La “sfogliatura” che propongo è del
venerdì 29 di gennaio dell’anno 2010. Non abbisogna di chiosa alcuna. Le cose
che sono state scritte allora sono terribilmente sotto gli occhi increduli di
noi uomini della torrida estate dell’anno 2017. Scrivevo: Ha lasciato scritto Nelson Mandela: “Siamo tutti nati per risplendere, come fanno i bambini. E quando
permettiamo alla nostra luce di illuminare, diamo agli altri la possibilità di
fare lo stesso. E quando ci liberiamo dalle nostre paure, la nostra presenza
libera gli altri”. Riprendo in mano la magnifica “Lettera 144” dello
scrittore e giornalista Ettore Masina che mi gratifica della Sua attenzione con
l’inoltro puntuale dei Suoi preziosissimi scritti. Ettore Masina è un cattolico
che a tutto tondo si identifica nel magistero del Concilio Vaticano Secondo
(1962-1965). Un’epoca remota. Ché, ai tanti del bel paese, sembra non dire più
un bel nulla. Nella Sua lettera Ettore Masina fa riferimento ai vescovi di Roma
che furono i protagonisti di quell’evento che ha segnato la storia di quella
chiesa. Una storia incompiuta per la verità, se ancor oggi i solenni proclami
di cristiana accoglienza e dovuta fratellanza, tra tutti coloro che siano
accomunati dalla condizione della umanità, sembrano non avere la dovuta considerazione
e pratica applicazione. Mi sono sempre chiesto se i reggitori della cosa
pubblica del bel paese avessero ottenuto, dagli uomini di quel Concilio, la
stessa indulgenza accordata ad essi dalle gerarchie attuali della chiesa di
Roma. Una domanda senza risposta, capisco, ma insistente nella mia mente:
sarebbero rimasti gli uomini di quel Concilio indifferenti al malaffare
dilagante ed alla caduta etica del costume nel bel paese? Non che li si voglia
tirare per la giacchetta quegli uomini, per annoverarli furbescamente nelle
proprie schiere! Ma santo sia sempre il loro iddio, com’è possibile da parte
loro non assumere i dovuti toni e le necessarie iniziative di denuncia per
evitare un baratro inevitabile nei costumi e nelle coscienze delle masse del
bel paese? O bisognerà attendere un nuovo secolo per parlare, con scandalo, a
posteriori, dell’insostenibile silenzio accordato dagli uomini della chiesa di
Roma, nostra contemporanea, ai reggitori della cosa pubblica? Queste poche
righe di personali considerazioni mi vengono spontanee a seguito delle ultime
stravaganze del signor B., stravaganze messe in video e sui media asserviti sul
tema dei moderni migranti e della criminalità nel bel paese. Trascrivo di
seguito la seconda parte della “Lettera 144” dello scrittore Ettore Masina:
(…). È domenica. Mi domando, se posso
andare a messa, come faccio abitualmente. Mi martella in testa un brano del
vangelo di Matteo: - Se stai presentando la tua offerta all’altare e ti viene
in mente che un tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì la tua offerta
e va’ a riconciliarti con lui. Tornerai dopo all’altare -. Penso a quei mille
poveri espulsi da Rosarno e mi domando se nel terrore che li mette in fuga, nel
dolore dello sfruttamento, nell’esperienza di una vita da schiavi, si
domandino, si siano mai domandati, se davvero l’Italia si possa definire una
nazione cristiana; e se non ci gridino, nella tragedia che li travolge, che sì:
hanno qualcosa contro di noi. Decido di andare a messa, egualmente. Sento il
bisogno del tepore di una comunità che
preghi con me, esprima, almeno nel suo intimo, energie d’amore: penso che non
posso chiudermi in un dolore privato, è con i fratelli e le sorelle con cui
spartisco l’eucarestia che debbo vivere il rimorso per tanta ingiustizia fatta
ai poveri con le nostre omissioni quando non le nostre opere: nostre, di noi
Chiesa italiana. Domani rifletterò da
cittadino ma oggi sento di dovermi innanzi tutto confrontare con il vangelo.
Risento ancora la voce buona di papa Giovanni: - La Chiesa, quale è e vuole
essere, è la Chiesa di tutti ma particolarmente la Chiesa dei poveri -. Risento la voce profonda e
commossa di Paolo VI che ammonisce: - Ostinandosi nella loro avarizia, i ricchi
non potranno che suscitare il giudizio di Dio e la collera dei poveri, con
conseguenze imprevedibili -; e proclama agli elogiatori dell’elemosina: - La
giustizia è la misura minima (minima!) della carità -. Mi domando: nelle nostre
comunità viviamo – e rendiamo visibile – questo volto della Chiesa, questa sua fondamentale
vocazione di riconoscimento del volto del Cristo nel volto del povero? O ci
siamo ridotti, pian piano, a un agglomerato di persone che cercano avidamente
coraggio e consolazione per le loro
privatissime paure, che dedicano al culto dei santi una venerazione assai
superiore a quella per il Signore, che riempiono di quando in quando i grandi
spazi delle celebrazioni papali ma subito dopo rifluiscono nel chiuso delle
proprie case e nel rifiuto di ogni coerenza? Schiacciate, talvolta, da un amaro
senso di impotenza, anche se non hanno mai tentato l’esperienza di un impegno?
Questa fede, morta senza le opere, raggruppa senza problemi, nel suo seno,
anche mafiosi e uomini politici cui l’acqua benedetta sembra lavare colpe senza
pentimenti o addirittura annegare speranze e mormorii della coscienza. (…).
Viviamo ormai in un paese in cui l’ottusa noia di giovani senza ingresso nel
campo del lavoro moltiplica le infami crudelissime aggressioni ai senza tetto,
in cui bande di italiani attaccano campi rom invece di premere per un
inserimento dei nomadi nel tessuto delle città, in cui gran parte della
ricchezza si basa sul lavoro nero: quello offerto da piccoli imprenditori senza
scrupoli e quello coordinato dalle grandi centrali della mafia e della
ndrangheta. Viviamo in un paese il cui ministro degli interni chiede che si
diventi più cattivi nei confronti dei migranti, in una nazione, in cui, in
contrasto con la Costituzione e con la Dichiarazione dei diritti umani, viene
negato asilo ai profughi politici, e gli aiuti allo sviluppo dei paesi poveri
sono ridotti a pura facciata, ma il presidente del Consiglio scrive al papa,
all’inizio del 2010, che «i valori cristiani sono sempre presenti nell’azione
del governo da me presieduto». Impunemente: nel senso che assai raramente le
nostre gerarchie religiose contrastano questa beata coscienza, di uno statista
che concede mano libera al razzismo di un parte della sua compagine
governativa. Papa Giovanni ci ha insegnato che il confiteor non va battuto sul
petto degli altri e quindi occorre che ciascuno di noi riveda la propria vita.
Ma è fuor di dubbio, a me pare, che salvo splendide eccezioni, la voce dei
pastori della Chiesa italiana è flebile nel rivolgere i “non ti è lecito!” ai
responsabili dello sfruttamento delle paure dei cittadini; e i documenti della
CEI sono spesso vaghi nel condannare ogni violenza. (…). Ricordo di essermi sentito rovesciare come un
guanto, ma anche spinto e sostenuto a un cammino luminoso, il giorno, ormai
lontano cronologicamente ma non sbiadito nel mio cuore in cui un’assemblea
mondiale delle Chiese protestanti, anglicane ed ortodosse, cui avevo
partecipato con tanti altri cattolici conciliari, proclamò: - Chi non difende i
poveri, non cerca che essi ricevano giustizia e dignità, non vede in essi la
presenza del Cristo, costui è altrettanto eretico di chi nega l’uno o l’altro
articolo del Credo -.
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