(…). In una pausa tra i pedali
Geo mi chiede: «Ma c’è la crisi economica?». Geo, che sa distinguere, ormai a
nove anni, tra possibile, plausibile e probabile, si fa domande cui non so
rispondere oltre un ovvio “sì”. In Italia si sta male? Dipende. È che forse non
è facile capire come stanno gli italiani, cos’è il tenore di vita e quanto
questo assomigli ad uno stipendio percepito. Lascio letture economicistiche e
psicosociali ai veri esperti, io mi arrovello, come papà, a spiegare questa
cosa al mio bambino. Certo, una casa di 70 metri quadri può
costare 400 mila euro a Roma e a Milano e 150 in molte altre parti
d’Italia, ma lo stipendio di una maestra elementare è sempre lo stesso,
un’automobile costa la stessa cifra dappertutto e così pure le figurine dei
calciatori, no il meccanico e il muratore però, e neanche andare a mangiare una
pizza costa uguale. «Geo, al mare di Castrocucco “la margherita” la paghiamo 4
euro, qui in città 8 o 9». «Mamma mia!». «Mamma tua e pure povero papà, amore
mio…». E neanche gli italiani se la cavano tutti allo stesso modo, ci sono
quelli che giocano in borsa e quelli che non escono mai di casa, quelli che
fanno tutto via internet, anche l’amore, soprattutto l’amore, e quelli che non hanno
mai acceso un computer, ci sono quelli che non sanno pranzare senza avere la tv
davanti e quelli che da anni il televisore l’hanno buttato via, quelli che
dicono di averlo fatto, ma di nascosto sbirciano e se lo sciroppano. Scriveva
così in una canicolare – molto probabilmente - domenica 7 d’agosto dell’anno
2011 il musicista e scrittore Andrea Satta. Lo scriveva sul quotidiano l’Unità
col titolo “La grande crisi spiegata a
mio figlio”. Ne ho ritrovato il ritaglio, prezioso. Mi rapisce la scrittura
di Andrea Satta, così come mi rapisce il Suo semplice scrivere che è come un
parlare calmo, ragionato, magari sottovoce. Senza strillare. Ma il Suo scrivere
che parla scende in fondo, informa la coscienza delle “cose” del mondo, per
come esse vanno, semplicemente tanto che al pari del Suo “Geo” lo si intende. È
per questo che custodisco gelosamente i ritagli dei Suoi scritti. Per proporli
poi a chi della lettura – che nel caso è conversazione pacata – se ne nutre. E
continua nel Suo pezzo: Siamo il Paese dei cellulari accesi e
indagati, il popolo che non vuol fare lavori umili, dicono, quello che riempie
comunque i ristoranti, vedo, ma anche quello che, siccome non ci sono soldi, i
tagli li fa alla cultura, alla scuola, alla sanità, ai bambini e mette i ticket
sulle ricette. Ci sono gli italiani che hanno avuto tutto dai genitori, la
casa, la macchina, qualche risparmio e 2000 metri di oliveto
allo svincolo della statale, che poi c’è passato il piano regolatore e tutto è
diventato edificabile (che conoscevano l’assessore e ora vale, vale, vale), e
mamma e nonna stanno casa, tra la messa e la pasta della domenica. E nonno?
Nonno s’è rincoglionito coi nipotini e la sera non esce mai e quindi non
spende. Si vive con uno stipendio basso e ma si sta bene lo stesso. L’ Italia è
una magia, dove ognuno s’è fatto gli affari suoi come nessun manager avrebbe
mai saputo neanche immaginare. L’importante è non dovere rispondere ad un
criterio universale perché allora salta tutto in aria. Quindi lasciateci fare. Amore
mio, non resta che pedalare… Ha scritto di recente Concita De Gregorio
su la Repubblica del 24 di gennaio - "Così
siamo diventati poveri" -: I numeri non rendono l’idea. Siamo
assuefatti, bombardati. Non li tratteniamo neppure il tempo necessario perché
si traducano in un pensiero. Sono le storie che parlano. Quelle sì, quelle
somigliano tutte a qualcosa che sappiamo. La commessa del super, il fornaio
dove vai a comprare le rosette, il ragazzo che ha l’età di tuo figlio, il padre
di mezza età, la madre. Questa è l’Italia, questi siamo noi. Narcotizzati da
una campagna elettorale che discute di pensioni e di tasse, di esodati e di
aliquote: un mondo politico che parla, provando a farsi votare, a chi il lavoro
ce l’ha o ce l’ha avuto. Ma quasi la metà del paese non ha lavoro, lavora al
nero, ha redditi sotto i mille euro. La media delle famiglie italiane guadagna meno di ventimila euro
l’anno, dicono i dati ministeriali, con buona pace delle discussioni sulla
patrimoniale per chi ha redditi sopra il milione o il milione e mezzo. C’è
differenza fra ventimila e un milione, una differenza così grande che genera,
in chi non trova ascolto, rabbia, ostilità, fragilità, disillusione. Siamo
tornati poveri, dicono i dati Istat. Più di otto milioni di italiani, una
famiglia su dieci spende circa mille euro a testa al mese, la cifra sotto la
quale l’Istat stabilisce la soglia di povertà
relativa. Indietro di 27 anni. Ma nemmeno questo rende l’idea perché
ormai sono anni che separarsi è diventato un lusso da ricchi, che il ceto medio
è scivolato verso l’indigenza, che i padri che pagano gli alimenti dormono in
macchine e vanno a mangiare alla Caritas. La novità, oggi, (…), è che
nell’indifferenza diffusa comprare a metà prezzo il pane di ieri, fare la spesa
al super di carne in scadenza e quindi in saldo, nascondere la laurea per
trovare un lavoro da 800 euro o laurearsi per poi servire ai tavoli di un pub,
al nero, è diventato assolutamente normale. Tutto intorno è così. L’ascensore
sociale non è solo fermo, guasto, bloccato dal malaffare e dal malgoverno.
Torna indietro. Non sale: scende. I figli hanno un destino peggiore dei padri,
il giovane laureato in Legge, figlio di operai del Sud, ha vergogna a dire che
non sa che farsene del suo titolo, non sa come spiegarlo ai genitori. Non va
avanti, non può tornare indietro. È il lavoro che manca. È l’unica cosa di cui
parlare, la sola di cui una campagna elettorale dovrebbe occuparsi: offrire un
progetto per restituire lavoro al Paese. Senza libertà materiale non c’è
libertà politica né democrazia. Il resto sono chiacchiere. Lo ha
scritto Concita De Gregorio in un dossier nel quale ha “tipizzato” le figure di
una umanità sofferente, in un mondo che è tornato povero. Quello stesso mondo
che, nel bel paese, si era fatto abbacinare ed abbindolare da un quindicennio
di mirabolanti promesse di ricchezza e di quant’altro possibile per tutti sotto
questo cielo, tanto che, per dirla con un’idea espressa magistralmente da
Goffredo Fofi, la cosa più straordinaria che quel neoliberismo sia riuscito a realizzare
nella sua impetuosa avanzata è stata che i poveri abbiano amato i ricchi, svisceratamente,
sull’idea balzana che tanto le “classi” – sociali intendo dire –
non ci sono più. Amarli al punto da accettarne le vite dissolute, senza anima,
senza responsabilità sociale. Ora, scrive Concita De Gregorio, “l’ascensore
sociale non è solo fermo, guasto, bloccato dal malaffare e dal malgoverno” e
l’appartenenza alle “classi” diviene palese anche ai più sprovveduti che, del mito
della ricchezza a buon mercato, della vita gaudente senza impegno e
responsabilità, si erano lasciati lusingare e catturare. Del dossier di Concita
De Gregorio proporrò – nel layout di questo blog - le sei storie sofferenti di
un popolo socialmente ed economicamente regredito, tornato “indietro di 27 anni” nelle
sue conquiste economiche e sociali, e perché no, nelle sue conquiste dei
cosiddetti inalienabili “diritti” di cittadinanza, che fanno
di una moltitudine un popolo cosciente della sua storia e del suo divenire. Oltre
certi limiti, il buio.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
lunedì 28 gennaio 2013
sabato 26 gennaio 2013
Sfogliature. 17 “L’alba ci colse come un tradimento…”. (Primo Levi)
Giovanni Torres La Torre. "Deportazione".
Proponevo, il 27 di gennaio
dell’anno 2011, il giorno consacrato alla “Memoria”, un post nella sezione “Eventi” di quello che è stato questo
blog quand’era allocato su di un’altra piattaforma. Ho riportato alla “luce”
quel post, caduto e divorato dalla oscurità profonda della rete, scorrendo
l’e-book - alle pagine 530/533 - che ne è rimasto. Lo ripropongo per la “Giornata
della Memoria” 2013.
Ha lasciato scritto nel Suo “Se
questo è un uomo” Primo Levi: “Le
madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono
i bambini, e fecero i bagagli e all’alba i fili spinati erano pieni di
biancheria infantile stesa al vento ad asciugare. (…) L’alba ci colse come un
tradimento… I vagoni erano dodici e noi seicentocinquanta… in viaggio verso il
nulla, in viaggio all’ingiù, verso il fondo”. Era il 22 di febbraio
dell’anno 1944. Iniziava il lungo viaggio dal quale in tanti, in tantissimi,
non sarebbero mai più ritornati. Se si accusa oggigiorno una certa retorica
stantia nel ricordare quelle date e quegli avvenimenti, la lettura delle
memorie, delle testimonianze di chi visse quei tragici giorni concorre a
cementare l’idea che “il giorno della
memoria” abbia bisogno di resistere e sopravvivere all’indifferenza del
tempo, all’acquiescenza o, peggio ancora, al negazionismo che, crudele, si
affaccia in ampi strati sociali e che occhieggia a tante formazioni politiche
senza una “memoria” ed una storia
vera. Ma il primo treno a partire dal campo di Fossoli, nei pressi di Carpi,
era stato il 26 di gennaio dell’anno 1944. Primo Levi fu caricato, al pari
degli altri sventurati, su un treno, forse successivo, di quel terribile
febbraio. Di Primo Levi il quotidiano l’Unità ha ritrovato e pubblicato col
titolo «Dal fascismo ad Auschwitz c’è
una linea diretta» una intervista inedita dell’anno 1973 che lo scrittore
concesse ad uno studente allora giovanissimo -15 anni- Marco Pennacini che, al
tempo, frequentava la seconda classe del liceo “Gobetti”. L’intervista,
contenuta in cassette, fortunosamente salvate dalla mamma di Marco, sta a
raccontarci di una storia che il tempo o l’indifferenza degli uomini non
potranno giammai cancellare. Di seguito trascrivo nella sua interezza quella
straordinaria intervista.
“- Primo Levi, come mai ha
voluto scrivere «Se questo è un uomo»? - «Perché ero appena ritornato dalla
prigionia, e avevo un tremendo bisogno di raccontare queste cose, un bisogno
che diventava ossessione.(...) Nel lager cercavo di immagazzinare tutto, di mettere
tutto in una specie di tasca».
- Allora vedevi già con un
occhio più distaccato quel che ti succedeva... - «No, non era possibile. Nel
lager c’era il problema di sopravvivere. Sì, avevo una vaga idea di
sopravvivere per scrivere, questo sì, mi ricordo di averlo detto a qualcuno.
Addirittura quando ero in laboratorio e avevo una matita e un quaderno ho
scritto qualche pagina».
- Che poi hai perso... - «L’ho
persa, l’ho scritta così, per l’urgenza di scrivere, sapendo benissimo che poi
l’avrei persa».
- Certo -. «Ma era molto
importante per me allora la possibilità di diventare un testimone, lo sentivo
già allora. Non solo io, ma un po’ tutti, tutti quelli con cui si parlava
dicevano: “È importante sopravvivere per poterlo raccontare perché il mondo
le sappia queste cose”. Avevamo piena consapevolezza: però non è che questo
ci permettesse di fare gli esploratori del lager. Non era possibile, c’erano
questioni immediate, come quello di trovare un pezzo di pane, di proteggersi,
di aver salva la vita. Quindi io e altri immagazzinavamo tutto voracemente,
tutte le esperienze. Anzi, ci interrogavamo a vicenda per sapere ciascuno la
storia degli altri. Ed effettivamente cadevano su un terreno buono, perché
queste cose sono indimenticabili. Io ancora adesso mi ricordo le facce di gente
vista trent’anni fa».
- Le facce? - «Le facce. Tanto
che quando mi è successo, come mi è successo, di ritrovarne qualcuno, l’ho
subito riconosciuto, e lui me. Ho riconosciuto, ho ritrovato Pikolo, quello del
canto di Ulisse... Jean...»
- E questa discussione su Ulisse,
si è svolta veramente? - «Non c’è niente di inventato nel libro. Non c’è
nulla di inventato. Non una parola.(...) L’unica autocritica che potrei fare è
quella che non ho messo in luce abbastanza questa validità politica del
libro».
- Parli di “Se questo è un
uomo”? - «Se non lo avessi scritto allora lo scriverei adesso».
- Ma lo scriveresti con le stesse
intenzioni? - «No».
- Come un documento? - «No: lo
scriverei, in primo luogo, con lo stile di un uomo che ha trent’anni di più, e
trent’anni di più vogliono dire molta esperienza in più e molta vitalità in
meno. Quindi non so cosa verrebbe fuori: verrebbe fuori una cosa completamente
diversa. Soprattutto però lo scriverei oggi con riferimento preciso al
fascismo di oggi che nel libro non c’è. Quando ho scritto Se questo è un uomo
il fascismo era finito, non c’era più, era chiaro come il sole che non c’era.
Era finito di fatto, era stato sepolto, come partito politico non c’era né in
Italia né in Germania. Ma se lo scrivessi oggi... userei il mio libro come uno
strumento».
- Lo strumentalizzeresti,
diciamo... - «Sì, già lo userei come strumento. Lo faccio quando vengono i
ragazzi a parlarmi. Tendo a mettere in chiaro che c’è una linea diretta che
parte dalle stragi di Torino del ’22, Brandimarte (capo delle squadre d’azione
fascista: è lui a guidare la strage che a Torino, il 18 dicembre del 1922,
porta alla morte di 14 antifascisti e alla distruzione della Camera del Lavoro.
Nel novembre del 1971, al funerale, un reparto di 27 bersaglieri del 22 ̊ reggimento fanteria della divisione
Cremona, al comando di un ufficiale, rende gli onori militari alla sua salma,
ndr), e finisce ad Auschwitz. C’è una continuità abbastanza evidente».
- Sì, c’è una continuità, ma
hai detto che lo sterminio riguardava i tedeschi, no? - «Stiamo parlando di
qualcosa che è stato inventato in Italia e perfezionata in Germania»
- Ah! è stata inventata in
Italia... - «Le prime stragi fasciste sono italiane... sono torinesi».
- Pensavo che... - «Lo sterminio
industriale è tedesco. Ma la violenza a scopo politico in questo secolo è
un’invenzione italiana».
- Ho capito. - «Il fascismo è un
brevetto italiano, eh!»
- Purtroppo... - «Torinese,
voglio dire. Insomma la strage del ’22.... Era una caccia, una caccia per le
strade. Non so se hai letto qualcosa in proposito...».
- Sì, qualcosa... - «Brandimarte
(...), è morto nel suo letto (...). È stato assolto per insufficienza di
prove».
- Sì, ma c’è tanta gente ancora
che gira... - «Sì, veterani».
- Sì, sì. - «Federali. Capi di
gabinetto, capi giunta, Almirante: appunto, se scrivessi oggi, metterei più in
chiaro questa cosa (...). Quando ho scritto Se questo è un uomo ero convinto
che meritasse la pena di documentare certe cose perché erano finite. Adesso
non sono più finite, bisogna parlarne di nuovo».
- Allora diciamo che lo
scriveresti sotto un profilo meno scientifico, più... - «No, penso che non
toglierei niente, però aggiungerei molto».
- Ah! capisco, e perché non lo
fai? - «Perché non si può scrivere due volte lo stesso libro. (...)Come ti
dicevo prima, che c’è una linea diretta fra Brandimarte e Auschwitz. Questa
linea non finisce ad Auschwitz, continua in Grecia, è continuata in Algeria
con i francesi. È continuata in Unione Sovietica, puoi dire di no?» (...)
- A proposito di Se questo è un
uomo e di La tregua: credi che servano, diciamo, per educare ad una certa
coscienza? - «Dipende dall’insegnante. Il fatto stesso che venga scelto quel testo,
testimonia che l’insegnante ha delle buone intenzioni, cosa poi ne nasca non so
dirtelo. Ho l’impressione che in generale perché vengono molti ragazzi qui, o
mi telefonano per avere delle informazioni che queste cose vengono sentite,
appunto, come passato remoto, una cosa un capitolo arcaico, come i garibaldini
insomma, come la rivoluzione francese, una cosa molto, molto lontana. Infatti
è abbastanza lontana nel tempo, ma... solo nel tempo è lontana»... (...)
- Con che spirito l’hai scritta
La tregua? - «Ho scritto La tregua nel ‘61-‘62 quando era appena crollato il
mito della Russia monolitica, della Russia paese del socialismo, della Russia
perfetta, paradiso secondo i comunisti e inferno secondo gli americani, o
secondo i nostri democristiani. Erano due visioni talmente manichee, talmente
assurde, sia l’una sia l’altra, che mi sembrava molto importante raccontarla
così come io l’avevo vista».”
giovedì 24 gennaio 2013
Cosecosì. 40 Il progresso è fallito.
(…). Le visioni della politica e
dell’economia si sono basate sull’idea, che risale al settecento e
all’ottocento, del progresso come legge ineluttabile della Storia. Questa idea
è fallita. Soprattutto, è fallita l’idea che il progresso segua automaticamente
la locomotiva tecno-economica. È fallita l’idea che il progresso sia
assimilabile alla crescita, in una concezione puramente quantitativa delle
realtà umane. Negli ultimi decenni la storia non va verso il progresso garantito,
ma verso una straordinaria incertezza. Così oggi il progresso ci appare non
come un fatto inevitabile, ma come una sfida e una conquista, come un prodotto
delle nostre scelte, della nostra volontà e della nostra consapevolezza. Così
scrivevano Edgar Morin e Mauro Ceruti nell’editoriale “Il progresso è fallito: ora una nuova civiltà”, apparso sul
quotidiano l’Unità del 13 di settembre 2012. Un’idea del “progresso” che
immancabilmente viene associata all’idea della tanto invocata “crescita”.
“Crescita”
dei consumi, “crescita” del superfluo almeno per una parte dei terrestri.
Senza un’idea di redistribuzione, su scala planetaria, delle risorse naturali e
dei vantaggi che il depauperamento di quelle risorse, appartenenti all’intero
genere umano, assottiglierà sempre più per quella parte dell’umanità che è
ancora ben lontana dalla tavola imbandita dei consumi. C’è nel pensiero dei due
filosofi l’invocazione per “una nuova civiltà”, che sia “ora”
prima che il disastro ambientale faccia il suo inarrestabile, disastroso percorso.
È di questi giorni la notizia della probabile/imminente fine della cosiddetta
civiltà degli “yangrou chuan”, gli adorati spiedini, che giorno e notte sfrigolano
sopra griglie improvvisate lungo ogni strada del Paese. Leccornie popolari, per
tasche di massa, imputate ora di una colpa imperdonabile: dopo secoli, il
governo della seconda economia del mondo ha scoperto che, arrostendo sul
carbone, inquinano. La notizia giunge dall’opificio più grande del
pianeta Terra, la Cina, quello che un tempo era denominato l’impero celeste. A
darcene contezza è l’attenzione sempre viva di Giampaolo Visetti per tutto ciò
che avviene in quel laboratorio nuovo del capitalismo dei consumi. Il Suo
dossier, “Smog la sindrome cinese”,
è stato pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 22 di gennaio. Gli “yangrou
chuan” inquinano la Cina. Vanno a carbone le fornacelle per gli
spiedini dei cinesi. Come tutto ciò che, al di là della grande muraglia, serve
per fare andare avanti l’opificio più grande del pianeta. Impossibile fermarlo.
Continua Visetti: Si cela spesso del comico, nel tragico. E così, per impedire che un
numero troppo imbarazzante di cinesi crepi a causa dello smog, assieme al bando
contro il barbecue sbucano dalle nebbie metropolitane altre due singolari
esortazioni: impedire agli scolari di passare la ricreazione in cortile e fare
in modo che gli anziani, tappati in casa, non respirino vicino alle finestre.
Per denunciare un’orrenda verità: …le griglie costrette a spegnersi, come i
bambini chiusi in classe e gli altri esseri viventi impegnati a contendersi le
ultime maschere anti-gas, rivelano improvvisamente alla nazione che si sta
prendendo il secolo, una parte essenziale di ciò che continua a significare il
successo di quell’aspirazione che convenzionalmente chiamiamo crescita: il
sacrificio della vita di chi viene incaricato di promuoverla. Oggi il “sacrificio”
di una vita sana diviene il prezzo altissimo da pagare per una “crescita”
che non rappresenta più un “progresso”. Si è ancora in tempo
per frenare lo sprofondare nell’abisso? Scrive ancora Visetti, nella Sua
corrispondenza che ha tutto l’amaro sapore di quei veleni dei quali ci da
notizia: Da dieci giorni Pechino, Shanghai, Chongqing e decine di metropoli
industriali risultano scomparse dentro nuvole nere, grasse di olii che
impregnano i capelli, di acidi che corrodono la gola e di polveri che bruciano
gli occhi. Lo smog, che fino all’anno scorso le autorità chiamavano nebbia, è
tale che centinaia di voli vengono cancellati per “invisibilità della pista”. Poiché
l’imperativo della “crescita” quantitativa non lascia scampo alcuno anche se quei
lapilli che i tecnici indicano con l’asettica sigla PM2.5, ossia il particolato
mefitico di un diametro fino a 2.5 micron, a Pechino hanno raggiunto la vetta
inviolata di 993 microgrammi per metro cubo. È una quota quaranta volta
superiore al limite massimo stabilito dall’Organizzazione mondiale della
sanità, settantacinque volte più alta dei limiti imposti negli Usa. Gli
scienziati avvertono che per non deteriorare la salute, la concentrazione di
queste particelle deve restare sotto il livello venti. Nella cecità di
un mondo che ha regolato la sua esistenza sulla cognizione della “crescita”
per quantità sempre maggiori e che ha messo al bando la “qualità” dell’esistenza
della vita sul pianeta Terra sfuggono ai più “i dati della Banca Mondiale (che)
mostrano
poi che nel 2009 lo smog è costato alla Cina il 3,3% del reddito nazionale,
schizzato a quasi il 5% lo scorso anno. La gente fa esplodere gli ospedali
pubblici con malattie ai polmoni, al cuore, alla pelle e agli occhi. Impiegati
ed operai si assentano da uffici e fabbriche, con i veleni sparati
nell’atmosfera accusati di una perdita del 7% della produttività. Al resto dei
danni economici ci pensano gli incidenti stradali, la cancellazione dei voli e
perfino una durata inferiore di edifici e infrastrutture, valutata in media
dieci anni. Può apparire spaventoso, ma nel nuovo paradiso di grattacieli,
fabbriche e ferrovie ad alta velocità, l’inquinamento si vendica rosicchiando
anche il cemento che dovrebbe custodire merci e persone”. Ma è nella
logica del capitalismo la ricerca di sempre nuove “terre vergini” da
sfruttare convenientemente nella cecità più assoluta. Ma il disastro è dietro
l’angolo. Ed il popolo di quello che è stato l’impero celeste non ha voglia di
discostarsi da quella tavola imbandita che per lunghissimo tempo è apparsa solo
come un miraggio. Ma urge la “civiltà nuova” preconizzata da
Morin e Ceruti. Non più cieca e sorda ai problemi ambientali. Scrivono in quel
loro lavoro i due filosofi: Altrettanto discutibile è la nozione
tradizionale di sviluppo, definita in una prospettiva unilateralmente
tecno-economica, ritenuta quantitativamente misurabile con gli indicatori di
crescita e di reddito. Ha assunto come modello universale la condizione dei
Paesi detti appunto «sviluppati», in particolare occidentali, alla quale si
dovrebbero ispirare tutti gli altri Paesi del mondo (…). Così si è arrivati a
credere che lo stato attuale delle società occidentali costituisca lo sbocco e
la finalità della storia umana stessa, trascurando i tanti problemi drammatici,
le tante miserie, i tanti sotto-sviluppi, non solo materiali, provocati dal
perseguimento degli obiettivi di una crescita tecno-economica fine a se stessa.
Ma le soluzioni che volevamo proporre agli altri sono diventate problemi per
noi stessi. (…). Allo sfruttamento economico, contro il quale hanno sempre
lottato i sindacati, oggi si aggiunge un’ulteriore alienazione in nome della
produttività e dell’efficienza. Abbiamo urgente bisogno di una politica di
umanizzazione di quella che è ormai un’economia disumanizzata. Se si vogliono
seriamente realizzare gli obiettivi di «sostenibilità» e di «umanizzazione»,
non basta spianare la via con qualche levigatura: bisogna cambiare via. (…).
…la necessità di cambiare via diventa sempre più urgente, nel momento in cui il
dogma della crescita all’infinito viene messo drasticamente in discussione dal
perdurare della crisi economica europea e mondiale, dai pericoli prodotti di
certo sviluppo tecnico e scientifico, dagli eccessi della civiltà dei consumi
che rendono infelici gli individui e la collettività. (…). E per imboccare una
via nuova bisogna concepire una nuova politica economica che possa contrastare
l’onnipotenza della finanza speculativa e mantenere nello stesso tempo il
carattere concorrenziale del mercato. (…). Non ci sono alternative. A
chi si strappa le vesti invocando la “crescita” per come la si è avuta
dal secolo diciannovesimo in poi la risposta chiara è forte dev’essere una: a
quale prezzo? Chiude la Sua corrispondenza Giampaolo Visetti annotando: Il
segnale è che non solo il costo della crescita ha superato i suoi ricavi,
pregiudicando la sopravvivenza di chi ha la missione di produrre, (…). Nessuno
stupore, ieri sera, quando il telegiornale, dopo i drammatici dati su un’altra
giornata con 420 microgrammi di PM 2.5 per metro cubo a Pechino, ha trasmesso
un servizio sulla “guerra per l’energia” nel Pacifico e uno sul boom
dell’hitech nell’ex distretto manifatturiero di Canton. Lo smog cambia la Cina
e la Cina, provando a pulire l’informazione con lo sporco del vento, vuole che
il resto del mondo ne sia consapevole. Respirare, anche in Asia, oggi costa.
C’è davvero qualcosa nell’aria, sopra la Città Proibita: non solo la rinuncia
alla delizia di uno spiedino. Che non siano “quelli” dell’impero
celeste a mostrarci la via per una “crescita” diversa e più
responsabile, insomma per “una nuova civiltà”? La loro “civiltà”,
del resto, ci ha preceduti di tanto sulla via delle invenzioni e delle
applicazioni tecnologiche.
domenica 20 gennaio 2013
Cosecosì. 39 Leggere “Scegliere il principe”.
“E veramente nelle città di
Italia tutto quello che può essere corrotto
e che può corrompere altri si raccozza: i giovani sono oziosi, i vecchi
lascivi, e ogni sesso e ogni età è piena di brutti costumi; a che le leggi
buone, per essere da le cattive usanze guaste, non rimediano. Da qui nasce
quell’avarizia che si vede ne’ cittadini, e quello appetito, non di vera
gloria, ma di vituperosi onori, dal quale dipendono gli odi, le nimicizie, i
dispareri, le sette; dalle quali nasce morti, esili, afflizioni de’ buoni,
esaltazioni de’ tristi”. Riporta, in quarta di copertina, il professor Maurizio
Viroli – docente di “Teoria politica” presso l’Università di Princeton - il
brano appena trascritto. È di un grande italiano, quel Niccolò Machiavelli dai
più ignorato e negletto. Corrono oggigiorno ben altri tempi ed umori. Il
pensiero del grande italiano è contenuto nel volume di recentissima
pubblicazione “Scegliere il principe”
– Laterza editori (2013) pagg. 100 € 9,00 -. L’ho letto tutto d’un fiato poiché
il sottotitolo, intrigante assai, recita: “I consigli di Machiavelli al cittadino
elettore”. Come suol dirsi, cade proprio a fagiuolo – il 24 e 25 di
febbraio - o, come secondo altri, il cacio sui maccheroni, ché sembra molto più
ridanciano e ben si accorda con un certo spirito godereccio assai degli indigeni
del luogo. Ed in quella quarta di copertina ho trovato le risposte che cercavo.
È che avevo letto e condiviso l’ultimo editoriale di Roberto Saviano – la
Repubblica del 18 di gennaio, “Se
Berlusconi restasse senza platea” -. Scrive Saviano. (…). Quando Berlusconi va in tv
sa esattamente cosa fare: la verità è l'ultimo dei suoi problemi, il giudizio
sui suoi governi, il disastro economico, le leggi ad personam, i fatti -
insomma - possono essere tranquillamente aggirati anche
grazie all'inconsapevolezza dei suoi interlocutori. Il Cavaliere mette su
sipari, sceneggiate, battutine. È smaliziato, non ha paura di dire fesserie,
non ha paura di essere insultato, di cadere in luoghi comuni, di ripetere
storielle false sulle quali è già stato smascherato. Occupa la scena. E c'è chi
cade nel tranello: questo trucco da prim'attore, incredibilmente, ancora una
volta crea una sorta di strana empatia, di immedesimazione. C'è chi dice: sarà
anche un buffone, ma meglio lui dei sedicenti buoni. (…). Fermo a
questo punto la lunga citazione. È che leggendo poi un commento alla pagina
otto – a firma c.t. - su di un quotidiano del 19 di gennaio – a cadavere ancora
caldo -, che acquisto regolarmente e leggo con la dovuta attenzione, mi sono
sentito spiazzato, fuori di posto. È vero che continuo a frequentare quel
quotidiano per una anacronistica, forse, “adesione pseudo-ideologica”, anacronistica
dati i tempi correnti, essendosi spente e smarrite le idee e le ideologie
secondo la vulgata corrente, ma il commento di quel quotidiano mi ha riportato
alla mente i cosiddetti “trinariciuti” di guareschiana
memoria, adusi, come si soleva dire allora con disprezzo di quelli dell’altra
sponda politica, ad un'obbedienza pronta, cieca, assoluta, e con una terza
narice atta ad espellere il cervello. Attività che ancora oggi la moltitudine, indipendentemente
dagli schieramenti d’opinione, continua a fare nel bel paese. È che si continua
ad aiutare ed incoraggiare, quella moltitudine intendo dire, nell’insana
pratica. Si ha un bel dire che quel discorso di Saviano non sia politicamente
corretto, accettabile. È che, essendo intimamente convinto di appartenete ad un
certo schieramento politico, sempre più post-ideologico, quel tosto commento mi
ha dato la cifra di ciò che lo smarrimento di una certa idea della politica e
della cittadinanza ha determinato nel bel paese. Tempo addietro avevo proposto
nei titoli di testa (che Vi invito a non tralasciare di leggere con attenzione)
di questo blog una citazione che ripropongo e
che ben si accorda con il pensiero di Saviano: «La superiore qualità del suo
genio consiste in un fondo inesauribile di menzogne politiche che dissemina
copiosamente ogni qualvolta apre bocca e che, con generosità senza precedenti,
dimentica nella mezz'ora che segue, contraddicendosi. Costui non s'è mai
chiesto se un'affermazione fosse vera o falsa ma solo se fosse opportuno
affermarla o negarla a seconda della circostanza e del suo interlocutore; se
pensate quindi di ragionare sulle sue asserzioni cercando di interpretarle,
giacché vi pare vero il contrario, dovrete riflettere a lungo e ne uscirete
sconfitti; che gli crediate o no l'unico rimedio è supporre di aver udito suoni
inarticolati e privi di significato. Questo vi risparmierà lo sdegno dinanzi ai
giuramenti sacri che inserisce all'inizio e alla fine di ogni sua
proposizione». Lo scriveva quel fantasioso di Jonathan Swift – quello
de’ “I viaggi di Gulliver” - nella
Sua “L'arte della menzogna politica”,
nell’anno del signore 1712. Sì, si era nell’anno 1712. Non esistevano i media
come oggigiorno sono conosciuti. Ma il “bugiardo” esisteva eccome anche in
quel tempo andato. E perdura spudoratamente oggigiorno. Senza possibilità
alcuna di zittirlo, il bugiardo intendo dire, poiché politicamente scorretto a
detta di certi “trinariciuti” di turno od anche solamente perché esso, il “bugiardo”,
è mezzo e strumento utile per un successo mediatico d’ascolto e di passiva
partecipazione, nel tinello della propria casa, alla vita politica del bel
paese. Continua Roberto Saviano nel Suo pezzo: Più Berlusconi va in tv, più
dileggia chi gli sta di fronte, più piace. Perché sa disinnescare chi lo
intervista. Non ha paura, anzi sembra divertito dalla paura degli altri. Sente
l'odore del sangue dei suoi avversari e attacca. In una competizione in genere
vince chi non ha nulla da perdere e lui, screditato sul piano nazionale,
internazionale, politico e personale; con processi pendenti che riguardano le
sue aziende e le sue abitudini privatissime; con l'impero economico che cola a
picco, è l'unico vero soggetto che da questa situazione non ha nulla da perdere
e tutto da guadagnare. E se la sta giocando fino in fondo. Appunto, giocando. È
divertito, esaltato. Poiché il tristo personaggio sa bene d’avere creato
nel tempo le condizioni giuste per un obnubilamento delle menti e delle
coscienze. Perché allora non approfittarne? Ha messo al mondo e coccolato una
generazione e più di teledipendenti che succhiano le bugie mediatiche come
zuccherose caramelle, delle quali non hanno la forza di privarsene, tanta
profonda ne è divenuta la dipendenza. Senza scomodare la fisiognomica, o la
prossemica, una moltitudine che concorre a formare il cosiddetto “corpo elettorale” ha condotto una
fanciullezza, una adolescenza, una pubertà, ed oggigiorno una vaporosa
maturità, intrattenendosi non ad ascoltare o a leggere fiabe e racconti, e
successivamente libri d’avventura e quotidiani, l’esercizio della qual cosa
avrebbe determinato sviluppi adeguati nelle circonvoluzioni cerebrali, ma
abbeverandosi solamente al piccolo mostro che domina incontrastato in tutte le
abitazioni del bel paese. E stanno lì i “trinariciuti” ad affermare come il
piccolo mostro non influenzi granché gli avvenimenti della politica nel bel
paese. Possibile mai che abbiano ragione? È il Machiavelli a stabilire,
incontrovertibilmente, il paradigma tuttora esistente e resistente nel bel
paese, paradigma che viene da quel lontano quindicesimo secolo. Scrive Saviano a
conclusione del Suo pezzo, ché tanto ha fatto inorridire mandando in bestia i “trinariciuti”:
Trattiamolo
(…) per quello che è: un bambino di settantasei anni. Quando i bambini
esagerano con le parolacce, con i capricci, i genitori li ignorano, fingono di
non aver sentito. È l'unico modo perché il bambino perda il gusto della
provocazione. La stessa cosa dovremmo fare con lui: farlo parlare, ma senza
prestargli attenzione. Evitiamo i sorrisi alle sue battute stantie, perché non
possa più ostentare sicurezza davanti ai suoi, perché non possa più spacciare
la falsa tesi secondo cui i politici sono tutti uguali. (…). Siamo noi che
dobbiamo smetterla di giocare con lui. Lasciamolo senza platea. Cosa
che puntualmente faccio da lunghissimo tempo e che non ho mancato di fare in
questo ultimo 10 di gennaio non volendo concorrere all’alta quota di “share”
di una certa vaniloquente – da “vanus” cum “loquentia” - trasmissione.
Per non concorrere a fare “ascolto” di bugie. E così oggi mi
sono determinato a non citare il quotidiano in questione. Per non creare “platea”.
È per tale motivo che, per non incorrere in errore, continuo a postare le “sesquipedali
bugie” di un tale. Cliccate per non perderVi il “video”.
giovedì 17 gennaio 2013
Eventi. 4 Leggere “La Kippà di Esculapio”.
“Ho comprato da tempo una schiava
musulmana, in buona fede e secondo leggi, l’ho pagata al giusto prezzo e l’ho
tenuta pacificamente, senz’alcun problema o contestazione, fino a quando ho
saputo – poco fa – che s’è fatta cristiana, ricevendo il battesimo. Chiedo
dunque che la schiava sia venduta ad un cristiano, secondo le consuetudini e le
leggi, e di poterne incassare il prezzo”. È il “medico fisico” da Licata
Prospero Muczimecu – “medico d’urina”, forse, ch’era cosa
ben distinta dal “medico di piaga”, ché sarebbe poi il chirurgo d’oggigiorno - che
il 30 di giugno dell’anno del signore 1492 – “annus horribilis” secondo
molti (il 31 di marzo, Ferdinando II d'Aragona ed Isabella di Castiglia firmano
il decreto che espelle tutti gli Ebrei dalla Spagna, eccezion fatta per coloro
che accettino la conversione al cattolicesimo; il 31 di luglio, gli ebrei sono
espulsi dalla Spagna; il 3 di agosto Cristoforo Colombo salpa da Palos (Spagna)
alla volta dell'America, senza però saperlo, credendo infatti di andare verso
le Indie; il 12 di ottobre, Cristoforo Colombo scopre l'isola di San Salvador e
le Americhe e con questo evento si segna l’inizio dell'Età moderna e si
inaugura anche quell’”età dell’oro” segnata dalle
conquiste da parte del mondo cristianizzato con la spoliazione e lo sterminio
delle popolazioni di quel continente; il 28 di ottobre, Cristoforo Colombo
scopre Cuba; il 7 di novembre un meteorite di 120 kg si schianta in
Alsazia (pochi danni, peccato!); ed il 31 di dicembre, grazie a dio finisce l’”annus
horribilis”, circa 100.000 Ebrei sono espulsi dalla Sicilia - presi,
come si diceva poc’anzi, carta penna e calamaio poneva l’incresciosa sua
vicenda alla graziosa attenzione del viceré d’Acuna che ben ispirato disponeva
che la schiava, già musulmana ma cristianizzata, “sia venduta a un cristiano
abbiente e dabbene, di Licata aut de fora, al miglior prezzo che si possa
ottenere, e che il ricavato sia subito depositato in un banco sicuro.
Successivamente, esaminata la posizione del medico nei confronti del fisco,
siano trattenute le somme da lui eventualmente dovute a qualsiasi titolo ed
infine gli sia versato quanto di suo diritto”. Avevo incontrato il “medico
d’urina” Prospero Muczimecu leggendo, qualche tempo addietro, l’interessante
ed agilissimo volume “Il tempio perduto”
– Anicia editore (2011) pagg. 95 € 13,00 - del professor Giuseppe Sicari. E ne
ho rinvenuto traccia e memoria nella nuova fatica letteraria dell’esimio Autore
– “La
Kippà di Esculapio” Pungitopo editore (2012) pagg. 106 € 10,00 -. Scrive
Giuseppe Sicari: L’inopinata scoperta dell’esistenza di Joshua ben Isaac Joel che a
Licata, nel 1484, copia per proprio uso un famoso testo scientifico (il
manoscritto è ora conservato presso la Staatsbibliothek di Berlino), ha
riacceso il mio interesse sui medici ebrei siciliani del Basso Medioevo, un
argomento forse non abbastanza studiato. Joel, sia detto incidentalmente, è
anche il quarto dottore ebreo attivo a Licata nella seconda metà del
Quattrocento (oltre ai tre già noti: Prospero Muczimecu, Farachi de Anello e
Gabriele di La Medica). La stessa curiosità dell’Autore, ma come
lettore delle Sue interessantissime “cose” scritte, che ho provato io nel
ricevere la copia de’ “La Kippà di
Esculapio” che il professor Sicari mi ha fatto cortesemente pervenire,
confortandomi del privilegio della Sua amicizia, dopo averne letto,
nell’ordine, “Il Santo marrano” ed
il citato “Il tempio perduto”. È
che, discorrendone con l’Autore, sono venuto a conoscenza della genesi di
quest’ultima Sua fatica letteraria editata. Mi confidava come il contenuto de’ “La Kippà di Esculapio” non fosse altro
che il frutto delle Sue ricerche storiche a tutto campo sull’argomento,
ricerche che avrebbero dovuto corredare, a mo’ di note, un lavoro ben più
ponderoso – mi ha accennato alla storia romanzesca di un medico ebreo, in quel
lontano tempo nella Sicilia dominata, che ne percorre i luoghi per trovarne uno
da eleggere a sede della sua attività medica – lavoro che è da augurarsi possa
al più presto essere dato alle stampe. Ma, tornando a parlare de’ “La Kippà di Esculapio”, che si legge
in un soffio tanto è capace di stimolare curiosità e bisogno di conoscenza
storica, di una Storia che ci è prossima ma ignorata, debbo dire me ne sono
venute fuori delle notizie che rendono l’attesa, per l’annunciata pubblicazione
della nuova fatica editoriale del professor Sicari, un tantino più spasmodica;
in fondo è quella specie di “catarsi” - “katharsis”, dall’antico greco “κἁθαρσις” – creata dalla lettura,
intesa come uno stato di "purificazione" che il
leggere – ed il leggere le “cose” interessanti e di valore per
come è per l’appunto “La Kippà di
Esculapio” – possono indurre creando quasi come una sospensione dal
tempo e dai luoghi. E così ci si immerge in insperate, inimmaginabili realtà –
laddove si pensi alla Sicilia dei secoli quattordicesimo e quindicesimo – che
smantellano d’un sol colpo quelle erronee, artificiose costruzioni del costume
di un popolo, divenute nel tempo profondissime convinzioni, stante la non
conoscenza dei fatti della Storia, che concorre a fare cementare la credulità
dei più. Leggo alla pagina 73 de’ “La
Kippà di Esculapio”: Virdimura De Medico, da Catania.”Virdimura”:
chi era costui? Legittima domanda.
Sorprendente la risposta che ne fornisce l’Autore: “Giudea, moglie di Pascalis de
Medico”, il 7 novembre 1376 è “diligenter” esaminata dai medici di casa reale e
abilitata all’esercizio della professione medica in tutto il regno. La
candidata giunge all’esame accompagnata da una “lodabile” fama. Il documento di
approvazione ricorda, inoltre, che Virdimura ha chiesto di poter esercitare in
particolare in favore dei poveri che hanno difficoltà a pagare gli atti onorari
chiesti dai medici (…). Un’ebrea e per giunta medico (preferibilmente
dei poveri) nella Sicilia del quattordicesimo secolo. Ed oltre leggo ne’ “La Kippà di Esculapio” – alla pagina
76 -: …il 6 settembre 1414, la regina Bianca interviene in suo favore,
ordinando agli ufficiali di Mineo che “donna Bella” possa esercitare l’arte
chirurgica in tutte le terre di pertinenza della Camera reginale. Infatti,
“dopo veridica e competente relazione”, era stato comprovato avere essa
praticato quell’arte “cum sanitati di li pacienti”. Dispone, inoltre, la regina
che la magistra sia libera ed esente da “omni angaria, perangaria, collecti,
imposizioni, guardia, pusati et qualsivoglianu angarii”. “Donna Bella” era
al secolo Bella De Paija, da Mineo. Donna, ebrea e medico. Nella Sicilia del
secolo quindicesimo. Una buona lettura da non perdere.
sabato 12 gennaio 2013
Cosecosì. 38 Del potere dei partiti sfiduciati.
Scrive Michele Serra – la
Repubblica, nell’Amaca del 9 di gennaio -: L’indissolubile comparaggio tra Lega e
Berlusconi deve avere radici ben solide se riesce a resistere ad ogni sussulto
e ogni separazione. Queste radici sono riassumibili nel fastidio invincibile
che una parte rilevante della piccola borghesia italiana ha per lo Stato, le
tasse, le regole, la Costituzione, l’antifascismo, insomma per la Repubblica
così come è nata, si è formata e bene o male ha percorso quasi settant’anni di
vita nazionale, in evidente scollamento con una parte non piccola di italiani
che non si sente repubblicana e in casi estremi (il secessionismo) neanche
italiana. Il risultato elettorale dell’ennesimo remake forzaleghista (…) ci
dirà a che punto è l’implacabile lotta di quel pezzo di Italia contro l’Italia.
Dubito che le ruberie nelle istituzioni, la triste avidità del clan Bossi, le
crapule di Arcore, tanto meno gli episodi di razzismo che (da anni) fioriscono
in quel campo siano determinanti per quell’elettorato. Che non ha mai brillato
per scrupolo etico. (…). È l’amarissima verità che non sfugge
all’occhio attento e critico di Michele Serra. E che non dovrebbe sfuggire ai
più che posseggano un minimo di “cittadinanza” consapevole e vigile.
Nasce da quel “fastidio invincibile” della grassa borghesia tutto il male che
ha percorso e corrotto la vita pubblica e politica del bel paese. E che ha
consentito l’affermarsi dell’antipolitica al potere che ha scacciato la
politica buona, il ritorno della quale oggigiorno si invoca inutilmente. Una
pratica micidiale che ha svuotato dal di dentro la funzione propria delle
istituzione e dei partiti per come essi la svolgono in tutte le altre democrazie
mature. Prescrive la Carta Costituzionale – all’articolo 49 – che “tutti
i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere
con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Non
avviene più. Svuotati essi di quella prerogativa loro assegnata dalla Carta li
si è visti rinchiudersi nel guscio angusto del loro precario esistere senza che
la loro azione di formazione e di orientamento potesse convenientemente
espandersi all’esterno sul resto della società. È un bel dire che le ultime
primarie delle forze politiche della sinistra del bel paese rappresentino una
riconquistata voglia del corpo elettorale per la politica buona che tornerebbe
a primeggiare scacciando la mala pianta dell’antipolitica che è al potere. È un
grossolano abbaglio. 3 milioni di cittadini che abbiano fatto la fila per le
primarie quanto rappresentano rispetto al corpo elettorale – inteso come
l’insieme di tutti i cittadini che abbiano diritto di voto - che sarà chiamato
alle urne il 24 di febbraio? Una piccola parte. Significativa ma pur sempre
piccola. Ma è quella piccola parte che con ostinazione si oppone al grosso “che
non ha mai brillato per scrupolo etico”. Di quella gente volenterosa ne
ho ritrovato commovente memoria nella bellissima prova cinematografica
dell’esordiente Susanna Nicchiarelli nel Suo “Cosmonauta”, film di memoria e di formazione. Scrive Ilvo Diamanti
– la Repubblica del 9 di gennaio, “Perchè
non possiamo fare a meno dei partiti” -: Ormai l’antipolitica è dovunque.
È entrata nel linguaggio corrente della vita quotidiana e nel discorso
“politico”. Un argomento usato dai leader politici a fini polemici. Tuttavia,
il bersaglio dell’antipolitica non è la “politica” in quanto tale. Coincide,
piuttosto, con i partiti. È inutile fare della logomachia. È inutile
farne un problema semantico. L’utilizzo del termine – “antipolitica” – andrebbe
corretto nel senso di designare l’azione delittuosa e nefasta di quanti,
chiamati a condurre la cosa pubblica, investiti quindi di pubbliche
responsabilità, ne abbiano fatto un utilizzo personale o di gruppo che sia
andato di fatto contro il cosiddetto “bene comune”. È tempo di uscire
dagli equivoci e dire “pane al pane e vino al vino”. Ecco
perché da tempo mi ostino ad affermare che l’antipolitica è di già al potere,
poiché è essa ad avere scalzato la buona politica del “bene comune”. Continua a
scrivere Ilvo Diamanti: Che, in Italia, godono — si fa per dire — di
pessima reputazione. Peraltro, è largamente condivisa la convinzione che la
“malapolitica” condotta dai partiti costituisca un “male” tipicamente italiano,
che si è propagato con particolare intensità negli ultimi anni. (…). Oggi più
che mai delegittimati, sfiduciati dai cittadini. Eppure, oggi più che mai,
dotati di potere e di influenza, in ambito istituzionale, ma anche nel mondo sociale,
nella vita quotidiana. (…). Attori essi, i partiti in prima persona,
dell’antipolitica al potere. Ed oltre, in una visione del problema che
l’illustre Autore allarga oltre l’orizzonte dei giorni nostri: La
sfiducia verso i partiti non è un fatto recente, non riguarda il nostro tempo.
E non è una specialità italiana. Dal punto di vista storico i partiti non hanno
mai goduto di buona stampa. «La colpa», (…), «è nel nome». Perché il partito
deriva dal latino "partire". E, per questo, evoca la parzialità. Per
questo sono distinti dalle “fazioni”. Ma spesso ritenuti equivalenti e
altrettanto faziosi. Così, secondo Hobbes, i partiti diventano «uno Stato nello
Stato». E per questo «è dovere dei governanti disperderli». I partiti, cioè,
vengono considerati veicoli di interessi particolari, in contrasto con
l’interesse “generale”, con il “bene comune”. Ma sono molti altri i critici
autorevoli dei partiti. (…). …fra gli altri, Alexis de Tocqueville, il quale
ammette che «i partiti sono un male inerente ai governi liberi». Dunque, un
male inevitabile, ma comunque, un male. Bisogna attendere il passaggio tra Otto
e Novecento per assistere al cambiamento del clima d’opinione verso i partiti.
E di riflesso al cambiamento del loro rapporto con la società. I partiti conoscono
un’età dell’oro durante la prima metà del secolo trascorso. Quando si affermano
i partiti di massa. Socialisti, comunisti, popolari. Rappresentano e mobilitano
le masse, appunto. Stabiliscono un legame di identificazione e di identità con
i loro elettori. Anche perché sono presenti sul territorio nella società.
Inoltre, sono partiti di iscritti, dotati di un’ampia rete di volontari, ma
anche di funzionari. Per garantire continuità ed efficacia alla loro azione.
Per questo, dispongono di consenso sociale, ma al tempo stesso, si
professionalizzano sempre più. Ed avviene così il passaggio che Ilvo
Diamanti magistralmente analizza: E si evolvono in senso oligarchico. Per
adattarsi alla complessità sociale diventano “pigliatutti”. Partiti elettorali,
che non hanno più un target specifico e definito. Ma si rivolgono, appunto, a
tutti gli elettori. Per questo, perdono le loro specificità ideologiche. «Degli
iscritti, così come delle sezioni territoriali», (…), «non c’è più bisogno». I
partiti, quindi si rifugiano nelle istituzioni e sui media. Diventano, cioè,
partiti di cartello. «Agenzie pubbliche regolamentate e ufficializzate che – (…)
- dallo Stato traggono le loro risorse legalmente con il finanziamento pubblico
e in maniera opaca attraverso il patronage». Investono, cioè, nel controllo
clientelare dell’opinione pubblica. Per questo, (…), «i partiti sono oggi in
Europa molto più forti di un tempo». In Europa, si badi bene. Perché queste
tendenze non riguardano solo l’Italia. Ma coinvolgono tutti i principali paesi
europei. Dalla Francia alla Germania. Dal Belgio all’Austria. Per non parlare
delle nuove democrazie. Il partito è, dunque, divenuto “stato-centrico”. Ma si
è indebolito sul territorio e nella società. Per questo la stima nei loro
confronti è precipitata. Ciò li ha spinti a correre ai ripari. Allargando il
richiamo alla volontà popolare, il ritorno agli iscritti. E agli elettori. In
modo diretto. Attraverso le primarie. Ma anche, in alcuni casi, attraverso lo
scambio diretto tra leader e popolo. In modo carismatico e populista. Da ciò il
problema di questa fase. Perché, (…), «non c’è scampo: senza i partiti non c’è
democrazia. Se vogliamo un sistema democratico e pluralista dobbiamo tenerci
dei partiti». Ma «questi » partiti, «hanno scambiato il potere con la fiducia».
Per reagire, (…), i partiti dovrebbero «spossessarsi di tante delle risorse
accumulate». Una condizione necessaria ma non sufficiente. E, purtroppo,
difficile da realizzare, con “questi” partiti. (…). Perché in fondo al tunnel,
oltre il paradosso che produce forza senza legittimità, non si vede la luce. Ho
dimenticato di specificare che, nel virgolettato, Ilvo Diamanti ha riportato
citazioni tratte dall’ultimo lavoro di Pietro Ignazi che ha per titolo “Forza senza legittimità” – Laterza
editore, pagg. 153, € 14 -. Ovvero, dire del potere dei partiti sfiduciati.
mercoledì 9 gennaio 2013
Cronachebarbare. 3 La latitanza (ben gradita) dell’(anti)politica.
È tutto un accapigliarsi nel “teatrino”
– per dirla con le parole tanto care all’egoarca di Arcore – della politica del
bel paese. Tutti a disconoscere la paternità dell’IMU. È tua. No, è tua.
Nessuno ad aver sottoscritto i trattati fiscali dell’Europa della moneta. Sei
stato tu! No, li hai sottoscritti tu! E di questo passo sbugiardandosi a
vicenda e facendo scadere le istituzioni ad un caravanserraglio. Il dovere
primo di dire la verità ai cittadini non passa per la mente agli strateghi
della politica. Ha scritto un magistrale pezzo Barbara Spinelli il 3 di ottobre
– la Repubblica “La latitanza dei
partiti” - prima che non si verificasse l’ingenua profezia dei Maya.
Scriveva Barbara Spinelli: (…). L’epoca che viviamo è per molti versi
postcostituzionale (…), e son simili epoche, secondo il filosofo Leo Strauss,
che secernono fatalmente il cesarismo. (…). Il problema è che pochi (…)
ricordano che candidarsi e parlare di programmi e alleati è dovuto, in
democrazia. Qui è il pericolo, ma anche il fascino, che il cesarismo
postpolitico pare esercitare. È una delle singolarità italiane su cui vale la
pena riflettere. In Grecia, in Spagna, cittadini indignati denunciano con
impeto quello che vivono come diktat non tanto esterno, quanto inconfutabile.
In Italia le proteste si frammentano, i sindacati gridano, ma le piazze non si
riempiono. Non è una sciagura, ma è una passività colma d’ira che ha qualcosa
di malato ed è un’anomalia, nella cosiddetta periferia d’Europa. Sembra
confermare quello che Luciano Canfora considerava, nel 2010, la questione
cruciale dei nostri tempi: i governi europei hanno scelto la strada
dell’abdicazione, per quanto attiene a poteri decisionali fondamentali, in
favore degli “esperti”. Ma accade, nella “singolarità” del bel
paese, che i cosiddetti “tecnici” s’ingegnino a scimmiottare
il parlare vacuo dei politicanti dell’antipolitica al potere. È la scena
stucchevole ed a tratti disgustosa che si ha in questi giorni d’avvio della
campagna elettorale. Nel bla bla bla generale non una parola che sia spesa per
dire ai cittadini tutta la verità, nient’altro che la verità. La verità ti fa
male, si cantava un tempo. Ed allora necessita sfuggire a quell’unitile bla
bala bla per poter afferrare briciole di una verità altrimenti negata. Ed una
verità, suffragata dalle Sue conoscenze, ce la offre Luciano Gallino – “Il baratro fiscale dell’Agenda Monti”
su la Repubblica dell’8 di gennaio – laddove scrive: (…). L’art. 4 (del
trattato europeo in materia fiscale n.d.r.) prescrive: “Quando il rapporto tra il
debito pubblico e il prodotto interno lordo di una parte contraente supera il
valore… del 60%... tale parte contraente opera una riduzione a un ritmo medio
di un ventesimo all’anno”. Il Trattato è già in vigore, ma in base a un
precedente regolamento del Consiglio, l’inizio della riduzione del debito verso
la meta del 60 per cento dovrebbe aver luogo solo dal 2015. (…). Ridurre
davvero il nostro debito pubblico nella misura e nei tempi richiesti dal
Trattato in questione è un’operazione che così come si presenta oggi ha
soltanto due sbocchi: una generazione o due di miseria per l’intero Paese;
aspri conflitti sociali; discesa definitiva della nostra economia in serie D.
Oppure la constatazione che il debito ha raggiunto un livello tale da essere
semplicemente impagabile, per la ragione che esso deriva sin dagli anni ‘60 non
da un eccesso di spesa, bensì dalla accumulazione di interessi troppo alti.
(…). Al fine di ripagare un debito a
lunga scadenza in rate annuali è infatti essenziale una condizione: che il
debitore, al netto di quanto spende per il proprio sostentamento, abbia ogni
anno delle entrate, per tutta la durata prevista, che siano almeno pari in
media a quella di ciascuna rata del debito. Nel caso del debito pubblico
italiano tale condizione base non esiste. Il Pil supera i 1650 miliardi, per
cui il 60 per cento di esso ne vale circa 1000. Mentre il debito accumulato ha
superato i 2000. Al fine di farlo scendere al 60 per cento del Pil come
prescrive il Trattato, si dovrebbe quindi ridurre il debito di 50 miliardi
l’anno per un ventennio. La cifra è di per sé paurosa, tale da immiserire tre
quarti della popolazione. Ma il problema non è solo questo. È che l’interesse
sul debito, al tasso medio del 4 per cento, comporta una spesa di 80 miliardi
l’anno, la quale si somma ogni anno al debito pregresso. Ne segue che
quest’ultimo non smette di crescere. Ora, se riduco il debito di 50 miliardi,
avrò sì risparmiato 2 miliardi di interessi; però sui restanti 1950 miliardi
dovrò pur sempre pagarne 78. Risultato: il debito è salito a 2028 miliardi
(2000-50+78). L’anno dopo taglio il debito di altri 50 miliardi e gli interessi
di 2. Però devo pagarne 76, per cui il debito risulterà salito a 2054. Chi
vuole può continuare. Magari inserendo nel calcoletto un dettaglio: l’art. 4
del Trattato prescinde del fatto che il debito di un paese potrebbe col tempo
aumentare di molto, per cui l’entità del ventesimo di rientro andrebbe alle
stelle. L’Italia, per dire, potrebbe ritrovarsi a fine 2015 con un Pil di poco
superiore all’attuale, ma con un debito che a causa dell’accumulo degli
interessi ha raggiunto i 2200 miliardi. Così i miliardi annui da tagliare
passerebbero da 50 a
60. (…). E fin qui Luciano Gallino. Orbene, di tutto ciò cosa ne
perviene al cittadino-elettore? Il nulla. Gabbato, ancora una volta. Poiché la
tenzone elettorale si ridurrebbe a scegliere e premiare quei partiti che
indicassero come evitare quel baratro non succhiando il sangue sempre ai soliti
“fessi”.
Nulla invece di tutto ciò. Ed ora che la politica si svolge tra i personalismi
più sfrenati, è ingenuità sperare in una virata che rimetta al centro quei
stramaledetti problemi. Conviene tornare al pezzo di Barbara Spinelli per decifrare
il tempo che ci è dato da vivere. Scrive infatti: Seguendo alla lettera Tietmeyer (già
governatore della Bundesbank n.d.r.), (i politici-tecnici, nuova specie
zoologica della politica del bel paese n.d.r.) prediligono di fatto il
permanente plebiscito dei mercati (…). Ma i primi responsabili del male non
sono i mercati. Essi constatano il vuoto di politica, e lo riempiono con loro
ansie, esigenze. Responsabili della diserzione sono i partiti, i politici che
antepongono la sete di potere alla competenza. E responsabile è il popolo
italiano, che a questo andazzo ventennale s’è assuefatto se non affezionato.
L’abdicazione dei partiti è ricorrente, palese. Se davvero volessero governare,
se non fossero anch’essi attratti dalla passività, riconoscerebbero che i
poteri dei mercati tendono a espandersi naturalmente (vale anche per i mercati
quel che dice Montesquieu: “Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli
arriva sin dove non trova limiti. Perché non si possa abusare del potere
occorre che il potere arresti il potere”. Solo il politico può frenare l’abuso,
correggere la vista corta di chi giudica solo il minuto, e contrapporre un
potere legittimato democraticamente che duri un po’ più a lungo di una seduta
di borsa). Ma i partiti vogliono veramente governare? Vogliono essere
protagonisti, o preferiscono assegnare il compito a esperti e tecnici, pur di
evitare il difficile o l’impopolare? Tutto fa pensare che un potere così
rischioso non lo desiderino, né a destra né a sinistra. Se davvero ambissero a
governare, e non solo a espugnare un ben remunerato spazietto, predisporrebbero
alleanze durature. (…). Ogni partito ha lo sguardo fisso su sé stesso, pur
sapendo perfettamente che da soli si naufraga. (…). Anche il popolo elettore
tuttavia ha le sue responsabilità. Non dai tempi di Berlusconi, più volte
rieletto, ma da molto prima, nutre sfiducia nella politica, nei propri
rappresentanti, nello Stato. (…). A tal punto inaffidabili si sono rivelati i
partiti e la politica italiana, inviluppata non nel mistero soltanto ma nella
corruzione. (…). In Italia (…), tutte le istituzioni vacillano, e nell’inerzia
si continua a implorare un Cesare postcostituzionale. È così da quando è finita
la prima Repubblica. La seconda non è mai cominciata. Tutti questi anni sono passati
nell’inane, fallito tentativo di uscire dalla prima. Sta tutta qui
l’italica “singolarità”. Bene a sapersi; cosa resta allora da sperare? Torna
comodo all’antipolitica al potere latitare sui veri, assillanti problemi del
bel paese. Tutto il resto sono le chiacchiere dei latitanti al potere.
lunedì 7 gennaio 2013
Cronachebarbare. 2 Il grande deserto dei diritti.
Cronache barbare. Poiché i
barbari sono stati tra di noi. Anzi, ci sono ancora. Defilati. Rinchiusi nei
loro sotterranei. Ma pronti ad un nuovo attacco al bene comune. Che è divenuto
il loro bene proprietario. Da quando i barbari hanno attraversato il deserto,
di soppiatto. E di soppiatto sono penetrati nella cittadella turrita ed
indifesa della Costituzione. Non c’è stato nessun “tenente Drogo” a dare
l’allarme. Tutti girati a scrutare altrove dall’alto di quelle mura, come una
novella della “fortezza Bastiani”. Intanto i barbari, assalite le mura,
espugnavano l’indifesa novella “fortezza Bastiani”. Nessun “tenente
Drogo” a dare l’allarme. Nessuno. L’antipolitica al potere rafforzava
così le sue posizioni. Ed anche le sue ricchezze. Con azioni fraudolente.
Autorizzate da procedure e leggi approvate da tutti. Da tutti. E nessun “tenente
Drogo” a dare l’allarme. Oggi si scopre come d’incanto la “questione
sociale”. Ma i barbari sono di già all’interno delle mura sbrecciate
della cittadella della Costituzione. Difficile allontanarli spegnendone i
bivacchi che hanno acceso a difesa delle loro conquiste. Scrive Michele Serra
nella Sua rubrica quotidiana “L’amaca” – la Repubblica del 3 di gennaio
dell’anno 2013 -: La quasi totale rimozione della questione sociale è stato il tratto
politico più forte, e più sconvolgente, degli ultimi anni. Soprattutto in
Italia, dove questa rimozione ha indossato la maschera tragicomica del
berlusconismo, poveri o semipoveri che venerano il più ricco, come se le sue
promesse bugiarde fossero l’oppio indispensabile per dimenticare per sempre di
essere svantaggiati, subalterni, umiliati. (…). I manipoli dei barbari
dell’antipolitica, compatti, hanno lasciato che l’occultamento di una “questione
sociale” venisse a prendere il posto nell’agenda della politica del bel
paese. Ciò è avvenuto. A dispetto degli inequivocabili segnali che la “crisi”
ha disseminato negli anni. Continua Michele Serra: Sostenere – (…) – che il compito
prioritario della politica è combattere la povertà non solo non è una banalità;
è, nei fatti, una rarità (giornalistica così come politica). Ma nello
sgretolarsi del welfare, nella contrazione paurosa del lavoro, quale altro
obiettivo può essere più importante, e al tempo stesso più innovativo,
dell’organizzazione di un argine sociale alla miseria e alla solitudine? “Una
nuova società più conviviale nella quale ritrovare il modo di aiutarci”, (…).
Mi sembra, con buona approssimazione, l’eccellente sintesi del programma elettorale
di qualunque sinistra. La “banalità” dell’essere della
politica è stata smarrita. Ad essa si è sostituita l’arroganza
dell’antipolitica che, conquistato il potere scacciando la buona politica, ha
ignorato qualsivoglia istanza di giustizia e di equità. I barbari sono tra di
noi. E le cronache non possono che essere “cronache barbare”. Nessun “tenente
Drogo” a dare l’allarme nel tempo giusto. Poiché i manipoli dei barbari
hanno osato ancor di più. Hanno inciso in profondità nella viva carne del tessuto
sociale del bel paese. Hanno creato un “deserto dei diritti” per come ne ha
scritto lucidamente Stefano Rodotà - la Repubblica del 3 di gennaio 2013 “Il grande deserto dei diritti” -: (…).
…bilanci e previsioni, in questo momento, mostrano un’Italia che ha perduto il
filo dei diritti e, qui come altrove, è caduta prigioniera di una profonda
regressione culturale e politica. (…). Abbiamo assistito ad una serie di
attentati alle libertà, testimoniati da leggi sciagurate come quelle sulla
procreazione assistita, sull’immigrazione, sul proibizionismo in materia di
droghe, e dal rifiuto di innovazioni modeste in materia di diritto di famiglia,
di contrasto all’omofobia. La tutela dei diritti si è spostata fuori del campo
della politica, ha trovato i suoi protagonisti nelle corti italiane e
internazionali, che hanno smantellato le parti più odiose di quelle leggi
grazie al riferimento alla Costituzione, che ha così confermato la sua
vitalità, e a norme europee di cui troppo spesso si sottovaluta l’importanza. (…).
Nel 1970 vengono approvate le leggi sull’ordinamento regionale, sul referendum,
il divorzio, lo statuto dei lavoratori, sulla carcerazione preventiva. In un
solo anno si realizza così una profonda innovazione istituzionale, sociale,
culturale. E negli anni successivi verranno le leggi sul diritto del difensore
di assistere all’interrogatorio dell’imputato e sulla concessione della libertà
provvisoria, sulla delega per il nuovo codice di procedura penale,
sull’ordinamento penitenziario; sul nuovo processo del lavoro, sui diritti
delle lavoratrici madri, sulla parità tra donne e uomini nei luoghi di lavoro;
sulla segretezza e la libertà delle comunicazioni; sulla riforma del diritto di
famiglia e la fissazione a 18 anni della maggiore età; sulla disciplina dei
suoli; sulla chiusura dei manicomi, l’interruzione della gravidanza,
l’istituzione del servizio sanitario nazionale. La rivoluzione dei diritti
attraversa tutti gli anni ’70, e ci consegna un’Italia più civile. Non fu un
miracolo, e tutto questo avvenne in un tempo in cui il percorso parlamentare
delle leggi era ancor più accidentato di oggi. Ma la politica era forte e
consapevole, attenta alla società e alla cultura, e dunque capace di non levare
steccati, di sfuggire ai fondamentalismi. Esattamente l’opposto di quel che è
avvenuto nell’ultimo ventennio, dove un bipolarismo sciagurato ha trasformato
l’avversario in nemico, ha negato il negoziato come sale della democrazia, si è
arresa ai fondamentalismi. È stata così costruita un’Italia profondamente incivile,
razzista, omofoba, preda dell’illegalità, ostile all’altro, a qualsiasi altro.
Questo è il lascito della Seconda Repubblica, sulle cui ragioni non si è
riflettuto abbastanza. (…). Queste (…) osservazioni non ci dicono soltanto che
una agenda politica ambiziosa ha bisogno di orizzonti più larghi, di maggior
respiro. Mostrano come un vero cambio di passo non possa venire da una politica
ad una dimensione, quella dell’economia. Serve un ritorno alla politica
“costituzionale”, quella che ha fondato le vere stagioni riformatrici. Ecco
il punto dirimente: “Un ritorno alla politica “costituzionale”, prima che i barbari
diano fuoco alle ultime casematte che resistono alle illegalità ed allo
strapotere dell’antipolitica che è al potere.
giovedì 3 gennaio 2013
Cronachebarbare. 1 Cronache barbare.
E poi ci sarebbe la Costituzione.
La Costituzione irrealizzata che, per dirla col grande Roberto, sarà più bella
quando sarà realizzata. Poiché la Costituzione non è stata realizzata. È un
dato di fatto. Perché il suo spirito di equità non ha guidato nei decenni
trascorsi l’opera dei protagonisti della politica? Ed oggi, chi di essi può
sottrarsi alla responsabilità grande per non aver realizzato il dettato
costituzionale? Ha riportato Barbara Spinelli - la Repubblica del 2 di gennaio
dell’anno nuovo, “Quando arrivano i
guidatori” – una dichiarazione del magistrato Ingroia: «Quando giurai la mia fedeltà
alla Costituzione pensavo di doverla servire solo nelle aule di giustizia. Ma
non siamo in un Paese normale e in una situazione normale. Siamo in una
emergenza democratica dovuta allo strapotere della criminalità organizzata e
all’inadeguatezza della politica. E allora (…) è venuto il momento della
responsabilità istituzionale e politica». Il punto è questo: “l’inadeguatezza
della politica”. È con questo incontrovertibile dato
che si misura oggi la drammaticità del vivere associato nel bel paese. E poi ci
sarebbe una “questione sociale”. È la scoperta dell’anno nuovo. Il suo
beneaugurante messaggio. Che la politica scopre con colpevole ritardo. Ed
allora c’è da dire che l’irrealizzata Costituzione e la “questione sociale” denunciata
dall’inquilino dell’irto colle sono aspetti di uno stesso problema:
dell’antipolitica che al potere ha scacciato la politica buona, la politica dell’equità,
della giustizia e dell’onestà. Sta tutto qui il problema. Ed è un grosso
problema. Scrive magistralmente Barbara Spinelli nel Suo primo straordinario
pezzo dell’anno nuovo: (…). Dici riforma, e intendi tagli allo
Stato sociale, discesa nella povertà. Dici crisi, e non è momento di
trasformazione e opportunità di vivere in modo diverso ma, come disse Ivan
Illich già nel ’78: «il momento in cui medici, diplomatici, banchieri e tecnici
sociali di vario genere prendono il sopravvento e vengono sospese le libertà.
Come i malati, i paesi diventano casi critici. Crisi, la parola greca che in
tutte le lingue moderne ha voluto dire «scelta» o «punto di svolta», ora sta a
significare: ‘Guidatore, dacci dentro!’». È la responsabilità prima
dell’antipolitica che ha conquistato il potere: d’aver giocherellato con le
parole, illudendo, tradendo la polis, tramando a suo danno e tutto
a proprio vantaggio. E le parole - riforma – ripetute e promesse hanno
condotto nel “cul-de-sac” dell’iniquità somma che mortifica la vita
associata del bel paese che non si sanerà mai senza una riparatrice azione di
bonifica politica. Ed ancora un po’ oltre: (…). Se il linguaggio si è tanto rarefatto,
vuol dire che a guastarsi, qui da noi, sono abitudini e regole più stremate che
in altre democrazie. Scardinato non è il contrapporsi fra destra e sinistra, (…),
ma l’idea stessa del conflitto, dell’alternativa che i cambi di governo possono
ingenerare. Il dominio dei tecnici, aggiunge Illich, ci riduce a minorenni.
È quest’ultima stupenda intuizione dell’illustre opinionista la vera, grande,
imperdonabile colpa dell’antipolitica al potere: avere ridotto la gente del bel
paese “a minorenni”. Se non a minorati. Minorati, che han perso l’uso
corretto della bussola preziosa che avrebbe dovuto guidarli nel proclamare e
pretendere i propri diritti di cittadinanza e ad esercitare i propri doveri che
quella cittadinanza impone. Prosegue Barbara Spinelli: (…). È perché siamo a questo
punto che i politici vagano nelle loro trincee come soldati mutilati, e si
fanno avanti i Guidatori: banchieri, tecnici, e poteri terzi come i magistrati,
e ecclesiastici che da tempo non dovrebbero neanche sfiorare il potere. Al
posto della politica, dunque del dividersi costitutivo della democrazia,
s’installa la clinica: la tecnica che ci sdraia tutti quanti sul klìne, a
letto. Da quella minorità ricercata e dispensata colpevolmente a piene
mani dall’antipolitica che è al potere ne è derivata una situazione non nuova
ma sempre più avvilente che Barbara Spinelli così descrive: (…). La
convinzione di partenza è che il ceto politico soffra di vizi congeniti, che il
conflitto di idee non sia che rissa letale, e che il grande unico rimedio sia
la Repubblica dei Sapienti: competenti economici, o custodi della legalità come
i magistrati, o cultori dell’ordine morale e dei propri privilegi come chi
serve la Chiesa. Anche la parola laicità scompare dai bollettini medici. Grazie
alla loro speciale esperienza, o divina illuminazione, i Sapienti sono i soli
ad afferrare, come in Platone, la vera essenza dello Stato. E l’Essenza è per
definizione Una: il Sapiente moderno non ama contare fino a due né tantomeno
fino a tre, che consente la tripartizione fra potere legislativo, esecutivo e
giudiziario. Ut Unum Sint, perché siano una cosa sola. Fa impressione, perché
la teologia politica rifà capolino: i messianesimi totalitari del ’900 si
proponevano proprio l’apocalittico unanimistico approdo cui oggi mirano tanti
inviati della società civile, stufi di intralci politici o giudiziari. E
così è potuto accadere che i responsabili della mancata attuazione della Carta
si propongano oggigiorno come nuovi rivoltosi e capipopolo capaci di mettere a
posto le cose: (…) Non a caso i Guidatori annunciano Rivoluzioni guardandosi l’un
l’altro di sbieco. (…). Lo straripare della parola rivoluzione vuol dire che
c’è, diffusa, ansia di piazza pulita. Di una sorta di immacolata rigenerazione,
che azzeri la storia dimenticandola. C’è voglia di mandare in cantina partiti e
politici inadempienti: che reimparino, nell’aiuola dell’antipurgatorio
riservata da Dante ai Re Negligenti, il governare disappreso. Da anni si evita
perfino il nome Italia. Provate ad ascoltare i politici o i nuovi Guidatori. In
genere dicono «questo paese», o «questi paesi qui»: quasi dissociandosi,
altezzosi, da uno Stato italiano cui sono estranei e che sta lì per terra. Lo
spettacolo è avvilente ed incute timore poiché dai nuovi che si propongono alla
guida del bel paese giunge un messaggio che nuovo non è, poiché è il messaggio
alla filosofia del quale l’antipolitica al potere ha ispirato il suo agire,
l’agire che non ha posto al primo punto della sua “agenda” l’equità che
dovrebbe soccorrere la dirompente “questione sociale”. Scrive, a quasi
chiusura del Suo straordinario pezzo, Barbara Spinelli: (…). Ai comandi, in assenza
dell’Europa politica: un potere che rende conto ai mercati più che ai cittadini
(la regale immunizzazione della Presidenza della repubblica – il segreto sempre
più ampio che essa può invocare – è stato il segno precursore della
Rivoluzione, nel 2012). La democrazia è in mutazione, e in fondo siamo grati a
chi, cancellandola dai dizionari, ce lo rivela. (…). Che sia questo il
messaggio che il novello anno ci ha voluto consegnare? È la prima cronaca
barbara dell’anno nuovo. Auguri ancora.
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