Mi “inerpico” per l’irta e
tortuosa scrittura che la storia che vi voglio raccontare m’impone. È come percorrere,
ansioso ed ansante, lo stretto sentiero di un alto crinale con la certezza di
sprofondare in un orrido qualora l’irriverenza o la sconvenienza di essa – la
scrittura, intendo dire – mi prendessero la mano. È che è sempre difficile
parlare, e tanto meno scriverne, di tutto ciò che afferisce alla sfera della
corporalità degli umani. Ma la storia che vi voglio raccontare rappresenta per
me molto di più di un fatto accaduto e che si ha voglia di rievocare. È una
storia personale, di quelle che solo a ripensarci, dopo anni ed anni, la
nostalgia, se non un magone profondo, ti assalgono lasciando dentro il dolce
ricordo di quel tempo e l’amaro di quel qualcosa o di quel qualcuno che non ci
sono più. Nel caso, di un caro, carissimo ed indimenticato qualcuno. Sono
ritornato a quelle memorie, a quei carissimi, dolcissimi ricordi, dopo aver
conosciuto “DOXY”. “Doxy”? Chi è costui? M222; 1167; PA; Lav 01; Col. 099,
recita l’etichetta ad esso appesa. È semplicemente un pantalone, di quelli a
taglio moderno – “slim fit” -, studiato e realizzato su di un modello
tridimensionale – per come recita l’etichetta – di straordinaria vestibilità.
Ho conosciuto da poco il modello “DOXY” e ne sono rimasto
conquistato. Perché vi parlo di “DOXY”? Poiché è il pantalone “DOXY”
che mi ha fatto tornare alla mente la storia che vorrei raccontare. Si era agli
ultimi anni di vita del mio caro papà. Soleva consegnarmi con grande pudicizia le
sue confidenze ed un giorno ebbe a dirmi delle difficoltà, all’atto della
minzione, dovute alla “patta” dei suoi pantaloni non più
con i tradizionali bottoni ma chiusa con una moderna “lampo”. Pantaloni con
patta senza bottoni; una difficoltà in più per una naturale funzione. Al tempo
mi sembrò essere la sua confidenza più che altro un problema legato
essenzialmente alla sua età. Sbagliavo. Poiché, avanzando anch’io negli anni e
raggiunta con successo una buona età, ho potuto constatare quanto di vero
contenesse quella cara, carissima confidenza del mio papà. Un groppo ancor’oggi
mi stringe alla gola. “DOXY”, però, ha risolto il mio
problema. Se fosse ancora tra di noi avrebbe risolto anche il problema del mio
caro papà. Poiché progettato e realizzato su di un modello tridimensionale? Non
lo so. So solamente di starci molto meglio dentro. Meglio che con gli altri
pantaloni con la patta chiusa con la “lampo”. Non cercherò la patta con i
bottoni, come avrebbe voluto fare il mio papà. Introvabili allora. Mio padre
custodiva con nostalgia il ricordo del suo sarto. Dove sono finiti i sarti? La
storia che ho raccontato ve la ho raccontata per introdurvi alla lettura di una
riflessione di Giacomo Papi – pubblicata su il settimanale “D” del 21 di
gennaio dell’anno 2012 , “Le mani dei
sarti” - che di seguito trascrivo in
parte. Scrive, in chiusura della Sua riflessione, Giacomo Papi: Non è
un caso, come racconta Paul Henry Nystrom in Economics in fashion (New York,
1928), che la prima produzione industriale di abiti - iniziata intorno al 1830
- riguardò categorie non libere di scegliere. Per primi vennero i marinai, ma
la produzione per i civili iniziò dieci anni dopo, quando qualcuno pensò di
produrre vestiti per gli schiavi delle piantagioni di cotone degli Stati del
Sud. Non sono rimaste fotografie. A nessuno poteva venire in mente di
fotografare gli schiavi, a quei tempi. Anche il mio papà, divenuto
vecchio, non è stato più libero di scegliere il pantalone con la patta con i
bottoni. La nota “jeanseria” M*** non aveva ancora prodotto “DOXY”.
(…). Quale funzione identitaria e
sociale svolgono i vestiti? E perché le firme attirano tanti pellegrini? In che
cosa consiste di preciso il piacere di comprare? Sotto la crosta della civiltà
sopravvive la preistoria. La moda è solo una variazione dell'uguale. È un
errore imputare ai tempi che corrono i comportamenti di massa che si diffondono
solo perché soddisfano bisogni primordiali. La varietà, la ricchezza e
l'eleganza degli abiti - esattamente come le cicatrici o i tatuaggi rituali
all'interno di una tribù - mostrano il successo con cui chi li indossa vive
dentro la propria società. Le firme degli stilisti sono fossili di qualcosa che
è scomparso. Come i vip sono ciò che rimane dei santi, il logo è la traccia del
sarto, della mano dell'uomo che resiste nonostante la macchina. Fare shopping è
prendere oggetti, riempire cesti o carrelli e portarseli a casa. Per questo ci
piace. È ripetere i gesti degli antichi cacciatori e pescatori senza più far
fatica, senza più attesa, senza più rischiare di fallire e avere fame. Lo
shopping ci rassicura sulle nostre possibilità di sopravvivere perché è una
replica disidradata e stilizzata delle attività più elementari dell'uomo, dei nostri
più antichi lavori. E la moda, nell'era industriale, è intimamente connessa al
lavoro. Ogni abito, oggi, è una divisa.