Torno al teorema che tanto è stato caro al cuore
grande, grandissimo dell’uomo di Arcore ovvero dell’uomo del partito dell’amore
che, per converso, lascerebbe sottintendere, sottintendere non più di tanto e
molto malignamente, esistente un partito avverso, ovvero il partito dell’odio.
Sarebbe a dire che, da quel teorema “dell’amore e dell’odio”, ne
deriverebbe un corollario inquietante assai e che ben verrebbe espresso e
plasticamente raffigurato dall’antico adagio partenopeo: “... ogni scarafone è bell’ a
mamm’ soja“. Ché se tutto venisse ridotto al binomio “amore /odio”, nelle democrazie sarebbero da perdonarsi, e
sempre, tutte le manchevolezze, le scempiaggini, le bugie, le inconcludenze, le
lordure e le brutture, se non il delinquere vero e proprio anche per azioni non
direttamente conseguenti all’arte del governo, proprio in forza di quel binomio
che regolerebbe così le relazioni tra gli umani al più primitivo dei livelli.
Sarebbe inutile, e controproducente pure, se non azzardato e rischioso anche,
tentare di riportare al vaglio della ragionevolezza e della normale dialettica,
e non si dica giammai al vaglio auspicabile sempre del binomio “consenso/dissenso”,
cancellato in nome di quell’altro binomio,
sarebbe inutile dicevo sottoporre la prassi politica, i comportamenti e
le scelte di un qualsivoglia reggitore delle cose pubbliche al di fuori
dell’angusto recinto di quell’ancestrale primitivo binomio. Ridotte le
relazioni sociali al binomio “amore/odio”, la “perdonanza”
diverrebbe prassi costante, quasi legge non scritta, usanza, assuefazione,
disinteresse diffuso tra i governati, con tutto quel ne conseguirebbe in fatto
di responsabilità e correttezza istituzionale. Scomparirebbe l’etica delle responsabilità
sostituita dalla peggiore espressione del familismo de’ noantri “…bell’ a mamm’ soja”. Lo “scarafone”
di turno ne conseguirebbe un bel vantaggio; una incondizionata impunità, la
consapevolezza di poter contare, in forza quel binomio, sempre e comunque, del
perdono della “mamm’ soja”, nel contesto attualizzato, nel perdono e nella
accondiscendenza di un popolo di elettori prono e sufficientemente “narcotizzato”
mediaticamente. Nulla di peggiore, doloroso e mortale per una moderna e
complessa democrazia. Di seguito trascrivo, in parte, un editoriale del primo
di dicembre dell’anno 2009 a firma di Giuseppe D’Avanzo, “La nascita di Forza Italia e le bugie del Cavaliere”, editoriale
pubblicato sul quotidiano “la Repubblica”. Ecco, per l’appunto: “… bell’ a mamm’ soja”, è solo ‘na
bugiuzza piccola, piccola. Ecco, una delle tante, in fondo! Che vuoi che sia!
(...).
(Dalla testimonianza di Enzo Cartotto, consigliere politico di Silvio
Berlusconi, testimonianza resa alla Procura di Palermo il 20 di giugno
dell’anno 1997 e contenuta nel suo volume di ricordi “Operazione Botticelli” n.d.r. ) Dice Craxi: - Bisogna trovare un'etichetta,
un nome nuovo, un simbolo che possa unire gli elettori che un tempo votavano
per il pentapartito. Io sono convinto che, se tu - Silvio - trovi una sigla
giusta, con le televisioni e con le strutture aziendali di cui disponi puoi
riuscire a recuperare quella parte di elettorato che è sconvolto, confuso ma
anche deciso a non farsi governare dai comunisti e dagli ex comunisti -. (...)
– Bene - dice Silvio - so quello che devo fare. È deciso. Adesso bisogna agire
da imprenditori. Chiamare gli uomini, comunicare la decisione. Adesso bisogna
dirlo a Marcello (Dell'Utri), perché mi metta attorno persone che mi possano
accompagnare. Bisogna fare quest'operazione di marketing sociale e politico. Va
bene, allora andiamo avanti, procediamo su questa strada, ormai la decisione è
presa -. È il 4 aprile 1993. Quel giorno - è domenica, piove, fa freddo come in
inverno - può essere considerato il giorno di nascita di Forza Italia. Perché
il Cavaliere vuole farlo dimenticare? ( negare la sua “ discesa in
campo “ prima dell’anno “ mitico “ 1994 n.d.r. ). Non è una novità, in Berlusconi,
l'uso politico e sistematico della menzogna. In questo caso egli nega la
realtà, la sostituisce con una menzogna per liberarsi di un sospetto - fino a
prova contraria, soltanto una coincidenza - sollecitato dal sincronismo tra le
sue mosse politiche e la strategia terroristica di Cosa Nostra. È una
contemporaneità che i mafiosi disertori dicono combinata. Se c'è stata intesa o
collaborazione, non ha trovato per il momento alcun attendibile, concreto
conforto. Confondere le cose, eclissare fatti da tutti conosciuti, appare a Berlusconi
la migliore via d'uscita dall'imbarazzante angolo. È la peggiore perché
destinata a rinvigorire, e non a sciogliere, i dubbi. Un atteggiamento di
disprezzo per la realtà già non è mai moralmente innocente. In questi casi, la
negazione della realtà - al di là di ogni moralistica condanna - finisce per
mostrare il bugiardo corresponsabile di una colpa. (…). È quanto è
contenuto in quell’editoriale dell’indimenticato Giuseppe D’Avanzo. Pubblicato
alla data del 1° di dicembre dell’anno 2009. Tanta acqua sembra passata sotto i
ponti. Ma volgendo lo sguardo all’oggi si ha la desolante sensazione che di
acqua non ne sia corsa affatto. Tutto immobile, tutto in quiete. Quiete che
aiuta il “bugiardo” di turno. Chi fa il “bugiardo” per mestiere. È del 20 di
agosto ultimo l’interessante riflessione di Raffaele Simone pubblicata sul
settimanale L’Espresso con il titolo “Potere
bugiardo”. Scrive Raffaele Simone che (…). …le bugie sono consustanziali
all’attività politica, dato che servono a tre obiettivi fondamentali in quel
mondo: acquistare consenso, coprirsi le spalle e raggiungere un traguardo
impervio. (…). Tra quelle recenti, spiccano quelle, enormi e sfrontate, con cui
François Fillon ha tentato di negare gli spettacolari favori coi soldi dei
francesi che aveva fatto a moglie e figli. Si parva licet, in questo campo
l’Italia non è seconda a nessuno. Dopo il bugiardissimo Mussolini, il campione
di questa speciale arte è Silvio Berlusconi: dalle falsità vere e proprie (“il
presidente operaio”), alle false promesse (“meno tasse per tutti”, “un milione
di posti di lavoro”), alle castronerie (“l’anno scorso gli sbarchi di immigrati
sono calati del 127 per cento”), alle mitologie fantasiose (“il partito
dell’odio, il partito dell’amore”), a Silvio si deve anche una notevole
estensione del concetto del mentire. Ha mostrato infatti che questo non
consiste solo nel dire una cosa non vera, ma anche nel fare promesse
inattuabili, nel distorcere i fatti (il caso della “nipote di Mubarak”),
nell’occultarli e nel sottacere lo scopo reale di un atto vero. In questa
indisponente graduatoria, Matteo Renzi, per parte sua, è secondo solo in ordine
di tempo: per dirne solo una famosa, dopo aver annunciato urbi et orbi che, se
avesse perso il referendum, si sarebbe ritirato dalla politica, si guardò dal
farlo; mesi fa ha disinvoltamente raccontato come una vittoria la pesante
sconfitta Pd alle ultime amministrative. Nella democrazia light dell’epoca
digitale, le bugie sono così correnti che sarà bene cominciare a chiamarle
«fatti alternativi», come ha suggerito (con inconsapevole genialità
epistemologica) la portavoce di Donald a commento delle prime bugie che
venivano attribuite al presidente. Allo stesso modo, la menzogna è praticata e
teorizzata nella cerchia di Emmanuel Macron. Il suo portavoce Christophe
Castaner è stato beccato più volte a mentire e Sibet Ndiaye, la disinvolta
capoufficio stampa, ha ammesso giorni fa che «si assume la responsabilità di dir
bugie per proteggere il presidente». L’assuefazione al web accelera con un
infrenabile crescendo l’evaporare della realtà dura nel mare dei fatti
alternativi. (…). …in Italia, dove «la domanda pubblica di sincerità» (come
dice Luciano Violante in “Politica e Menzogna”, Einaudi 2013) è modesta, ai
cittadini sembra importare poco se chi li governa dica il vero o no e perfino i
dati Istat possono essere messi in dubbio senza fare una piega. Essendo un
popolo di story-tellers (cioè di gente che la racconta e se la racconta), ciò
non sorprende. Il mentire infatti, proprietà unica del linguaggio umano, è
cruciale per narrare storie. Per questo è normale che, se uno mente come
Donald, «sta cercando (dice acutamente il New York Times) di creare
un’atmosfera in cui la realtà è del tutto irrilevante». È esattamente il
terreno su cui nascono la narrazione, il cinema, il teatro e tutte le arti in
cui si raccontano storie. Il problema, quindi, è il seguente: può la politica
sopravvivere senza mentire? Il tema preoccupa da tempo i filosofi. Jacques
Derrida sottolineò l’urgenza di metter mano a una “pseudologia” o scienza della
menzogna, di cui esistono già autorevoli frammenti (da sant’Agostino ai
moderni). La linea di riflessione su questo tema è ininterrotta e ha alcuni high
points. Hannah Arendt nel 1967 dedicò un famoso saggio al mentire in politica
(“Lying in politics”). A fine Settecento, per esempio, ebbe luogo uno
spettacolare dibattito a distanza tra Immanuel Kant e Benjamin Constant
sull’opportunità di mentire in politica. Kant lo escludeva in modo tassativo.
Più pragmaticamente, l’acuto Constant replicò che non dir bugie è un obbligo,
«ma solo verso chi ha diritto alla verità». Qui sta forse la chiave del
problema. Per Donald come per i suoi omologhi europei in formato minore, se si
mente al popolo è soprattutto perché si ritiene che non abbia alcun “diritto
alla verità”. E le menzogne più gravi non sono quelle su singoli fatti, ma
quelle che consistono nel tenere nascoste le proprie vere intenzioni.
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