Vogliamo riprovare a guardare la
luce che è in fondo al tunnel? È luce fioca, tremolante, come di fiammella
esposta al primo vento che possa facilmente spegnerla. Ma i cantori ed i lesti
turiferari l’intravedono nonostante le cautele di coloro che, moderni aruspici,
leggono bene nel ventre molle del mercato globalizzato. Ma tant’è la piaggeria
dilagante che qualsivoglia richiamo al cosiddetto principio di realtà cade
inesorabilmente nel vuoto. Ma qui preme guardare a quella luce che è vista al
fondo del tunnel ma con occhio diverso. È che, nelle questioni della economia,
la vulgata corrente trascura d’osservare più da vicino gli attori primi che
sono lor signori, ovvero gli imprenditori e manager che progettano
arricchimenti facili e senza che comportino loro alcuna responsabilità sociale.
Del resto, è cosa nota, che nelle crisi a pagare per le difficoltà incombenti
siano maestranze e forze del lavoro. Se un prodotto non soddisfa il mercato non
si è mai visto che a risponderne siano i vertici aziendali e la corte che li
circonda. Scrive Alessandro Robecchi su “il Fatto quotidiano” di ieri 26 di
settembre – “La gloriosa imprenditoria
italiana. Perfino peggio della politica” -: Ce ne è abbastanza per denunciare
un grave caso di strabismo: tutto questo parlar male della politica e dei
politici ha messo in secondo piano le gloriose capacità dell’imprenditoria
italiana che rappresenta l’altra metà delle corruzione. In termini generali,
certo, a grandi linee: dove passa una mazzetta c’è un politico da un lato e un
imprenditore dall’altro. (…). Conosco l’obiezione: fare impresa in Italia è
difficile, ma pare che sia difficile per gli italiani, perché se fosse
difficile per tutti non verrebbero qui a comprare a man bassa. Poi, certo,
possiamo fare collezione di belle frasi sulla casta, sulla politica, sui
cialtroni che ci governano e che non spariscono mai e stanno sempre lì. Perché
invece i Colaninno, i Bernabé, i Tronchetti Provera, i Passera spariscono? Non
pare: saltano da un consiglio di amministrazione all’altro come usignoli sui
rami, quasi sempre lasciandosi dietro disastri epocali e balzando a combinarne
di nuovi. Sempre salutati come salvatori della patria, coraggiosi innovatori,
costruttori di ardite strategie accolte dalla òla dei commentatori che dopo
due, tre, quattro anni si esercitano a demolire quelle costruzioni. Pure loro
(i commentatori) non se ne vanno mai: il loro passare dagli applausi (evviva,
si salvaguarda l’italianità di Alitalia!) ai fischi (ma che avete fatto!
Dovevate vendere subito ai francesi!) nello stesso film, addirittura nella
stessa scena, è garanzia di durata. Il concetto di responsabilità (ho
detto/fatto/pensato una cazzata, me ne vado) non è contemplato, chi rompe non
paga, non porta via nemmeno i cocci, e si prepara a nuovi mirabolanti successi.
Ineccepibile. Tanto è vero che il collaudato copione si rinnova in queste
circostanze settembrine sempre con gli stessi attori e le “spalle” di supporto.
Alitalia. Finmeccanica. Telecom. E che dire delle profumatissime liquidazioni
che lor signori riceveranno a disastro avvenuto? Si prenda Telecom. Ieri, la
sua massima autorità, ha candidamente dichiarato d’essere stato tenuto
all’oscuro sull’affare di cessione allo spagnolo “invasore”. E sì che al tempo
che è stato dei Prodi e dei D’Alema si inneggiò ai “capitani coraggiosi” –
testuale D’Alema - che si erano prodigati a salvare il carrozzone ed il bel
paese. Oggi, attorno a quei “capitani coraggiosi” è calato il
silenzio. Si intasca e si continua a saltare “da un consiglio di
amministrazione all’altro come usignoli sui rami, quasi sempre lasciandosi
dietro disastri epocali e balzando a combinarne di nuovi”. È storia
passata e recente del bel paese. Ha scritto sempre ieri Massimo Giannini sul
quotidiano la Repubblica – “La ballata
dei poteri morti” -: Tutti bugiardi. Perché tutti sapevano tutto,
da mesi se non addirittura da anni. Non c’è fine più annunciata di quella che
sta per portare Telecom nelle braccia di Telefonica. Sui quotidiani e sui
settimanali, negli ambienti politici e in quelli borsistici, il dramma dell’ex
colosso tricolore è all’ordine del giorno da tempo. E l’opzione spagnola era
già quasi scontata dal 2007, quando Telefonica fu imbarcata dentro la holding
di controllo Telco, spacciata come «operazione di sistema» dagli improbabili
architetti di Mediobanca, Generali e Banca Intesa. Per scongiurarla, i soci
«eccellenti» dell’ex Salotto Buono avrebbero dovuto avere in tasca i miliardi
necessari ad una robusta iniezione di capitali freschi. I manager avrebbero
dovuto avere in testa un piano di sviluppo del business telefonico e delle
alleanze globali. I politici avrebbero dovuto avere in mano un progetto di
politica industriale degna della quinta potenza del pianeta. E invece, dopo la
spoliazione della Stet successiva alla «madre di tutte le privatizzazioni», la
truffa dei nocciolini duri perpetrata dalle nobili casate sabaude pronte a
controllare le aziende con una fiche di pochi spiccioli, il saccheggio
realizzato dalla squadra tronchettiana, non c’è stato quasi più nulla. Solo la
prosecuzione della razzia con altri mezzi: dal 2007 ad oggi, nella cinica
accidia della comunità finanziaria e politica, Telecom ha subito un ulteriore
drenaggio di risorse per circa 24 miliardi. A chi millantano la loro meraviglia
e la loro indignazione, oggi, i controllanti e i controllati? (…). Dunque su
Telecom (…) non si celebra la saga dei Poteri Forti, ma la ballata dei Poteri
Morti. Questo è ciò che resta del famoso «capitalismo di relazione» (e in
qualche caso «di corruzione»). Capace di regalare la telefonia italiana a un
indebitatissimo Cesar Alierta per un piatto di lenticchie. Di consentire agli
spagnoli di portarsi via l’intera posta senza fare l’Opa, senza far arrivare
neanche un euro nelle casse svuotate di Telecom e nei portafogli delusi di una
Borsa trattata come una bisca. E questo è ciò che resta dell’establishment
economico e dell’élite finanziaria. Mosche del capitale, che succhiano i loro
ultimi dividendi sulle spoglie delle aziende e di chi ci lavora. (…).
Telefonica prenderà il controllo di Telecom senza consolidare il suo debito.
Lascerà che siano gli altri, nel frattempo, a fare il “lavoro sporco”. Cioè
smembrando l’azienda e avviando uno spezzatino selvaggio, attraverso il sacrificio
della attività più redditizie in Brasile e in Argentina, mercati dove il gruppo
italiano dava fastidio a Telefonica perché competeva alla pari sul mobile. Alla
fine delle tre tappe fissate dall’operazione, Alierta ingoierà Telco,
finalmente alleggerita dai debiti. Il tutto avverrà a un prezzo di 1,09 euro ad
azione, di cui beneficeranno solo i «compagnucci della parrocchietta» milanese,
messa in piedi dalla Galassia del Nord sei anni fa. Il 78% degli altri
azionisti, comuni mortali che hanno comprato in Borsa, non vedranno un
centesimo. (…). Ricordate dei cosiddetti “furbetti del quartierino”?
Solamente dei principianti a confronto con lor signori. Poiché non vi sfuggirà
che dei cosiddetti “capitani coraggiosi” ne spuntano copiosamente ad ogni stagione
politica. Ce ne rende memoria Federico Fubini sul quotidiano la Repubblica del
25 di settembre con un pezzo, “L'aereo
francese”, che è tutto un dire: Quando il 19 marzo del 2008 atterra a Roma
Jean-Cyrille Spinetta, allora numero uno di Air France, per Alitalia si
presentano buone notizie. La compagnia è alle soglie del fallimento, disertata
dalla clientela, ma Spinetta rilancia: Air France è disposta a comprare
Alitalia dal Tesoro per una somma fra 2,5 e 3 miliardi di euro, in più si
accolla i tre miliardi di euro dei suoi debiti e si impegna a investirne altri
sei in dieci anni. Un’operazione da circa sei miliardi a beneficio delle casse
dello Stato (…), più altri sei in sviluppo futuro. Non se ne farà di niente. La
Cgil in Alitalia osteggia la fusione e Berlusconi sposta l'ago della bilancia
puntando la campagna elettorale di allora sull'«italianità» della compagnia.
Oggi tutti i protagonisti di allora sono costretti a sperare che la stessa Air
France prenda il controllo di Alitalia con appena 150 milioni: venti volte meno
del prezzo rifiutato cinque anni fa. Ma questa è solo una parte della beffa,
poi arrivano gli altri oneri. (…). Nell'estate 2008 infatti il governo
Berlusconi favorisce una cordata di investitori privati italiani nella
compagnia, spostando i tre miliardi di debiti di Alitalia su una nuova bad
company sotto il controllo del Tesoro.
Cioè a carico dei cittadini. Inoltre, ottomila dipendenti vengono messi in
mobilità, ancora una volta a carico dello Stato, e undicimila restano. (…). Qui
sorge il primo problema perché, accollando ai cittadini i debiti della vecchia
Alitalia, di fatto il governo concede alla cordata italiana un aiuto di Stato.
Una violazione della parità di condizioni fra concorrenti. Meridiana e Ryanair
presentano ricorso alla Commissione europea, ma sono sfortunati: il
responsabile dei Trasporti all'epoca è Antonio Tajani, ex portavoce di
Berlusconi, cioè del padre dell'operazione nuova Alitalia. «A Bruxelles ci
presero a pesci in faccia», ricorda ora l'esperto di Antitrust e all'epoca
consulente di Meridiana Roberto Pardolesi. (…). Potrà quella luce in
fondo al tunnel, seppur esiste, resistere alla turbolenza dei mercati? E di lor
signori - di melloniana memoria -, cosa ne dovremmo fare? Esiste per lor
signori una cassa integrazione, una messa ai margini per incompetenza –
lasciando al potere giudiziario di accertare eventuali operazioni delittuose -
avendo dilapidato risorse, ricchezze e financo il buon nome di questo
disastrato paese?
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
venerdì 27 settembre 2013
martedì 24 settembre 2013
Cronachebarbare. 22 Il miraggio della ripresa.
Si spinge a dire, per invocare la
stabilità politica da garantire alle “larghe intese” l’inquilino
dell’irto colle, di “non sprecare i segnali di ripresa”. Ho già detto, a seguito di
un’altra simile boutade, quanto necessario sia l’intervento di un buon
oculista. Oggi mi vien solo da dire, a mo’ di Hans Fallada, “ed
adesso pover’uomo?”, ove quel grande narrava le vicende di un giovine uomo,
un commesso, e della sua famiglia – una moglie ed un bambino -, una delle tante
di quella piccola borghesia tedesca che nel secolo ventesimo si trovò alle
prese con le grosse difficoltà economiche e con la paura della disoccupazione
su quel palcoscenico tragico che era la Germania all’indomani della “grande
guerra” e che da lì a poco sarebbe naufragata nel nazismo. Dov’è la
ripresa? La Merkel ha vinto, anzi ha stravinto. Ed è riuscita ad allontanare
dal suo parlamento i partiti antieuropei. Un colpo da maestro. Ecco perché
viene da dire “ed adesso pover’uomo?”. Ha dichiarato Alberto Bombassei, presidente
della Brembo, un’azienda all’avanguardia nella specializzazione dei prodotti,
in un’intervista al settimanale Affari&Finanza del 16 di settembre - “La crisi non si supera senza vincere la
sfida dell’innovazione” di Giorgio Lonardi -: Presidente Bombassei, dunque per lei non ci
sono dubbi: nessuno spiraglio in vista per la nostra economia? «(…). …ora la
Confindustria dice che la crisi è finita. Ma questo annuncio ha solo un effetto
psicologico: la realtà è ben diversa. Guardi, io siedo nella commissione
attività produttive e quasi ad ogni riunione vedo passare sotto i miei occhi
una quantità incredibile di crisi aziendali. E non si tratta solo di imprese
sconosciute ma anche di tanti nomi le cui tradizioni affondano nella storia
industriale di questo Paese. Detto questo sarei felicissimo di essere smentito
e dunque di sbagliarmi. Ma per ora, purtroppo, non credo sia possibile».
Secondo Gianfelice Rocca,
presidente di Assolombarda, ci sarebbero “ piccoli segnali” di ripresa. Lei che
ne dice? «Piccoli segnali? Forse è così, certamente è un termine più corretto.
Per quanto mi riguarda sono molto preoccupato: il Pil continua a scendere e i
giovani non trovano lavoro. E purtroppo siamo di fronte ad un fenomeno nuovo e
poco studiato, quello dei ragazzi che si sono formati nelle nostre università e
vanno a cercare lavoro all’estero e spesso lo trovano. Torneranno? Non lo so,
io temo di no. E questo dovrebbe angustiare tutti coloro che vogliono bene al
loro Paese».
L’export è uno dei pochi elementi
che tiene a galla tante imprese italiane. L’attuale situazione di incertezza
politica può essere un problema per chi vende all’estero? «Partiamo da un
principio base: la credibilità ha un valore economico. Se la fiducia nel tuo
Paese vacilla tutto diventa più difficile. Chi se la sente di affidare una
commessa importante ad un’impresa di un Paese in difficoltà? (…).». Afferma
quindi Alberto Bombassei che “se la fiducia nel tuo Paese vacilla tutto
diventa più difficile.”. Ed il paese lo è. E non tanto per un destino
cinico e baro quanto per quella straordinaria sua storia di intrallazzi e di
ruberie oltre ogni misura. È quel che non si è voluto capire. Che non si vuole
capire. È la responsabilità primaria dell’”antipolitica” al potere. Le catene
che legano mani e piedi di questo strano paese sono quelle catene, che nessun
altro ha posto a quelle mani ed a quei piedi, forgiate dalla impresentabile vita
politica e sociale di quello che è stato definito il bel paese. Il paese delle
ruberie sfrontate e dei privilegi irrinunciabili per i pochi. Ha scritto di
recente Aldo Grasso - “Troviamo una
paratia mobile alla corruzione” - sul settimanale “Sette” del Corriere
della Sera del 2 di agosto: (…). …in Italia, alle consuete voci di spesa
per realizzare le infrastrutture, bisogna aggiungere una “stecca” del 40% in
più, che è esattamente il costo della corruzione. L’ufficio studi della Cgia di
Mestre (…) ha calcolato che le grandi opere pianificate per i prossimi anni
costeranno agli italiani 93,6 miliardi di euro in più rispetto a quanto
avrebbero pagato al posto loro i contribuenti inglesi, francesi, tedeschi o
spagnoli. Una cifra che corrisponde quasi a sei punti di Pil. Questi sei punti
di Pil hanno un solo nome: corruzione. Ogni volta che decidiamo di fare una
cosa in grande (…), spunta sempre un sistema corruttivo. Come scriveva Indro
Montanelli nel poscritto all’ultimo volume della Storia d’Italia: «Sono giunto
alla conclusione che la corruzione non ci deriva da questo o quel regime o da
queste o quelle “regole”, di cui battiamo, inutilmente, ogni primato di
produzione. Ci deriva da qualche virus annidato nel nostro sangue e di cui non
abbiamo mai trovato il vaccino. Tutto in Italia ne viene regolarmente
contaminato». Possibile che non si trovi una paratia mobile per fermare la
corruzione? Ecco il perché di quel “ed adesso pover’uomo?”. Questo
paese non avrà sconti da nessuno poiché non ha la forza in sé o la volontà di
redimersi dalle cattive abitudini che ne hanno caratterizzato e segnato
profondamente la vita politica innanzi tutto, ma anche quella economica e
sociale. Scrive Massimo Giannini sullo stesso numero del settimanale
Affari&Finanza – “Da Siena a Genova
avevano una banca” -: Ecco i numeri del disastro. A luglio i
prestiti al settore privato sono diminuiti di un altro 3,3%. I finanziamenti
alle famiglie si sono ridotti dell’1,1%, mentre quelli alle imprese sono
crollati addirittura del 4,1%. Non ho gli occhiali del ministro Saccomanni, e
quindi non riesco a vedere la ripresa in queste cifre. Ma con i miei occhi vedo
benissimo l’altra faccia del credit crunch tricolore. Famiglie e aziende non
scuciono un euro dalle banche, per coprire consumi e investimenti. Politici e
amici degli amici spillano milioni, grazie al bancomat perpetuo garantito dai Signori
del Credito. Dalle inchieste parallele su Mps e Carige continua a venir fuori
un verminaio putrido, dove il malaffare economico e il malcostume politico si
intrecciano irrimediabilmente. Un consociativismo bipartisan così miserabile, e
un capitalismo di relazione così impresentabile, forse esistono solo in Italia.
Montepaschi è il paradigma. Una gigantesca mangiatoia, nella quale si sono
nutriti tutti grazie ai buoni uffici del generoso Mussari. La sinistra del
«socialismo bancario e municipale», certo. Da Piero Fassino che con il custode
dei tesori di Rocca Salimbeni sente il bisogno di fare «un po’ il punto
totale», a Franco Ceccuzzi che con il supporto «dell’onorevole Massimo D’Alema»
deve discutere di una non meglio specificata «iniziativa». Da Giuliano Amato
che chiede finanziamenti per il Tennis Club di Orbetello, ai capi della
nomenklatura passata e futura (…). Ma anche la destra del populismo reale. Da
Berlusconi che da grande intestatario dei depositi miliardari in Mps invita
Mussari a cena a Palazzo Grazioli, a Verdini che a Siena tratta le nomine. Dal
pio Gianni Letta che elemosina soldi per il teatro Biondo di Palermo o alla
pitonessa Santanchè che chiede aiuto per il boss delle cliniche Angelucci. La
Cassa di risparmio di Genova è un caso Siena in minore. Qui sono diversi la
dimensione e il contesto, ma la morale non cambia. L’elemosiniere è Giovanni
Berneschi, i beneficiati sono i ricchi manutengoli dell’inner circle
scajoliano. Dal patron del Genoa Enrico Preziosi, all’europarlamentare Vito
Bonsignore, fino ad arrivare agli armatori Alcide Rosina e Giuseppe Rasero.
Gente che prende fidi e non li rimborsa, in una banca che accumula una montagna
insostenibile di crediti incagliati o inesigibili. Così vanno le banche, in
questa sciagurata parte di mondo. Una vergogna nazionale, che chiama in causa
veramente tutti. Non solo le persone, ma anche le istituzioni. A partire dalla
Vigilanza di Via Nazionale. Non possiamo scoprire sempre a babbo morto che,
mentre i clienti normali tiravano la cinghia e le imprese tiravano le cuoia,
lor signori «avevano una banca». Come può il “pover’uomo” alla Hans
Fallada intravvedere la “ripresa”? Ché, se anche ci fosse,
non renderebbe questo disastrato paese concorrenziale sulla scena economica
della globalizzazione, tanto sono le furberie, i misfatti, in basso ed in alto,
a destra ed a manca, con interi territori in mano alla delinquenza più smaccata
ove si taglieggiano imprenditori ed istituzioni. In queste condizioni una “ripresa”
che sia vera e duratura è solamente uno specchietto per le allodole, ovvero per
i gonzi ed i creduloni corresponsabili d’un simile disastro. Ha scritto Tito
Boeri – la Repubblica del 16 di settembre -: Ed è bene non farsi illusioni sul
cambiamento di rotta dopo le elezioni tedesche. La campagna elettorale in
Germania ha mostrato un'opinione pubblica che ritiene che si sia fatto fin
troppo per aiutare i paesi del Sud Europa. E Angela Merkel non sembra affatto
avere un'agenda da leader dell'Unione. “E adesso pover’uomo?”. Amen.
giovedì 19 settembre 2013
Eventi. 12 “Fratelli Caruso fotografi”.
Ha lasciato scritto Norberto
Bobbio nella Sua “Autobiografia”: E il
passato rivive nella memoria. Il grande patrimonio (…) è nel mondo meraviglioso
della memoria, fonte inesauribile di riflessioni su noi stessi, sull’universo
in cui siamo vissuti, sulle persone e gli eventi che lungo la via hanno
attratto la nostra attenzione. C’è tutto quel “mondo meraviglioso della memoria”
e tant’altro ancora nell’amorevole, appassionata, paziente “ricerca”
delle radici individuali e familiari nonché di una comunità nel pregevole
lavoro di documentazione fotografica “Fratelli Caruso fotografi” curato
da “Rosellina” Caruso e da “Pippo” Librizzi e presentato nei tre volumi
indivisibili “Dal fotografo”, “Gli eventi” e “La vita” – editi da
Davision (2013), € 30 – che concorrono a ricreare per l’appunto la “magia”
propria della “memoria” quasi come una moderna, contemporanea “ricerca”
proustiana condotta con altri mezzi. È che andando per le immagini del
pregevole lavoro la “memoria” riemerge quasi d’incanto spaziando dalla fisicità
propria delle persone, divenute personaggi d’una rappresentazione senza tempo, in
quello che è stato l’”atelier” dei “Fratelli Caruso”, alle
immagini della vita comunitaria che pare tornare a riprendere magicamente forme
e passioni, incontri e sguardi tanto nelle liete, festose ricorrenze
documentate quanto nelle circostanze di dolore individuale che, nella comunanza
del vivere, diviene dolore collettivo. E l’incanto ed il lirismo delle
immagini, che sono propri come nell’opera del grande parigino, prorompono
inarrestabili scorrendo il volume dedicato alla “vita” laddove
scolaresche di un tempo che è stato, cerimonie religiose o laiche sembrano
rendere esse la “vita” allo sfondo immobile del paesaggio che diviene e si
trasforma quasi in un palcoscenico nuovamente e d’improvviso animato, adagiato
com’è sugli ultimi bassi contrafforti dei Nebrodi boscosi che, in questo luogo
di “memoria”,
sembra vogliano quasi congiungersi od immergersi nel mare che ha, in queste giornate di settembre, il
colore di un dolce turchese, quel colore che l’autunno immancabilmente regala in
questi luoghi alla prospiciente distesa marina, a quello che è stato per lungo,
immemorabile tempo – un quarantennio almeno - il luogo nel quale quegli
infaticabili, creativi “Fratelli Caruso” hanno mirabilmente
operato per lasciare testimonianze di persone, di eventi nonché di vita. Sarà
stata la scelta felice del luogo di presentazione del lavoro, in quella che è
tutt’oggi la piazza “Duca degli Abruzzi”, con ai suoi lati le arboree fitte colonne
ed a chiuderla la pacifica “maestosità” del cosiddetto “Monte”, per come
amabilmente viene denominata la modesta altura che accoglie resti di un maniero
antico diroccato ed un santuario di preghiera e di costante devozione, sarà
stata dicevo quella “scelta felice” ché è parso come di risentire, per il
tramite degli intervenuti alla presentazione, le voci di quel tempo lontano,
gli odori forti degli aranci selvatici che numerosi sopravvivono nelle vie
circostanti la piazza del piccolo centro urbano, i rumori ed i suoni di quelle
che sono state le attività di lavoro, di vita e di svago di una intera comunità
che, attraverso il pregevole lavoro di “Rosellina” Caruso e di “Pippo” Librizzi
proverà a recuperare “memoria” ed un senso più compiuto
della propria esistenza. Scriveva ancora quel grande “Maestro” che è stato
Norberto Bobbio a proposito della “memoria” che è “vita” dei singoli e
delle comunità: Meraviglioso, questo mondo, per la quantità e la varietà insospettabile
e incalcolabile delle cose che ci sono dentro: immagini di volti scomparsi da
tempo, di luoghi visitati in anni lontani e non mai più riveduti, personaggi di
romanzi letti quando eravamo adolescenti, frammenti di poesie imparate a
memoria a scuola e mai più dimenticate; e quante scene di film e di
palcoscenico e quanti volti di attori e attrici dimenticati da chi sa quanto
tempo ma sempre pronti a ricomparire nel momento in cui ti viene il desiderio
di rivederli e quando li rivedi provi la stessa emozione della prima volta; e
quanti motivi di canzonette, arie di opere, brani di sonate e di concerti, che
ricanti dentro di te (…). È il riandare alle immagini di un tempo che è
stato, è il ricantare “dentro” di ciascuno o, allorquando
è il ricantare di un’intera comunità, il cantare tutti assieme che rende alla
“vita” quel tanto di felicità alla quale aspirano tutte le creature che abbiano
anime nobili e dolci.
martedì 17 settembre 2013
Cronachebarbare. 21 “Aumma aumma”.
Scrive Francesco Merlo sul
quotidiano la Repubblica di oggi - che è il 17 di settembre dell’anno 2013 - col
titolo “I franchi tiratori ad personam”:
È
difficile stabilire se è peggio il voto segreto o il finto voto segreto, se è
meno dignitoso vergognarsi delle proprie scelte o fotografarsi il dito indice
per provare la propria appartenenza come vorrebbero il grillino Claudio Messora
e il senatore del Pd Miguel Gotor. Il voto segreto è un abominio perché i
nascondigli non proteggono la moralità ma l’immoralità. Ecco il punto
dirimente tra ciò che è solamente una parvenza di democrazia e la democrazia in
quanto tale. Per quanto essa – la
democrazia - sia il sistema meno perfetto che si sia potuto immaginare e
creare. Io non riesco a pensare cosa ne pensiate Voi del voto segreto. Che sia
una sconcezza è fuori di ogni dubbio. Ma ci sono i regolamenti da rispettare. E
quello del Senato ammicca, anzi impone, la segretezza quando trattasi di
questioni delle persone. Quale alta sensibilità ne traspare da quel consesso!
Una sensibilità di “casta”. Come volevasi dimostrare! È che tra affiliati ed
affratellati i riguardi non mancano. Ma, suvvia, alla fine è solo un
regolamento! Che è cosa ben diversa, da una legge dello Stato! E se una legge
dello Stato andava bene sino a pochi giorni addietro come è possibile
insinuarne la non validità costituzionale per il solo fatto che a doverne
subire le conseguenze è un certo signor B? È quella sensibilità di “casta”
che, come un imperativo categorico, scatta all’improvviso per stringere attorno
all’accusato – o condannato - di delinquere quella solidarietà da paese della “quasità”.
Ed allora cosa volete che sia un regolamento: un “quasi” nulla. Che all’occorrenza
lo si cambi pure! Se serve alla “casta”. E pensate un po’ cosa
escogita quel tale Miguel Gotor – della mia irriconoscibile parte politica - affinché
non si verifichino incresciosi episodi di lealtà castale. Ne ha scritto da par
suo Marco Travaglio su “il Fatto quotidiano” di oggi col titolo “Aumma aumma”: (…). …preparano trucchetti da
magliari, come quello suggerito da Miguel Gotor, già geniale spin doctor di
Bersani: “I 108 senatori Pd infilino nella buca solo l’indice della mano
sinistra, così è fisicamente impossibile un voto diverso dal Sì. Ci mettiamo
d’accordo con alcuni fotografi che riprendono la scena, postiamo tutto sui
social network ed evitiamo guai”. Cos’è, uno scherzo? Per legge i cittadini,
quando vanno a votare, devono consegnare i cellulari prima di entrare in cabina
per non rendere il voto riconoscibile: e chi ha fatto questa legge la viola
spudoratamente perché non si fida neppure di se stesso? Ma che partito è quello
che non riesce neppure a garantire la decadenza, imposta dalla legge, di un
condannato per frode fiscale? Questo dovrebbero chiedersi gli elettori che
affollano le feste del Pd e sognano a buon diritto rappresentanti migliori.
Anziché rallegrarsi per la presunta “trasparenza” mostrata dal partito con la
richiesta di voto palese, dovrebbero inchiodare i leader con una semplice
domanda: ma che gente ci avete fatto votare alle primarie? Possibile che,
invertendo i criteri di selezione delle candidature, il prodotto non cambi? C’è
un virus nell’aria delle aule parlamentari che corrompe tutto e tutti, o c’è
qualcosa che ancora non sappiamo? È l’aria mefitica che si respira in
tutte le contrade del bel paese e che appesta tutto, istituzioni in basso ed in
alto, eletti ed elettori che con il loro disinvolto disimpegno hanno permesso e
continuano a permettere le sconcezze dell’oggi, così come hanno permesso le
sconcezze del passato. È solamente con un’assunzione collettiva di
responsabilità che potremmo invertire la deriva della democrazia malata di
questo paese. Difficile da realizzare. Continua Francesco Merlo nel “pezzo” di
oggi: È (…) allarmante l’idea di rendere inefficace il nascondiglio con un
trucco, di marchiare ed esibire la fedeltà con una foto che diventerebbe lo
scontrino della propria onestà, la ricevuta fiscale della propria lealtà. Né si
può cambiare in corso d’opera il regolamento e bloccare il voto segreto
mettendosi in questo modo dalla parte del torto. Non so se è vero che le
pattuglie dei franchi tiratori del centrosinistra stanno organizzando i loro
agguati né se è vero, come si dice, che commando di grillini sono pronti a
votare di nascosto contro la decadenza di Berlusconi per poi addossare quei
voti all’odiato Pd, con un doppio gioco indecente. Il senatore Casson assicura
infatti che «noi del Pd siamo tutti d’accordo» ma i grillini reagiscono con sdegno
all’infamia di queste accuse. È probabile che siano trasversali sia
l’irritazione sia le cattive intenzioni. E non si tratta soltanto di
ridicolaggini stizzite, come appunto infilare solo l’indice della mano sinistra
nella feritoia del voto perché con quel dito non si potrebbe raggiungere il
pulsante “contro” (sarà vero?). Ma si tratta di impulsi, scusate la parolona,
alla fine liberticidi. Perché così, con il voto di nascosto, con il franco
tiratore autentico e quello falso, con il trucco della prova-verità che può
diventare doppio trucco – il “barba trucco” si chiamava nel gergo dei fumetti –
, con il vero traditore che dà del traditore al tradito…, insomma in questo
clima grottesco di sospetti si impastano solo le ribalderie. (…). …i segreti
custodiscono gli atti indecenti e non quelli decenti, tutelano la volgarità e
non l’eleganza. Il voto segreto nel Parlamento italiano non ha mai liberato le
coscienze ma ha sempre alimentato transazioni d’affari ed è dunque probabile
che, anche questa volta, se il Senato davvero si dovesse pronunziare sulla
decadenza di Berlusconi, alimenterebbe baratti e compravendite e non certo la
moralità. (…). Ripetiamolo: il voto segreto è un abominio. Ma è troppo tardi
per modificare il regolamento del Senato. Cambiarlo proprio adesso, come
pretende Grillo, e dunque impedire il ricorso a questo stramaledetto
nascondiglio voluto dal Pdl (basta la richiesta firmata da venti senatori)
sarebbe un altro abominio. Un provvedimento contra personam non può mai essere
né leale né giusto, e meno che mai per colpire, con un contrappasso, il re
delle leggi ad personam. Il miracolo realizzato dal “berlusconismo” nel
quasi ventennale suo operare è proprio questo: aver trasformato il paese che
era il paese del “diritto” nel paese della “quasità” – termine caro assai
all’arguto Francesco Merlo – ove è possibile cambiare un “regolamento” – che
vuoi che sia un regolamento – ma qualsivoglia legge all’occorrenza, e
l’occorrenza sta sempre dalla parte di quelli della “casta”. Non per
ripetermi, ma fu il “compagno Giorgio” a dire che la legge italiana era stata “severa”
con il latitante di Hammamet. Il “compagno Giorgio”, divenuto nel
frattempo il custode della Costituzione e che presiede il Consiglio Superiore
della Magistratura. Che ha definito “severa” una legge dello Stato che,
per gli stessi reati del latitante di Hammamet, ha comminato sentenze e pene
agli altri cittadini del bel paese non appartenenti alla “casta”. La legge “non è
uguale per tutti”. Lo si sapeva da tempo, ma con un po’ di pudore ed in altri
contesti non si contribuiva a rafforzarne la convinzione agli esclusi dalla “casta”.
giovedì 12 settembre 2013
Quellichelasinistra. 1 "La lotta di classe c'è ancora".
“Quellichelasinistra” può
essere uno dei tanti modi di dire. Si sarebbe potuto anche dire “quelli a
sinistra”. Mi è parso che avrebbe avuto tanto della “prossemica” ovvero di
quella moderna disciplina che afferisce al campo della semiologia e che si
prende cura di studiare gesti sì, il comportamento pure, lo spazio anche ma che
focalizza la propria indagine sulle distanze e sulla occupazione degli spazi al
momento di quell’atto tipicamente e sommamente umano che è la comunicazione che
sia verbale o non verbale. “Quellichelasinistra” per l’appunto
sono quelli che non gradiscono una visione riduttiva del proprio stato, del
proprio essere. Che è come dire “quelli a sinistra” così come “quelli a
destra”. Che dietro l’essere tra “quelli a sinistra” spesso vi è il vuoto più
assoluto. Così come si sarebbe potuto dire “quelli di sinistra”. Ma chi sono
poi “quelli di sinistra”? Domanda terribile, oziosa forse, che esige risposte
precise. Impossibile da trovare. Ed allora “quellichelasinistra” per l’appunto.
Che la cosiddetta “sinistra” la possono tenere nel cuore o nella mente. Dipende
dai punti di vista. Ma superano i limiti di “quelli a” e di “quelli di”. Di “quellichelasinistra”
ne ha incontrati l’amico carissimo il “compagno” Giovanni Torres La
Torre. Giovanni Torres La Torre è un pittore, è uno scrittore, è un poeta. Ho
avuto modo di proporre tante creazioni del Suo genio artistico. Me ne parla, di
“quellichelasinistra”,
al tavolino del “Fellini café” in quel di Capo d’Orlando, mentre un caffè
fumante ed odoroso assai spande i suoi effluvi per tutto d’intorno. Ha memoria
cara ed anche struggente di un tempo vissuto nel paese natio su per i Nebrodi
boscosi e di tutti quelli che oggigiorno potrebbero sentirsi pienamente tra “quellichelasinistra”.
Ed in particolare ha memoria cara di un manovale di quei luoghi,
analfabeta, che nella frequentazione del “Salone” – l’opificio del barbiere
di quel tempo - del paese natio trovava modo di dare concretezza alla sua appartenenza
a “quellichelasinistra”
commissionando al giovanissimo Giovanni l’acquisto del quotidiano
l’Unità con il conseguente impegno che quel giovanissimo di allora lo leggesse
per tutti coloro che ne avessero interesse e bisogno. Era il desiderio di quel manovale
analfabeta di esercitare la sua militanza e la sua formazione politica. Ricorda
con affetto Giovanni Torres La Torre la ricompensa che gliene derivava: una,
una sigaretta “Nazionale senza filtro”, che segnava il passaggio alla età
maggiore del giovanissimo Giovanni. Ha chiesto Michele Smargiassi
nell’intervista a Mario Tronti – sul quotidiano la Repubblica del 5 di
settembre, "La lotta di classe c'è
ancora" -: Ha mai detto di se stesso "sono un uomo di sinistra"?
Qualcosa mi fa supporre di no... "Ha indovinato. Non lo direi mai, mi
sembra banale. Penso che "sinistra" sia qualcosa di cui c'è necessità
forse più che in passato, per quel che ha significato e può significare ancora.
Ma vede, io sono un teorico della forza e non posso non vedere la debolezza
della parola". Ecco il punto: la debolezza delle “parole”, il loro
snaturamento, quel dire e quel non dire, quel non riuscire a stabilire nessi e
contenuti certi. Ecco l’incertezza di e per “quelli a” o di “quelli di”.
Fermiamoci allora a “quellichelasinistra”. Chiede Michele Smargiassi a
Mario Tronti: È sopravvissuta a parole che sembravano eterne, una sua forza l'avrà
pure... "Sì, quella che dovrebbe avere. Metodologicamente sono contrario
ad abbandonare una definizione vecchia prima di trovarne una nuova che la
sostituisca. Mantengo questa, allora, consapevole dei limiti, perché per adesso
non ne ho un'altra. La vado cercando".
Ipotesi? "(…). Ecco, la
sinistra dovrebbe coltivare qualcosa che va al di là del presente, ricostruire
una narrazione, ma io preferisco dire visione, di quel che può esistere dopo la
forma sociale e politica del mondo che abbiamo".
Non è sempre stata questo? Un
movimento che "abolisce lo stato di cose presente"? "A questo si
erano dati nomi più forti, socialismo, comunismo, e più efficaci, perché
dicevano immediatamente anche all'uomo più semplice che si andava verso
qualcosa al di là dell'orizzonte".
Mentre sinistra è uno "stato
in luogo"? "Di certo non ha la stessa capacità di evocazione, serve
magari a criticare il presente ma non contiene il futuro. È rimasta in campo,
ma non è riuscita a creare quella grande appartenenza umana, antropologica, che
le vecchie parole suggerivano. Forse "sinistra" riflette proprio
questo passaggio dalla prospettiva all'autodifesa, dal movimento alla
trincea". Ecco la necessità di superare uno o lo "stato
in luogo”, d’essere compiutamente solamente “quellichelasinistra”. E
basta.
Ma si diventa di sinistra? O ci
si nasce? "Ognuno ha la propria risposta. Non amo parlare di me, ma posso
dirle che nel mio caso è stato quasi un fatto naturale, da giovanissimo,
diventare comunista. Perché quella è stata la mia parola, subito. Ha contato
molto l'estrazione popolare della mia famiglia, mio padre comunista col quadro
di Stalin sopra il letto, mi sono immesso in quell'orizzonte in modo naturale,
ovviamente da lì è partito un percorso lungo e critico...".
(…). Lei ha scritto anche: basta
con gli aggettivi, torniamo ai sostantivi. Cosa voleva dire? "La parola
sinistra è stata aggettivata tantissimo. Questo capita alle parole deboli. La
differenza tra socialismo e comunismo è che il primo a un certo punto sentì il
bisogno di aggiungere "democratico". Il comunismo non lo fece mai.
Non so se sia stato un bene o un male, forse è stata una delle cause del suo
fallimento".
Ma quale strada porta all'oltre?
Fare qualcosa di sinistra oggi sembra ridursi a una deontologia civica di
onestà, rispetto... "Da un po' di tempo dico che si è aperta nel mondo
contemporaneo una grande questione antropologica: il senso dell'essere qui, in
un mondo allargato e transitorio, in questo disagio di civiltà che non è solo
politico e sociale o economico. Come essere donne e uomini in questo mondo? La
domanda vera è questa. Rispondo così: è importante avere un punto di vista,
partire da una posizione. Che può essere soltanto parziale. In una società
profondamente divisa non è possibile essere d'accordo con tutti. Certo una
volta era più semplice, le parti erano chiare e distinte, erano le classi. La
parte ora te la devi andare a cercare".
E come si riconosce? "Per
essere riconoscibile come parte, la sinistra dovrebbe dire una cosa
semplicissima: siamo gli eredi della lunga storia del movimento operaio. Lunga
storia, ho detto. Abusivamente ridotta a pochi decenni, quelli del socialismo realizzato,
mentre viene dalla rivoluzione industriale, si diversifica nell'Ottocento
grande laboratorio, affronta nel Novecento la sfida della rivoluzione...".
(…). Cosa resta di quella storia?
"Una parzialità. La parte del popolo attorno a un concetto che non è sparito
con la fine del movimento operaio: il lavoro. Una sinistra del futuro non può
che essere la sinistra del lavoro come è oggi, complicato frantumato in figure
anche contraddittorie, il dipendente l'autonomo il precario, il lavoro di
conoscenza, quello immateriale... La sinistra dovrebbe unificare questo
multiverso in un'opzione politica. Ma essendo anche un teorico del pessimismo
antropologico, la vedo difficile".
(…). Può spiegare meglio?
"La cosiddetta sinistra dei diritti, maggioritaria oggi. Quella che si
limita a difendere un certo elenco di diritti civili, presentandoli come valori
generali. Finisce per essere un intellettualismo di massa, un consolatorio
scambio al ribasso. Basta qualche battaglia contro l'immoralità e ti senti a
posto dentro questa società".
La rivolta contro la
"casta" sembra verbalmente forte e gratificante. "La famosa
antipolitica... La sinistra non ha messo a fuoco il pericolo vero, la sua
violenza, il suo obiettivo vero, che è deviare lo scontento popolare su una
base che per il potere è sicura perché non minaccia davvero le basi della
diseguaglianza. Se non trovi lavoro è perché i ministri hanno le auto
blu?".
Un'arma di distrazione di massa?
"Un disorientamento politico di massa. Le grandi classi non ci sono più,
il conflitto frontale non c'è più, i grandi partiti neppure, ma la lotta di
classe c'è ancora. Di questo mi permetto di essere ancora sicuro".
Uno che sarebbe stato bene, anzi benissimo, oggigiorno, tra “quellichelasinistra”
scriveva al figlioletto Dante in un’ultima lettera: "...possono bruciare i
nostri corpi, non possono distruggere le nostre idee. Esse rimangono per i
giovani del futuro, per i giovani come te. Ricorda, figlio mio, la felicità dei
giochi... non tenerla tutta per te... Cerca di comprendere con umiltà il
prossimo, aiuta il debole, aiuta quelli che piangono, aiuta il perseguitato,
l'oppresso: loro sono i tuoi migliori amici". Era un ciabattino.
Si chiamava Nicola Sacco.
lunedì 9 settembre 2013
Lavitadeglialtri. 7 Sostiene Francesco, che è vescovo di Roma.
Sostiene Francesco, che è vescovo
di Roma, dell’insostenibilità della “globalizzazione dell’indifferenza”
nel mondo cosiddetto progredito e cristianizzato. Sostiene Francesco, che è
vescovo di Roma, che è il dominio del denaro a dettare i tempi ed i modi delle
guerre. Lo è stato da sempre. Anche allorquando i predecessori di Francesco,
che è vescovo di Roma, benedicevano le navi in partenza oltre gli oceani
sconosciuti per quell’opera di evangelizzazione e di morte che ha segnato la
vita e la storia del mondo che è detto cristianizzato. Ha scritto il professor
Umberto Galimberti sul settimanale “D” del quotidiano la Repubblica dell’8 di
settembre dell’anno 2012 – “Il razzismo?
Una brutta storia” -: (…). …abbiamo limitato il concetto di
"prossimo" a quelli che sono come noi, che condividono gli stessi usi
e costumi, che hanno una faccia bianca rassicurante, che parlano la nostra
lingua, che hanno sufficienti risorse economiche per non chiederci niente, e
soprattutto che non ci importunano sulla strada se non per un distratto buon
giorno o buona sera. Questo è l'ambito entro il quale abbiamo circoscritto la
nozione di "prossimo". Al di là di questo artificioso “prossimo
tuo” vi è l’indifferenza tanto condannata da Francesco che è vescovo di
Roma. Poiché anche i morti ammazzati per le contrade della Siria sono dovuti
all’ingordigia del denaro e di quant’altro afferisca alla parte del mondo che
soggioga tutto ciò che non rientri in quella sua aberrante “nozione di prossimo". In
una dotta analisi della situazione in quell’angolo d’Oriente Gilles Kepel ha
scritto – sul quotidiano la Repubblica del 2 di settembre, “Dietro il caos in Siria l’ombra dell’Iraq e i regni dell’oro nero”
-: Le
rivoluzioni arabe sono in primo luogo il prodotto della decomposizione di un
sistema politico concepito per resistere alla paura della proliferazione
terroristica dopo la «doppia razzia benedetta su New York e Washington»
perpetrata da Bin Laden e dai suoi accoliti. Contro Al Qaeda, avevamo eretto un
baluardo di regimi autoritari e corrotti, ma dotati di servizi di sicurezza
efficienti. L’esigenza della democrazia era stata sacrificata sull’altare della
dittatura, ma Ben Ali, Mubarak, Gheddafi e altri come Ali Saleh, non sono stati
altro che dei despoti patetici che hanno cristallizzato contro se stessi il
malcontento popolare, portando a delle rivoluzioni che sono dilagate da Tunisi
al Cairo e da Bengasi a Sana’a nella primavera del 2011. (…). Le «primavere
arabe» sono state accolte con benevolenza in Occidente, ma hanno comunicato
un’ondata di panico nella spina dorsale delle monarchie petrolifere del Golfo.
La prospettiva di un «contagio democratico » ha terrorizzato queste dinastie i
cui membri monopolizzano i proventi del petrolio e del gas. Il pericolo toccava
ormai la penisola arabica stessa, mentre la comunità internazionale guardava da
un’altra parte lasciando prevalere gli idrocarburi in pericolo sui diritti
umani a rischio. (…). È in questo contesto che si è sviluppata la rivoluzione
siriana. All’inizio, aveva lo stesso profilo che in Tunisia o in Egitto: una
gioventù istruita si metteva a capo delle rivendicazioni democratiche contro un
potere autoritario. Ma l’intensità della repressione e la sua trasformazione
graduale in guerra civile a carattere confessionale ha impedito il sollevamento
delle forze armate contro il presidente. Il finanziamento in petrodollari e la
distribuzione di armi provenienti dai Paesi del Golfo — uniti per sostenere i
sunniti che avrebbero scardinato l’asse sciita se Damasco fosse caduta — ha
cambiato la situazione sul terreno, favorendo la penetrazione militare dei
gruppi islamisti e rendendo più difficile il sostegno alle forze democratiche
della resistenza. La Siria diventa dunque l’epicentro dello scontro tra l’asse
sciita e i suoi avversari sunniti, ostaggio di una guerra per procura fatta
prima di tutto per controllare gli idrocarburi del Golfo. La vittoria di Assad
rafforzerebbe Teheran e, dietro all’Iran, la Russia, messa da parte in Medio
Oriente. (…). Ricevo dall’amico Giovanni Torres La Torre, che è
scrittore e pittore di vaglia, l’ode “Per
i bambini trucidati in Siria. Morte a Damasco” che volentieri di seguito posto.
Sotto calcinacci
restano sepolti nell’abbraccio
i bambini e le madri
nella notte della loro morte.
Il giorno dopo
gente che va e gente che viene
per strade affollate dalle
macerie
e altre madri che urlano il loro
dolore
maledicendo la guerra
e la sete e il pianto che
torturano la voce.
Quando si coprono con lenzuoli
i corpicini stesi sui marciapiedi
coi loro volti sbiancati dal
veleno,
cosa fa la luna annerita nel
cielo
che pure sa orientare il tempo
degli innesti
del parto e della semina dei
frumenti?
La luna è sempre là,
calante e crescente
illumina come meglio può
sepolcri e serenate d’amore,
il volto degli innocenti
e la maschera dei loro assassini,
le tombe dei santi e le cupole
dei paesi dimenticati,
i tetti di lamiera e le ricchezze
del mondo.
Non c’è scampo, il disco di luce
di pietra
indica la strada
a padri e madri e fanciulli
scalzi
che non lasciano orme.
II
L’alfabeto degli antenati e il
gioco dei numeri
riposano nelle acque dell’Eufrate
e del Mare Mediterraneo
con le ossa di naviganti e di
fuggiaschi.
Altre pietre, tavolette e poemi
dell’antica civiltà
sfidano il tempo
con la voce della poesia del
deserto
canto che fu ammirato nella nenia
che risuona ancora nello
smarrimento.
Non brillano più i cuori
e i giorni dei bambini sono
privati dal loro splendore
perché la guerra distrugge la
bellezza della scrittura,
e il volto delle figure di
argilla e pietra
si insanguina nella bocca dei
morenti.
Non ci sono più gemme alle fronde
dei giorni
né vesti di primavera
né belati di armenti.
Occhi di perle bagnate di rugiada
non scrutano più l’orizzonte,
e non cercano più miracolosi
prati le carcasse degli armenti.
III
Sulle fosse delle vittime non
cresce l’erba
e non ci sono fiori a portata di
mano.
La luna amica della gente
illumina la strada di un’antica
preghiera
che una donna ha ancora voce di
cantare
stringendo alle ossa del suo
petto
un gomitolo di stracci,
sudario del figlio morente.
Capo d’Orlando, agosto-settembre
2013
domenica 8 settembre 2013
Eventi. 11 Lettera di Vittorio Sermonti al Presidente Napolitano.
Oggi è l’8 di settembre. Ci sono
date, nella storia dei popoli, che documentano, più di tantissimi altri
“strumenti” d’osservazione e d’analisi, la storia più o meno virtuosa e la vita
più o meno operosa delle comunità umane. E l’8 di settembre dell’anno 1943 è
una di quelle date che suggellano il carattere proprio di un paese. Oggi è un
altro 8 di settembre. Non ci sono uomini in fuga dalle loro responsabilità,
carriaggi in viaggio verso altri luoghi di salvezza; quest’8 di settembre – che
precede i giorni che segneranno la vita sociale e politica del bel paese - ci
si augura che non sia a divenire una nuova data d’infausta memoria. Ricorda
Giovanni Valentini sul quotidiano la Repubblica di ieri 7 di settembre – “Ma il voto popolare non cancella i reati”
- : È
(…) questa mentalità collettiva – o “senso comune”, indotto dall’imbonimento
della televisione commerciale – che può contribuire a spiegare il deficit di
indignazione, la carenza di una larga disapprovazione pubblica nei confronti
degli atti illeciti di Berlusconi. Il processo di identificazione reciproca tra
il leader e il suo popolo è arrivato al punto da ipnotizzare o narcotizzare il
pubblico dei teledipendenti. Lui stesso ha incarnato così un “modello di
comportamento” in negativo, trasferendolo dalla sfera degli affari a quella
della politica. Se manca l’indignazione pubblica, manca di conseguenza
l’indegnità personale. Quella consapevolezza, cioè, che avrebbe già dovuto
indurre Berlusconi a dimettersi da senatore, dopo la condanna a quattro anni di
reclusione e cinque di interdizione dai pubblici uffici. Non si scopre oggi,
del resto, che l’opinione pubblica italiana, per una serie di ragioni storiche
e culturali, difetta di quell’etica civile che in altri Paesi è stata ispirata
soprattutto dalla riforma protestante. Altro che contenzioso giuridico, dunque,
sulla retroattività o irretroattività della legge Severino. La decadenza è, in
pratica, una conseguenza automatica della sentenza emessa dalla Corte di
Cassazione. Al pari dell’incandidabilità, non può che scattare ex nunc, come
dicono i giuristi, nel momento stesso in cui il parlamentare diventa un
pregiudicato. E infatti, è una pena accessoria che si aggiunge a quella
principale della reclusione, come una sanzione amministrativa, in analogia con
gli effetti civili di una sentenza penale. Se un reo non può entrare in
Parlamento, evidentemente deve uscirne appena si accerta in via definitiva la
sua colpevolezza. È in questo quadro di avvilente sociologica realtà
che Vittorio Sermonti - scrittore, traduttore di teatro e di poesia, celeberrimo
lettore del sommo Poeta – ha inteso intervenire con una lettera aperta al
Presidente della Repubblica – sul quotidiano la Repubblica – affinché un nuovo
8 di settembre non abbia a segnare l’indecorosa storia politica del tempo che
ci è dato di vivere.
Caro Presidente ma che cosa sta
succedendo in Italia? Possibile mai che a un cittadino della Repubblica sia
permesso (come è stato permesso ai primi di agosto) di additare con le lacrime
agli occhi allo scherno di un migliaio o due di cittadini adoranti che
brandiscono bandieroni stampati in serie e cartelli girati all’indietro per
essere ripresi dalle telecamere, i giudici della Corte di Cassazione, colpevoli
di averlo condannato per frode fiscale?Possibile che gli sia consentito (come
gli è stato consentito) di ridicolizzare magistrati del più alto ordine
giudiziario come «impiegati che hanno fatto un compitino vincendo un concorso»,
lui unto dal popolo, cioè presidente-padrone di un partito che ha riscosso
parecchi consensi, comunque meno di un quarto del corpo elettorale, e che
personalmente è disprezzato da quasi tutti gli altri elettori, e irriso nel
resto d’Europa e del mondo? Possibile che quella bella manifestazione di
strada, diffusa in diretta tv, e introdotta dall’inno nazionale, si sia
insediata protervamente al centro dell’informazione televisiva e della vita
politica e civile della nazione da settimane e settimane? E che le parole del cittadino
con le lacrime agli occhi siano poi state citate impunemente dal suo staff a
esempio di responsabilità istituzionale e di moderazione politica? E che Lei,
signor Presidente, davanti alla nazione che la Sua persona ha onorato nel mondo
con tanta fermezza e tanto equilibrio sia scandalosamente convocato ogni giorno
che passa a tamponare una ininterrotta serie di ricatti per evitare il collasso
dell’esecutivo, mentre il Paese intero arranca per sopravvivere e il
Mediterraneo è spazzato da venti di guerra? Presidente, mio Presidente, Lei sa
molto meglio di me come una comunità tessuta di parole che non hanno più peso
né senso perché ogni affermazione vale la sua smentita, e in cui l’iniquità si
perfeziona nel cavillo, non è un Paese decente, certo non è un Paese per
giovani. Una accettabile stabilità di governo in una fase di estrema labilità
economica e di grande turbamento sociale entro un quadro internazionale
minacciosissimo va accanitamente difesa (chi non se ne rende conto?): ma forse
non a qualsiasi prezzo. E se il prezzo è l’ossatura morale del Paese, l’onore
della sua lingua, cioè della sua identità profonda, la povera faccia di
ciascuno di noi, io penso disperatamente che quel prezzo non vada pagato. La
politica svolga il suo compito; le istituzioni, il loro. Ma è arrivato il
momento che ogni singolo cittadino – in democrazia il solo soggetto che dia
corpo e legittimità alla maggioranza e, in casi estremi, l’unico contrappeso
alla maggioranza – si metta in piazza per dire chiaro che non sopporta più di
vivere ostaggio dell’egolatria eversiva di un frodatore del fisco, e tanto meno
(è un problema di noi vecchi), di morirci.
martedì 3 settembre 2013
Cronachebarbare. 20 Azzeccagarbugli e giureconsulti.
Nel paese della “quasità”,
ove tutto è un “quasi” infinito ed ove non esiste certezza alcuna. Ove tutto, ma
proprio tutto, è divenuto una unica opinabile opinione anche quando opinione
non lo è più. Nel paese della “quasità”, divenuto nel tempo un
immenso campo di Agramante nel quale tutti lottano contro tutti, per finta,
fintantoché non ci sia da salvare anche uno solo degli appartenenti alla
cosiddetta “casta”. Nel paese della “quasità” ove tutti son detti uguali
– o “quasi” – ma c’è pur sempre uno che sia più uguale degli altri, al pari dei
maiali di orwelliana memoria presso i quali qualcuno era sempre più maiale
degli altri. Ebbene, nel paese della “quasità” esistono e girano liberi
azzeccagarbugli di chiara e rinomata fama che amorevolmente soccorrono con la “quasità”
della loro giurisprudenza il condannato di Arcore. Della quale loro “quasità”
ne rende contezza Marco Travaglio su “il Fatto Quotidiano” del trentuno di
agosto col titolo “L’arma segreta”: Intanto
c’è da preparare il ricorso alla Corte di Strasburgo per i diritti dell’uomo,
annunciato l’altro giorno alla giunta del Senato con una lettera a sua (dell’egoarca
di Arcore n.d.r.) firma che citava i “sensi
dell’art. 7 della legge 4/08/1955 N. 848”. Purtroppo, come ha scoperto Marco
Bresolin su La Stampa, la suddetta legge ha solo due articoli, dunque
l’esistenza di un “art. 7”
è altamente improbabile, anche nel diritto creativo seguito dagli onorevoli
avvocati e dai principi del foro che assistono il Cainano. Con quello che li
paga, potrebbero almeno evitargli certe figure barbine. E, già che ci sono,
potrebbero anche spiegargli che la Corte di Strasburgo non è un quarto grado di
giudizio, né il santuario di Lourdes con piscina di acqua miracolosa, dunque
non è in grado di ribaltare le sentenze definitive dei tribunali nazionali: al
massimo potrebbe risarcirlo per il danno inferto dai giudici ai suoi diritti
umani, ma è altamente improbabile che accada. Anche perché poi l’eventuale
danno dovrebbe rifonderlo lo Stato italiano: cioè la vittima delle colossali
frodi fiscali oggetto della sua condanna, che lui deve restituire. Ove
si parla per l’appunto di “diritti” umani per la qualcosa un
giureconsulto di antica data non si esime dal profferir parola dotta. Ma è la “quasità”
del miserevole paese a consentire al “quasi” giureconsulto di librarsi in
pindariche elucubrazioni invocando il rispetto dei “diritti alla difesa” del
condannato di Arcore. Come se fosse possibile, nel paese della “quasità”,
ove tutti sono eguali di fronte alla legge, anzi “quasi” eguali, conculcare i
“diritti” d’un appartenente alla “casta”. Donde il fine giureconsulto,
sottratto provvidenzialmente a suo tempo ai palazzi ove si amministra la
giustizia, invoca il rispetto di quei “diritti alla difesa” che a nessuno,
nel paese della “quasità” – ed è tanto dire - era parso essere stati negati. Ma
al fine - “quasi” - giureconsulto, sottratto per fortunosamente a quegli
austeri palazzi di giustizia per occupare gli scranni di ben diversi e più
sollazzevoli palazzi del potere, non poteva sfuggire l’enorme delitto che
venivasi a compiere nel paese della “quasità”. Donde la sua lacerante
invocazione a ché i “diritti alla difesa” siano riconosciuti ed accordati al
condannato di Arcore. E l’implorazione sua non poteva non suscitare esilaranti
osservazioni sol che si lasciassero le contrade ubertose del paese della “quasità”.
Ché con la penna arguta e graffiante di Curzio Maltese – sul quotidiano la
Repubblica del 2 di settembre, “Chi
crede ai trucchi del Cavaliere” – rivelava al popolo colto ed all’incolto
che “Per
settimane i media sono corsi dietro al bestiario di falchi e colombe e
pitonesse, prima di rendersi conto che era il solito teatrino di cortigiani
dove il padrone passa ogni tanto a distribuire le parti in commedia. La recita
è finita secondo la logica. Il governo va avanti e il Parlamento voterà la
decadenza di Berlusconi da senatore. La guerra o la guerricciola istituzionale
è finita. Peccato che la destra si sia dimenticata di avvisare qualche amico
del Pd. Nessuno per esempio ha avvertito Luciano Violante, che continua a
combattere nella jungla come un soldato giapponese la sua battaglia contro il
nemico che più l’ossessiona: l’antiberlusconismo. Per la verità sono molte le
cose delle quali il senatore sembra rimasto all’oscuro, (…). Il senatore
Violante ha ricordato il diritto alla difesa di Berlusconi contro le tentazioni
del Pd di trasformarlo in un nemico assoluto e ha esortato il proprio partito
ad ascoltare le ragioni dell’avversario. Violante non è stato informato che
Berlusconi oggi non è più il nemico assoluto e tecnicamente neppure un
avversario del Pd, ma il suo principale alleato di governo. Come tale le sue
ragioni sono ascoltate tutti i giorni dal partito di Violante e anzi, secondo
molti elettori del centrosinistra, perfino un po’ troppo. Altra informazione
non pervenuta al senatore è che il processo a Berlusconi si è già celebrato in
questi anni, in cui l’imputato ha potuto largamente usare e anche abusare del
diritto alla difesa dentro e fuori le aule, nel processo e dal processo. Ormai
non rimane, secondo Costituzione, che prendere atto della sentenza definitiva.
Berlusconi non intende farlo, ma ci vuole un bel coraggio per definire un
simile atteggiamento «diritto alla difesa». E già. Ma tutto ciò può
avvenire nel martoriato paese della “quasità”. Ove tutto è una libera
opinione e di una solo certezza non esiste traccia. Soccorre, nella
ricomposizione di un quadro di minime certezze, Liana Milella sul quotidiano la
Repubblica del 30 di agosto col titolo “Gioco
di specchi sugli illeciti”, ove con innegabile abilità traccia il quadro
delle certezze giudiziarie inoppugnabili conseguite riportando nel Suo scritto
i passi essenziali delle motivazioni della Corte di Cassazione. Se non si fosse
nel paese della “quasità” quei passi potrebbero essere come pietre tombali tanto
da seppellire ed interrompere l’inconcludente chiacchiericcio di questa
dannatissima stagione. (…). …ecco cosa si può leggere a pagina 186
del testo sottoscritto dai cinque giudici del collegio: «Le risultanze
processuali dimostrano la pacifica diretta riferibilità a Berlusconi dell'ideazione,
creazione e sviluppo del sistema che consentiva la disponibilità di denaro
separato da Fininvest e occulto, cioè di quel meccanismo delle società facenti
capo a lui». (…). «Mediaset trattava gli acquisti, mediante suoi uomini di
fiducia, direttamente con le Major Usa. Linearità commerciale e fiscale avrebbe
dovuto comportare che quegli acquisti le venissero fatturati. Invece le fatture
che la società usava a fini di dichiarazione fiscale le erano rilasciate da
altro soggetto (la società Ims), all'uopo costituita all'estero. L'importo dei
costi in tali fatture indicato non era commisurato al prezzo d'origine, bensì
enormemente maggiorato in esito ai passaggi intermedi, privi di ragion d'essere
commerciale». La triangolazione è tutta qui. Mediaset da una parte, il socio
americano Frank Agrama dall'altra, i passaggi tra le società con il prezzo che
sale ogni volta. Alla fine della strada c'è la falsa dichiarazione fiscale allo
Stato italiano. Raramente, con parole così semplici ma efficaci, è stata
riassunta la truffa Mediaset. (…). Chi ha inventato, gestito e utilizzato il
«giro dei diritti»? Ovviamente il Cavaliere. Scrive la Cassazione: «I giudici
di merito, con una motivazione solida e coerente, hanno individuato le
caratteristiche del meccanismo riservato, direttamente promanante in origine da
Berlusconi e avente, sin dal principio, valenza strategica per l'intero apparato
dell'impresa che a lui fa capo». I giudici danno atto alla Corte di appello di
Milano di aver ragionato e scritto «con assoluta linearità logica». Soprattutto
quando hanno ricostruito la storia economicamente criminale di Berlusconi. Che,
a questo punto, la Cassazione fa sua e consegna alla definitività della
sentenza quando mette in evidenza «la continuità della gestione dei diritti di
sfruttamento delle opere televisive nella forma dell'acquisizione attraverso
passaggi di intermediazione fittizi, tutti accomunati dall'aumento
considerevole di prezzo lungo il percorso». Prima, durante e dopo c'è sempre il
Cavaliere, checché ne dicano gli avvocati quando cercano di cavarlo d'impaccio.
L'analisi della Cassazione è (…): «L' avvio del sistema in anni di diretto
coinvolgimento gestorio del dominus delle aziende coinvolte - Silvio BERLUSCONI
(volutamente riportato in caratteri maiuscoli, ndr.) - e, poi, l'evoluzione del
medesimo sistema secondo schemi adattati alle modifiche societarie e anche alle
necessità d'immagine esterna». (…). …nell' affaire Mediaset dove «i personaggi
vengono mantenuti sostanzialmente nelle posizioni cruciali anche dopo la
dismissione delle cariche sociali da parte di Berlusconi e sono in continuativo
contatto diretti con lui, di talché la mancanza in capo a Berlusconi di poteri
gestori e di posizione di garanzia nella società non è dato ostativo al
riconoscimento della sua responsabilità». (…). La Cassazione considera del
tutto inverosimile «l'ipotesi alternativa che vorrebbe tratteggiare una sorta
di colossale truffa ordita per anni ai danni di Berlusconi da parte dei
personaggi da lui scelti e mantenuti nel corso degli anni in posizioni
strategiche». (…).
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