso, tanto meno rapito e sequestrato da una folla di elettori
inferociti, contadini e operai per lo più, per offrirgli esequie più onorevoli.
Era in campo la certezza che qualsiasi rito funebre sarebbe diventato una
manifestazione di popolo rivelatrice di insofferenza politica e di ribellione,
ma era in campo anche la disumanità dittatoriale che da lì a qualche anno darà
prova della sua ferocia nelle deportazioni e nell’uso delle camere a gas per lo
sterminio organizzato, nella cui speciale attenzione era compresa la razza
ribelle e idealista dei comunisti. Lo scalpiccio martellante del cavallo
sull’asfalto si sentì lungo tutto il tracciato contorto per vie secondarie,
cosparse di sporcizia a Messina più di quanto non siano solitamente nelle città
portuali; nel deserto umano, raggiunsero l’entrata nel Gran Camposanto le
stesse sole persone che c’erano all’imbarcadero. Per l’occasione speciale in
impeccabile camicia nera, il custode del cimitero li aspettava a pochi passi a
sinistra del cancello con due laceri aiutanti, la tomba di famiglia interrata
già aperta e il loculo in vista: avrebbe controllato la tumulazione con
apposizione di lastra in segno di “ capitolo chiuso per sempre”. Teresa Fazio
Lo Sardo sarebbe tornata a vivere nella sua casa circondata da oggetti che le
avrebbero ricordato quel marito tanto amato e tanto sofferto, questa volta definitivamente sola ad aspettare l’evolversi
degli eventi politici, un panta rei che conosceva bene. Aveva vissuto
l’eccezionalità di due funerali
irregolari perché irrituali, eventi ambedue che, con l’aggravante dell’ingiustizia
da riscattare, renderanno nella madre e nella sposa quelle ferite non
rimarginabili. La sua vita travagliata s’era svolta dai bucolici pascoli dell’infanzia sui
Nebrodi alla vecchiaia inconsolabile funestata due volte da dolore amarissimo,
prima della perdita del figlio Ciccinuzzo nel terremoto del 1908 e ora del
marito Francesco nella barbarie delle carceri fasciste.
*Nota dell’Autrice. Il
riferimento alla presenza di Concetto Marchesi riprende la leggenda del
garofano da lui gettato nello Stretto al passaggio del feretro, secondo una
testimonianza orale raccolta nel 1982 da S. Saglimbeni .
martedì 16 luglio 2013
Doveravatetutti. 9 “La politica del cinepanettone”.
Scriveva Nadia Urbinati sul
quotidiano la Repubblica del 16 di luglio dell’anno 2010 – “I tre governi del cavaliere” -: Se il governo degli affari
privati è invisibile perché segreto, questo governo dell’immaginario mediatico
è una costruzione per il pubblico, pensata e messa in scena per un destinatario
che deve essere e restare passivo, un’audience priva di argomenti che servano a
formulare giudizi valutativi; un pubblico che è anzi fabbricato dal sistema
mediatico e da chi dovrebbe essere oggetto di monitoraggio affinché non veda,
non si renda conto, non sappia che dietro all’immagine propagandata o non c’è
nulla o c’è ciò che non si deve vedere. È l’allarme lanciato in quel
tempo, che appare tanto remoto, dalla insigne studiosa su quella che sarebbe
stata “una generazione di padri puerili” della quale ha parlato
Curzio Maltese. Questo post penso che possa fare il paio, integrandolo ed
approfondendone la tematica, con il post che lo ha preceduto. Continua Nadia
Urbinati: Il governo creato dai media è astratto, irreale: uno spettacolo che va
in onda tutti i giorni, alcune volte al giorno da diversi mesi e mette in scena
la favola del fare e dell’ottimismo, la rassicurazione che la corruzione
lambisce solo pochi, e poi la storia delle cospirazioni ordite da poteri
indiscreti come i giornali o eversivi come i magistrati. Questo governo
dell’immaginario mediatico non corrisponde a un governo esistente ma copre
quello che il governo esistente fa, cosicché nessuno alla fine sa da chi é
governato. Perché di questi due governi, uno segreto e uno immaginario - il
primo tragicamente reale ma nascosto, il secondo visibile ma irreale - nessuno
si basa sulla fiducia dei cittadini: il primo per l’ovvia ragione che vive nel
sottosuolo e nessuno dei suoi atti deve trapelare; il secondo perché è
un’invenzione commerciale fatta ad arte da chi governa con l’esito che i
cittadini non dispongono di una realtà di riferimento autonoma alla quale
rivolgersi per cercare conferme o smentite a quello che si vede e si sente.
L’Italia ha due governi molto potenti, gestiti e organizzati in modo da evitare
il giudizio, della legge e dell’opinione pubblica. È questa segretezza che li
rende a tutti gli effetti una negazione della democrazia, anche se sono il
prodotto di una maggioranza che governa con il consenso elettorale. È
mancato, bisogna pur dirlo, nel bel paese un punto di riferimento credibile che
smascherasse la tragica messa in scena di un governo d’improvvisatori ed
illusionisti. E questo sarebbe stato il compito di una opposizione che ne fosse
all’altezza. Così non è stato. E così l’”antipolitica”, che ha accomunato i
reggitori temporanei della cosa pubblica a chi avrebbe dovuto smascherarne
l’inanità ed il malaffare, ha scacciato la politica del bene comune, la
politica buona. Di quel che ne è rimasto raccogliamo oggigiorno amaramente i
frutti acerbi. È mancato il riferimento certo, credibile. Un disastro. Da ciò
ne è derivato quella condizione che Curzio Maltese, sempre sul settimanale “il
Venerdì di Repubblica” del 14 di gennaio dell’anno 2011 definiva: “La politica italiana? Un cinepanettone
lungo trent’anni”. Scriveva in quell’occasione l’illustre opinionista: La
parola «comunisti», usata come insulto, è tramontata in tutto l’Occidente,
tranne che in una nazione, l’Italia. Non è soltanto Berlusconi a riesumarla
ogni volta da quella che Carlo Marx avrebbe chiamato «spazzatura della storia».
La senti di continuo nelle conversazioni d’ogni giorno, al bar o al mercato.
Berlusconi in fondo non fa altro che usare un sentimento diffuso. Non la paura
del comunismo, che non c’è più, ma al contrario la nostalgia. Meglio, la
nostalgia del Muro. All’ombra del Muro, nel mondo diviso in due, l’Italia era
un Paese importante, una frontiera decisiva. Anche un Paese ricco, in
progresso, vitale. Nel mondo che è arrivato dopo la caduta del Muro e la
globalizzazione, siamo una nazione sempre più marginale, in declino. Siamo una
società che invecchia e dunque soffre di nostalgia. L’utopia di Berlusconi, la
ragione della sua popolarità, risiede in questo tentativo di fermare l’orologio
della storia ai favolosi anni Ottanta, interpretando così un bisogno profondo
di milioni d’italiani. È anni Ottanta la televisione, la nostra industria, il
nostro dibattito pubblico. Un infinito cinepanettone. (…). Quando Berlusconi
parla di comunismo, più che una battaglia ideologica, evoca un sentimento di
rimpianto per il bel tempo andato. Quando il mondo era più semplice da capire.
Il suo stesso orizzonte internazionale si limita al campo della nostalgia. Gli
ex comunisti Putin e Lukashenko, il vecchio dittatore Gheddafi. Prima anche
Bush junior, nel suo tentativo di rifare Ronald Reagan vent’anni dopo. Certo,
la finzione è aiutata dal fatto di avere dall’altra parte gli stessi dirigenti
del Pci di vent’anni fa. La nostalgia è diffusa anche a sinistra. Un
rinnovamento a sinistra farebbe apparire di colpo il progetto berlusconiano in
tutta la sua decrepitezza. Ma la nostalgia si respira un po’ ovunque, nella
nomenclatura italiana. Il sogno di Marchionne non è forse di rifare una bella
marcia dei quarantamila? Una borghesia senza rivoluzione, la nostra, incapace
di esprimere valori positivi, aveva trovato l’unico collante nell’anticomunismo
e resiste da vent’anni all’idea che quella guerra sia finita. Si andrà avanti,
anzi indietro, ancora per un po’. Poi un giorno la gente di colpo non andrà più
a vedere i cinepattoni. Sarà così? Chi lo sa, forse. Poiché, forse, la
gente se ne sarà nutrita – di “cinepanettoni” - oltre ogni ragionevole
misura. Ma non c’è molto da sperare: al cattivo gusto ed alle abbuffate non si
pongono limiti di sorta. E quello di Curzio Maltese voleva essere un auspicio o
il verdetto scaturito da un’analisi dell’evolversi di una incredibile,
a-storica, fallimentare – che accomuna tutte le forze “antipolitiche” del bel
paese - condizione della politica del bel paese? A tutt’oggi penso che possa
valere la prima delle ipotesi. Coloro che hanno concorso alla produzione dei “cinepanettoni”
ed alla loro inarrestabile distribuzione sono sempre lì, con qualche scossone
in più e tanti, tantissimi rinnovati mugugni collettivi, ma che non trovano la
forza per porre la parola “fine” ad un’indegna, tristissima rappresentazione.
lunedì 15 luglio 2013
Doveravatetutti. 8 “Una generazione di padri puerili”.
Scrive Curzio Maltese sul
settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 12 di luglio – “La lenta caduta del leader che lascia dietro di sé un Paese alla
bancarotta” -: Una generazione di padri puerili dovrà spiegare a una generazione di
figli resa adulta dalla crisi le strane ragioni per cui un Paese ricco di
talenti e di risorse si sia ridotto a un passo dalla bancarotta per inseguire i
sogni ignoranti di un imbonitore televisivo, di un peracottaro nemmeno così
affascinante e geniale come l’hanno dipinto servi e nemici. Una nazione non
soltanto rimbecillita, ma torvamente rimbambita. Attraverso il quotidiano
esercizio di un astio derisorio nei confronti di ogni forma di intelligenza,
eccellenza, rigore morale. Il peggio non sono state una politica economica
inesistente e una politica estera da buffoni, ma la sistematica svalutazione di
ogni valore di civiltà e cultura. Per vent’anni si è raccontato ai giovani che
non vale la pena di studiare e migliorarsi perché altre erano le strade verso
il successo. Lo scandalo vero di Berlusconi non sono Ruby e le altre ragazzine
alle cene di Arcore, ma la Gelmini ministro dell’Istruzione (e del
tunnel scavato dalla Svizzera al Gran Sasso n.d.r.). Il risultato di questa egemonia
anti culturale è devastante. Se proviamo
a far di conto la domanda del Nostro è rivolta a tutti quei padri che al tempo
della sciagurata “discesa in campo” avevano figli e figlie, oggi trentenni o ancor
di più avanti negli anni, che oggigiorno pagano le conseguenze di
quell’obnubilamento delle coscienze e delle menti. “Una generazione di padri puerili”
li definisce l’illustre opinionista. E non sbaglia. Ma anche prima il Nostro
non mancava di segnalare, a chi avesse avuto voglia e prontezza per raccogliere
le segnalazioni che da tante parti pur provenivano, la pessima piega che la
mala gestione della cosa pubblica aveva assunto nel bel paese. Voce nel
deserto. Ecco perché il “doveravatetutti” per quei padri
dovrebbe risuonare alto e forte. Le cose nella Storia non accadono per caso.
Esse si costruiscono lentamente nel bene o nel male. Non vale poi dolersene
come se quelle cose accadute ci siano piovute da un cielo lontano ed ostile.
Non è giusto. È la solita operazione di sottrazione alle proprie responsabilità.
Una pratica diffusa assai. Oggigiorno si scopre come quelle responsabilità
siano state inesistenti a causa di “una generazione di padri puerili”
persa, quella sì, dietro l’incantatore di turno. Ho ritrovato tra i miei
ritagli un altro pezzo di Curzio Maltese. Esso risale al 28 di gennaio
dell’anno 2011, dieci mesi prima che l’egoarca di Arcore venisse sfiduciato e
mandato via dai mercati. Dai mercati. A quel tempo Curzio Maltese titolava il
Suo pezzo, sempre per il settimanale “il Venerdì di Repubblica”, “Qui finisce l’avventura dell’«AlbertoSordi»
made in Brianza”. Ed in quel titolo si formulava, con due anni d’anticipo,
l’auspicio che quella avventura giungesse al suo termine. Non è stato così.
Oggigiorno ci si ritrova con “l’«AlbertoSordi» made in Brianza” a
fare il governassimo della “larghe intese”. Quali “larghe intese”? Su nulla. Se
non nel rimandare le decisioni ad un domani che sarà sempre un altro giorno. Forse
perso. Ma i figli di quei “padri puerili” ne pagano amaramente
le conseguenze. Scriveva allora Curzio Maltese: La parola chiave per capire il
quasi ventennio berlusconiano è nostalgia. Il contrario della sbandierata
modernità. Era ed è una vecchia Italia quella che si è nascosta per diciassette
anni dietro la maschera e la bandiera di Berlusconi. Vecchio, a sua volta, fin
dalla prima apparizione. Il messaggio della discesa in campo, lui col
doppiopetto e gli slogan degli anni Cinquanta, l’anticomunismo, il «ghe pensi
mi», «mi sono fatto da solo», «la trincea del lavoro», il boom economico.
Vecchio nel modo di parlare, di essere, di vestire, di vivere e divertirsi, di
fare televisione. Con tutti i vizi di una generazione cresciuta negli anni
Cinquanta, la misoginia camuffata da dongiovannismo, il chiagni e fotti, il fiero disprezzo per la cultura, l’assenza di
autentico umorismo dei barzellettieri, un’autoindulgenza spinta fino ai deliri
del narcisismo assoluto. Anche i pregi, certo: la tenacia, l’incredibile
capacità di lavoro, la combattività, il vitalismo. Un albertosordi della Brianza, assai poco innovativo come
imprenditore, rispetto a tanti colleghi del Nord. Ma tanto più sveglio nel
profittare, come avrebbe detto Gadda, del corto circuito
politico-professionale. Naturalmente, con la retorica qualunquista
dell’antipotere, di quello fuori dai giri. Nel privato, un ometto ricchissimo,
con la villona alle spalle e la moglie bella, le battute da capufficio bauscia,
il rimpianto per i bei bordelli d’una volta, il gusto per la finta canzone
napoletana e la greve imitazione degli chansonnier francesi. Letture zero,
libri intonsi da arredamento. In breve, l’incarnazione del sogno di molti
connazionali. Fondò il «moderno» impero televisivo portando a Canale 5 Mike
Bongiorno, pensionato Rai, sdoganando le maggiorate, serie di telefilm dismesse
dagli americani, un catafalco dei mezzibusti come Emilio Fede. Nel momento più
critico di Tangentopoli, alla vigilia di una svolta possibile nel Paese e
inevitabile nel resto del mondo dopo la caduta del Muro, Berlusconi ha
intercettato la nostalgia della maggioranza. Nostalgia di tutto, degli anni
Ottanta appena finiti, del boom economico, del comunismo e dell’anticomunismo e
sempre del fascismo, di un’Italia da 1948, di un’America e di mondo che non
sarebbero mai più stati come una volta. Nella ferma determinazione a ignorare i
temi veri della modernità, le nuove competizioni, l’immigrazione di massa, le
rivoluzioni tecnologiche, i mutamenti sociali. Per sua fortuna, i capi
avversari erano un gruppo di bolsi ex dirigenti del Pci. Ha foderato questa nostalgia
con una modernità di facciata e gli hanno perdonato tutto. La bolla di sapone
che ora esplode, rivelando il vuoto. Ecco quale è stato il miracolo del
Cavaliere di Arcore: fermare il tempo a quella “vecchia Italia” che non
esisteva più e che non poteva capire i processi planetari che andavano ad
imporsi. Un vecchio dentro e fuori che, grazie all’ignavia di quei “padri
puerili” catturati dalle sue fallimentari invenzioni, ha potuto
determinare il destino di un intero Paese. Ma la Storia non fa sconti a
nessuno, né tanto meno a chi ha voluto crogiolarsi nelle illusioni proprie di
una condizione puerile. Il conto è questo oggigiorno, salato ed amarissimo. Il
grosso guaio è che in quella “bolla di sapone” della quale parla
Curzio Maltese ci siamo colpevolmente
ricacciati. Ed oggi non ci sono più scusanti che tengano. Per la puerile
disattenzione. Ed i “padri puerili” stanno sempre lì, invecchiati e imbolsiti a
piangere su un destino cinico e baro. “Padri puerili” allora, “padri
puerili” oggi. Senza nerbo. Senza idee. La “scarnificazione” del
pensiero è avvenuta. E come!
sabato 13 luglio 2013
Sfogliature. 19 “Il crimine dell’indifferenza”.
Scriveva Karen Greenberg –
ricercatrice presso il Center on Law and Security della New York University -, in
una riflessione - “Qual è il punto di
equilibrio tra sicurezza e libertà” - pubblicata sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del
5 di settembre dell’anno 2009: Qual è il punto di equilibrio tra sicurezza
e libertà. La questione della sicurezza non si risolve a colpi di pacchetti
legislativi e decreti d'emergenza. Non si risolve affidandosi allo Stato, ma
facendo i conti soprattutto con il fattore umano. Con la paura e la fragilità
delle nostre vite. La garanzia della sicurezza non esiste, così come quella
della libertà. Ci si può solo avvicinare a entrambe, per approssimazione. Il
punto di equilibrio si misura più attraverso le emozioni che nei fatti. La
paura del terrorismo, per esempio: è un sintomo dell'ansia generalizzata che ci
attanaglia, lo specchio della percezione individuale e collettiva. Sentiamo
ripetere che proteggere i cittadini è il compito fondamentale di ogni governo
ma spesso dimentichiamo che è nostra responsabilità negoziare quali rischi
siamo disposti a correre in cambio e cosa siamo disposti a sacrificare. La
storia recente degli Stati Uniti ci insegna che cosa accade quando ci si
abbandona alla paura: si lascia che un governo violi la legge, che faccia un
uso spropositato della segretezza in nome della sicurezza e imponga dei limiti
severi alle libertà civili. (…). E se tutto questo all'inizio ci ha
rassicurati, nel lungo termine ci ha reso infinitamente più vulnerabili. (…). Che
lezione impariamo da questo? Lo Stato non detiene il monopolio della sicurezza.
Deve aprire la conversazione e stabilire un tono, ma poi sta a noi cittadini e
alle comunità locali portarlo avanti. Il punto di partenza migliore è creare un
senso di solidarietà interno. Come trovare quella compassione, intesa in senso
non religioso, che leghi le persone e le spinga oltre paura, egoismo,
individualismo sfrenato e sospetto verso l'altro? Sicurezza e libertà nascono
anche da qui. Scrivevo la domenica 3 di aprile dell’anno 2011 in un post rinvenuto
alla pagina 2452 di quell’e-book che ha fatto sopravvivere la “memoria” di
questo blog: Non occorre spendere molte
parole per “contestualizzare” l’annoso problema. Sull’onda della “emotività” e
della “percezione”, categorie molto care ai “tromboni” reggitori della cosa
pubblica nel bel paese, e bandendo per sempre dagli orizzonti della
comunicazione sociale la “consapevolezza” che dovrebbe essere propria del “cittadino
riflessivo”, tanto per prendere a prestito un concetto sociologico – in verità
del “ceto medio riflessivo” - tanto caro allo storico Paul Ginsborg, il
problema della sicurezza è stato un asso nella manica per vincere le elezioni
politiche, falsando i dati sulla criminalità ed adombrando la possibilità che
dietro ad ogni “cristo in Terra” che tenti di sfuggire alla miseria ed alle
persecuzioni, si celi a tutti gli effetti un potenziale “terrorista”, islamico
per giunta. Questo aspetto miserevole d’affrontare il problema dei moderni
“migranti” è emerso con forza in tutte quelle occasioni che abbiano consentito
nel bel paese di parlare di “migranti”, alterando realtà e dati statistici
sempre, per legiferare in termini di totale chiusura verso i disperati del
secolo ventunesimo, ed accogliendo utilitaristicamente soltanto quelle persone
che soddisfacessero alle necessità d’impresa o familiari (raccoglitori,
stallieri, badanti e contorno). Anche in occasione delle rivolte del nord d’Africa
si è coltivata e propalata la più egoistica delle paure, adombrando, ancora una
volta e irresponsabilmente, dietro quei giovanili
sommovimenti, condotti in nome della libertà e per una speranza di vita diversa
e migliore, il rimontante pericolo del terrorismo islamico. Come suol dirsi,
“il lupo perde il pelo ma non il vizio”, vizio che diviene sempre più oneroso
nei termini della difesa dei diritti e delle libertà costituzionali dei singoli
cittadini anche nel bel paese. Uno spettro s’aggira nelle ubertose contrade del
bel paese: lo spettro del “prossimo” nostro, lo spettro di tutta quella umanità
che tenta, con difficoltà, di spezzare le catene dell’oscurantismo, della
miseria e della ingiustizia planetaria. Evitare che le masse emarginate ed
affamate spezzino le loro secolari catene di fame e miserie rappresenta l’impegno
massimo a livello di tanti governi di un Occidente oramai scristianizzato per garantire
un oramai indifendibile stato di benessere e di privilegio pagato,
“consapevolmente”, e senza l’ipocrisia
del dire “io non sapevo”, con la miseria nera dei più della Terra. Ebbene,
oggi il nuovo vescovo di Roma, Francesco, rendendo la “memoria” persa - in un
tempo nel quale solo il presente ha valore – a quell’immenso sterminio
consumato nel mar Mediterraneo, sbugiarda con coraggio ed al contempo condanna
una politica tutta che, nella risoluzione muscolare verso i deboli e gli inermi
dei problemi della migrazione nel secolo ventunesimo, ha cercato quel
consenso che oscurasse e facesse meglio
digerire gli insuccessi di governo nel mentre che la “crisi”, negata a più
riprese, avrebbe fiaccato e disperse le residue fantasiose elucubrazioni degli
inadeguati reggitori della cosa pubblica nel bel paese. E sì che i mercati
avrebbero, da lì a pochi mesi da quel 3 di aprile dell’anno 2011, preteso la
“cacciata” di un premier millantatore ed illusionista. I mercati e non la
politica resasi impotente e lontana assai dai problemi della “gente”. Ha
scritto Barbara Spinelli commentando sul quotidiano la Repubblica di mercoledì
10 di luglio – “Il crimine
dell’indifferenza” – il primo viaggio del nuovo vescovo di Roma Francesco: Gesù
non scolpisce leggi divine sulla pietra, quando assiste al processo
dell`adultera: urge fermare un linciaggio. In un primo momento tace, si china a
terra, e scrive sulla sabbia un`altra legge, che non si fissa perché sulla
sabbia passa il vento. Importante è che la sua parola s`incammini nelle menti,
aprendo un vuoto e facendo silenzio tutto intorno. Dicono che non è teologia:
in realtà è teologia diversa. Gianfranco Brunelli lo spiega bene, in un
articolo sul Regno: esiste uno stile cristiano (lo stile di Gesù), non meno
sofisticato delle dottrine, e il Papa lo fa proprio quando proclama: «Il mondo
di oggi ha tanto bisogno di testimoni. Non tanto di maestri, ma di testimoni.
Non parlare tanto, ma parlare con tutta la vita» (18 maggio 2013). La Parola è
centrale nel cristianesimo, e nelle religioni del Libro. Non la parola scritta
dottamente. Ma quella che dici all`altro: ai sommersi, sofferenti; ai «cari immigrati
musulmani», cui il Papa augura un Ramadan ricco di «abbondanti frutti
spirituali»; e ai tanti che di fronte al soffrire dicono al massimo poverino! e
impassibili passano oltre. Francesco non passa oltre, anzi mette se stesso fra
i colpevoli d`indifferenza: «Tanti di noi, mi includo anch`io, siamo
disorientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non
custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di
custodirci gli uni gli altri. (...). Ci siamo abituati alla sofferenza
dell`altro, non ci riguarda, non è affare nostro!». La Chiesa romana è
peccatrice, proprio come nella Commedia di Dante è responsabile del mondo
uscito dai cardini, disastrata dal potere temporale. E colpevoli sono i sovrani
d`Occidente, che tollerano quelle povertà estreme, e un Mediterraneo funebre, e
l`immondo commercio di chi «sfrutta la povertà degli altri, facendone fonte di
guadagno». Ecco: il messaggio vuole essere nuovo nell’indifferenza dilagante
nella quale sono state buttate le nostre vite. Si dirà: ma è il messaggio del
cristianesimo! Sì, ma era divenuto afono, poiché quel messaggio stava, in
termini e parole diversi, anche sulla bocca di coloro che oggigiorno possono
essere considerati i responsabili dell’immane tragedia nel mar Mediterraneo. E
Francesco ha parlato in questo senso. Solo che lo si voglia ascoltare. E
capire.
mercoledì 10 luglio 2013
Eventi. 8 Appello della rivista “MicroMega”.
“Una legge sul conflitto di interessi, che rende Berlusconi
ineleggibile, esiste già. Vittorio Cimiotta, Andrea Camilleri, Paolo Flores
d’Arcais, Dario Fo, Margherita Hack, Franca Rame, Barbara Spinelli chiedono al
nuovo Parlamento che venga finalmente applicata, e Berlusconi non avrà più
nessuna immunità di impunità”.
Berlusconi non era e non è
eleggibile. Lo stabilisce la legge 361 del 1957, che è stata sistematicamente
violata dalla Giunta delle elezioni della Camera dei deputati. Nel 1994
(maggioranza di centro-destra) e nel 1996 (maggioranza di centro-sinistra,
primo governo Prodi), un comitato animato da Vittorio Cimiotta (“Giustizia e
libertà”) e composto da Roberto Borrello, Giuseppe Bozzi, Paolo Flores d’Arcais,
Alessandro Galante Garrone, Ettore Gallo, Antonio Giolitti, Paolo Sylos Labini,
Vito Laterza, Enzo Marzo, Alessandro Pizzorusso, Aldo Visalberghi, e sostenuto
da una campagna stampa del settimanale “l’Espresso”, organizza i ricorsi dei
cittadini elettori, ricorsi che vengono respinti dalla Giunta delle elezioni
della Camera (con l’unico voto in dissenso dell’on. Luigi Saraceni, che il
centro-sinistra non confermerà nella Giunta del 1996) con la motivazione che
l’articolo 10 comma 1 della legge dichiara in effetti che non sono eleggibili
“coloro che in proprio o in qualità di rappresentanti legali di società o di
imprese private risultino vincolati con lo Stato per contratti di opere o di
somministrazioni, oppure per concessioni o autorizzazioni amministrative di
notevole entità economica”, ma che “l’inciso ‘in proprio’ doveva intendersi ‘in
nome proprio’, e quindi non applicabile all’on. Berlusconi, atteso che questi
non era titolare di concessioni televisive in nome proprio”. Palese
interpretazione da azzeccagarbugli, poiché come scrisse il presidente emerito
della Corte Costituzionale Ettore Gallo “ciò che conta è la concreta effettiva
presenza dell’interesse privato e personale nei rapporti con lo Stato”. Tanto è
vero che la “legge Mammì” del 6 agosto 1990, n° 223 sulla disciplina del
sistema radiotelevisivo pubblico e privato stabiliva all’art. 12 il “Registro
nazionale delle imprese radiotelevisive” e all’art. 17 comma 2 precisava che
“qualora i concessionari privati siano costituiti in forma di società per
azioni ecc. … la maggioranza delle azioni aventi diritto di voto e delle quote
devono essere intestate a persone fisiche, o a società ecc. … purché siano
comunque individuabili le persone fisiche che detengono o controllano le azioni
aventi diritto al voto”. MicroMega decide perciò di riprendere quella battaglia
di legalità ormai ventennale attraverso due iniziative: un appello di un gruppo
di personalità della società civile, sui cui raccogliere on line le adesioni di
tutti i cittadini (con l’obiettivo di migliaia e migliaia di firme), e il
fac-simile del ricorso, che potrà essere attivato da ogni elettore del collegio
senatoriale per il quale opterà Berlusconi. Nell’ultimo giorno valido (20
giorni a partire dalla proclamazione degli eletti), MicroMega organizzerà la
consegna di massa dei ricorsi alla Presidenza e alla Giunta delle elezioni del
Senato.
Vittorio Cimiotta, Andrea
Camilleri, Paolo Flores d’Arcais, Dario Fo, Margherita Hack, Franca Rame,
Barbara Spinelli.
martedì 9 luglio 2013
Cosecosì. 58 “Piccolissimi complici”.
Oggi è come lasciare il sentiero
sicuro ed agevole tante volte fatto e rifatto. È come percorrere un sentiero
diverso e nuovo e scoprire che esso, percorrendolo, porta verso luoghi più
sicuri e più ameni. È che oggi lascio le cose lette e scritte di sempre per un
percorso nuovo. Non della “casta” oggi, non dell’”antipolitica”
oggi, non oggi delle solite orrende maschere di una tragi-commedia
della quale si sentirebbe il bisogno di disfarsene per sempre. È che sull’ultimo
numero del settimanale “Il Venerdì di repubblica” – del 5 di luglio - ho
rinvenuto un articolo di grandissimo interesse. Il titolo di esso mi è servito
per il titolo del post di oggi: “Piccolissimi
complici” di Alex Saragosa. L’ho letto e mi è sembrato naturale proporlo di
seguito nella sua interezza. Poiché lo scritto di Saragosa apre orizzonti
nuovi, inesplorati, la lettura del quale mi auguro induca i pochissimi
malcapitati in questo blog a provare a percorrere un sentiero nuovo che ha come
meta un diverso “ben-essere” psico-fisico. Di quel tanto di “ben-essere”
raggiungibile del quale, in tante occasioni della mia attività di educatore, mi
sono fatto umile portavoce e piccolo profeta. Di quel possibile “ben-essere”
raggiungibile al di fuori degli schematismi ricorrenti ed imperanti e del quale
ho avuto modo di sapere incontrando ed affidandomi alla scienza ed alla
sapienza del dottor A. R., incontrandolo in quel luogo boscoso situato sulle
primissime alture dell’altopiano silano, luogo che ha dato i natali al
celeberrimo pittore Mattia Preti. Devo al dottor A. R. le mie pochissime
conoscenze in fatto di omeopatia e di quant’altro afferente ad una medicina
millenaria ma relegata a fare da ancella povera e misconosciuta alla medicina
ufficiale. È che il dottor A. R. è, a tutti gli effetti di legge, un medico
della medicina ufficiale. Ma un medico speciale, poiché la “curiosità” non lo
ha abbandonato e pertanto pratica la medicina ufficiale ma al contempo esplora
con scienza e coscienza quanto di diverso possa esserci nelle medicine
considerate – a torto - minori. Devo al dottor A. R. se ho sentito parlare di “terreno”,
con riferimento al nostro apparato gastro-intestinale. E come dal “benessere”
di quell’apparato ne derivi il “ben-essere” del nostro organismo nel suo
complesso. E di come quel “terreno” andasse tenuto sempre
sotto controllo, “bonificato” se necessario, evitando che in esso si
instaurassero condizioni di mono-coltura che gravissimo danno concorrerebbero a
creare all’organismo tutto. È ciò che ho imparato incontrando il dottor A. R., ascoltando
le Sue meditate parole e che ho cercato di mettere in pratica scrupolosamente
attirandomi spesso l’ilarità ed i rimbrotti vari dei più. Nel testo di Saragosa
si parla di tutto ciò alla luce delle ultime scoperte fatte da quella che è ritenuta
la medicina ufficiale dominante. La “curiosità scientifica” del dottor A. R.
trova il giusto riconoscimento, un indiscutibile valore. Provate a percorrere
il sentiero nuovo che si dischiude con il testo di seguito proposto e che
potrebbe condurvi a conquistare quel “ben-essere” da sempre desiderato ma non
raggiunto.
I1 latte umano contiene 700
specie di batteri diversi: lo ha rivelato una ricerca pubblicata della
microbiologa María Carmen Collado, dell'Istituto di agrochimica spagnolo.
Dobbiamo preoccuparci e pastorizzare anche il latte della mamma? No, al
contrario, dobbiamo essere lieti nello scoprire come questo latte contribuisca
a costruire nel neonato quel complesso mix di microrganismi che gli permetterà
di sopravvivere. È sempre più evidente infatti che non siamo individui, ma ecosistemi,
e riusciamo a mantenerci in salute grazie al microbioma, ovvero alla patina di
batteri, funghi e lieviti che ricopre le parti del nostro corpo in contatto o
con scambi con l'esterno (dalla pelle all'intestino, dai bronchi all'uretra) impedendo
che vengano colonizzate da varietà patogene. Una persona di 70 chili si porta
dietro un numero di cellule estranee 10 volte superiori alle sue, circa 2 chili
di microrganismi che, da potenziali nemici, in milioni di anni di evoluzione
sono diventati preziosi alleati. «Il micro bioma è come un altro organo del
nostro corpo, le cui funzioni stiamo cominciando a capire solo ora» dice la
microbiologa Carlotta De Filippo, che studia il microbioma alla fondazione
trentina Edmund Mach. Dal 2008 il consorzio internazionale Human Microbiome
Project, promosso dal National Health Institute americano, censisce i microrganismi
che convivono con l'umanità: per ora ne hanno individuato oltre 10 mila specie.
Fra le centinaia di persone di cui hanno analizzato il microbioma, c'è anche il
giornalista Michael Pollan, che ha raccontato sul magazine del New York i risultati
del suo esame: possiede un ottimo microrganismi, tra i quali figurano quelli
della famiglia Prevotella, che digeriscono fibre vegetali, frutto probabilmente
della sua dieta largamente vegetariana. Nelle popolazioni dei Paesi avanzati,
invece, questi batteri stanno diventando relativamente scarsi, sostituiti da
altri, come i Firmicutes, più a loro agio in un ambiente ricco di zuccheri e
proteine, ma che non sembrano altrettanto utili al nostro benessere. «In realtà
non sappiamo quale sia il microbioma "perfetto"» dice il microbiologo
Rob Knights, dell'Università del Colorado a Boulders, ricercatore di punta dello
Human Microbiome Project, «anche perché l'ideale varia con la dieta e l'ambiente
in cui si vive. Per esempio nell'intestino dei giapponesi, e solo nel loro, è
presente un batterio specializzato nella digestione delle alghe. Pensiamo però
che più il microbioma è diversificato meglio sia. Infatti, se l'uomo ha 27 mila
geni nel suo Dna, il Dna del suo microbioma ne contiene milioni, e più è grande
la varietà più è probabile che abbia una soluzione pronta per rispondere a
variazioni nella dieta o alla presenza di patogeni». La costruzione di un
microbioma vario ed equilibrato inizia dai primi secondi di vita. «Nasciamo
sterili» dice Duccio Cavalieri, biologo, che lavora con De Filippo nello studio
del microbioma delle aree alpine, «ma già il passaggio attraverso il canale
materno ci conferisce una carica batterica in grado di "addestrare"
il nostro sistema immunitario a distinguere gli "amici" presenti nel
corpo materno dai batteri estranei. Una ricerca del febbraio scorso, condotta
dalla pediatra Christine Cole Johnson, ha mostrato come la mancanza di questo
imprinting batterico nei bambini nati per parto cesareo possa portarli a
sviluppare cinque volte più allergie di quelli nati con parto naturale». A
completare il nuovo micro bioma pensa poi l'allattamento al seno, sia con i batteri
presenti nel latte, sia con quelli di ceppo bifidus che prosperano sui
capezzoli materni. Addirittura si potrebbe dire che la madre allatti il
microbioma: certi zuccheri contenuti nel latte non sono infatti digeribili per
il piccolo, ma solo per i suoi bifidus. «II microbioma del bambino» continua
Cavalieri «si perfeziona entro i primi quattro anni di vita, assumendo altre specie
sia dal cibo solido che dall'ambiente dove vive, animali domestici compresi, fino
ad arrivare ad averne uno simile a quello dei propri genitori. «C'è il forte
sospetto» dice De Filippo «che far crescere i bambini in una bolla di igiene
eccessiva, dando loro solo cibi sterilizzati, non facendoli giocare cori animali
o per terra, curandoli con antibiotici a ogni raffreddore, impoverisca il loro
microbioma, creando le premesse per le allergie». In età adulta, poi, è
fondamentale la presenza nel microbioma di batteri che digeriscono le fibre
vegetali. «Il colon» dice De Filippo «ospita i batteri che digeriscono le
fibre, producendo butirrato, che le cellule dell'epitelio intestinale, isolate dal
flusso sanguigno, usano come nutrimento. Se quei batteri scarseggiano, le cellule
dell'epitelio si diradano, rendendo l'intestino permeabile al passaggio di
mi-crorganismi, tossine e proteine non digerite, e innescando uno stato di
costante infiammazione nell'organismo. E questa potrebbe essere una delle cause
di patologie "moderne" come la sindrome metabolica, il diabete di
tipo 2, le infiammazioni croniche intestinali, l'obesità». Uno studio condotto
da Stanley Hazen, della Cleveland Clinic, ha rivelato che un microbioma
squilibrato potrebbe essere anche il nesso fra consumo di carne e malattie
cardiocircolatorie. Hazel aveva già dimostrato nel 2011 che i batteri
intestinali trasformano alcune proteine della carne in Tmao, una sostanza che promuove
l'arteriosclerosi. Ora ha misurato i livelli di Tmao in volontari che seguivano
diete diverse dopo avergli fatto mangiare una bistecca: la scoperto che nei
vegetariani i livelli di Tmao restavano molto più bassi rispetto a quelli di
chi mangiava carne abitualmente. Sarebbe perciò il microbioma predominante a
rendere la carne un alimento più o meno pericoloso per le arterie. La
farmacologa Patrizia Brigidi, dell'Università di Bologna, ha invece esplorato
con un gruppo di colleghi il cambiamento del microbioma negli anziani, rilevando
una perdita di biodiversità e un aumento in specie patogene, forse dovuto all'invecchiamento
del sistema inununitario. Questa modifica della nella flora intestinale apre la
strada a uno stato di infiam-mazione permanente, deleterio per la salute, ma
che potrebbe essere ridotto con l'assunzione quotidiana di probiotici. Ripristinare
il corretto microbioma, però, non è semplice. «Anzitutto spesso l'organismo
deve abituarsi fin dalla fase di sviluppo alla presenza di un microrganismo, per
accettarlo come ospite» dice Cavalieri, «poi la dieta va adattata al nuovo microbioma:
se aggiungo batteri che si nutrono di fibre vegetali, devo arricchire la mia
dieta di fibre, per mantenerli. In terzo luogo, più che un singolo microrganismo,
come i Famosi bifidus delle pubblicità, sarebbero più utili un mix di varie specie,
ancora dla studiare nel dettaglio. Infine assumere integratori
"probiotici" per bocca non garantisce che arrivino vivi all'intestino,
a causa dell'acidità dello stomaco». In alcuni casi gravi, come le infezioni
intestinali da Clostricliurn difficilis, batterio molto difficile da curare, si
ricorre però già al trapianto di microbioma da una persona sana a una malata: è
già avvenuto anche in Italia, al Policlinico Gemelli di Roma (prelevando flora
batterica da un intestino e innestandola in un altro). Se il microbioma è tanto
prezioso, allora bisogna impegnarsi per proteggerlo. «Meglio evitare
antibiotici inutili e un eccesso di zuccheri, consumare vegetali vari e
alimenti fermentati» suggerisce Knights. «Un approccio che può aiutare anche a
rilanciare i nostri prodotti tipici»dice Cavalieri, che con De Filippo studia
quelli del Trentino. «Dalla birra ai formaggi, al vino agli yogurt, la nostra
industria alimentare potrebbe proporre nuovi prodotti che mantengano un
equilibrio salutare del microbioma intestinale».
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