"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 9 giugno 2025

MadreTerra. 47 Michela Murgia: «Le arcadie dell'anima finiscono sempre per troppa verità, per l'ansia tutta adulta di segnare la distanza tra ciò che è stato e ciò che si desiderava potesse essere».


“La farfalla ha fatto il miracolo”, testo inedito di Michela Murgia riportato sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” di ieri, domenica 8 di giugno 2025: Avevo otto anni quando la mia prima farfalla morì appesa al fondo di un tavolo in camera di mio fratello Cristiano. Per nessuno di noi due quella era una farfalla preziosa, perché la sua specie non era rara: le cavolaie, con le loro dozzinali ali bianco yogurt e quel punto nero così simile a una pupilla accecata, sono l'incarnazione perfetta della banalità applicata ai lepidotteri. Sebbene avessimo gusti diversi in materia di insetti volanti, quelle farfalline bianche le detestavamo entrambi. Lui aveva un debole per le pelose farfalle notturne dalle antenne radar spesse come pettinini. Non gli importava che non avessero particolari colori da sfoggiare - le farfalle notturne non ne hanno bisogno - ma era affascinato dalle strutture robuste dei loro corpi tozzi e dalle loro ali da macchine leonardesche, con i profili robusti che sembravano fatti di un qualche misterioso legno sottile. Io preferivo di gran lunga le delicatissime diurne con le loro livree sgargianti, dai contorni più leggeri di un ricamo su un aquilone. Mi catturava la grinta cromatica delle maestose macaone, tutte oro, neri e lapislazzulo, ma ancora di più la sontuosità dei grandi esemplari della vanessa pavone, così rara da scorgere alle nostre latitudini da farci gridare in festa ogni volta che ne scorgevamo una. Purtroppo però i loro bruchi erano delicatissimi e difficili da trovare in numero sufficiente da poterci sperimentare un allevamento in cattività. Era per questo che avevamo in casa le larve delle cavolaie, promesse verdi di farfalline da nulla che, come spesso fanno le nullità, prosperavano ovunque senza particolare bisogno di aiuto. Nella stanza del ping pong tenevo decine di bruchi di cavolaia ai quali davo da mangiare vecchie foglie di cavolfiore e cavolo cappuccio, roba di scarto che il fruttivendolo sotto casa mi dava gratis due volte alla settimana. Il ciclo di trasformazione delle cavolaie era rapido: dopo aver mangiato fino a tendere allo spasimo la pelle verde dei loro corpi mollicci, i vermi si spostavano tutti sotto il piano del tavolo da ping pong e, obbedendo agli ordini perentori del misterioso architetto d'interni che gli albergava dentro, si appendevano uno ad uno a testa in giù come surreali impiccati. Succedeva di preferenza al calare della notte, se la luna e il clima erano favorevoli al mutamento. In quella fase furtiva della loro vita io e mio fratello non potevamo fare niente. Mi limitavo a osservarli migrare sul lato inverso del piano di compensato e poi andavo a letto: al mattino i bruchi erano scomparsi, insaccati nei sarcofaghi cheratinosi delle crisalidi che si erano costruiti con Dio solo sa quale sostanza autoprodotta. Non dovevo far altro che aspettare. Ma per una bambina di otto anni era proprio quella la parte più difficile. Le crisalidi, sebbene il tempo di muta mi sembrasse infinito, cambiavano di giorno in giorno quasi impercettibilmente, passando da un iniziale spessore impenetrabile a una trasparenza madreperlacea sotto alla quale, col trascorrere del tempo, si intuivano con sempre maggior nitore i contorni contratti di aliene forme di vita. Per immaginare che dentro quei ventisette tozzetti opalescenti ci fossero davvero le ali ampie di altrettante farfalle, per quanto vili come la cavolaia, occorreva tuttavia una fede nel prodigio che al mondo appartiene solo ai bambini e ai profeti. Io quella fede l'avevo tutta e sapevo che l'avrei vista premiata in gloria nel giorno in cui si sarebbe schiusa la prima imbozzolata della mia storia di madre di farfalle. Non mancava molto. Le crisalidi delle cavolaie si aprirono tutte all'improvviso nel medesimo pomeriggio di aprile, come per un segnale concordato, richiamandoci a guardarle con gli occhi pieni di meraviglia. Le contavo trepidamente una ad una mentre il sole che entrava dal giardino faceva brillare le ali umide delle neonate e la stanza echeggiava delle grida eccitate di Cristiano a celebrarne ogni movimento minimo. In due sbalorditive ore di lavorio le farfalle emersero tutte dai bozzoli, lasciando sotto il tavolo del ping pong le stalattiti organiche dei carapaci croccanti, divenuti ormai fragili sculture di carta velina. Davanti alla danza timida e ancora senza volo dei giovani lepidotteri io e mio fratello ci guardammo con un impronunciabile senso di onnipotenza. Erano le farfalle dei bruchi che avevamo scelto. Li avevamo nutriti noi. Li avevamo scaldati, avevamo offerto loro riparo e sostegno per la trasformazione e avevamo sognato l'eleganza delle loro ali quando ancora non erano che vermi sgraziati. Le avevamo create noi con la nostra speranza. Eravamo Dio. Le farfalle presero il volo nella stanza una dopo l'altra, muovendosi in uno scomposto turbinìo che pian piano si disciplinò, assumendo per istinto collettivo il verso di una sinusoide ascendente.