Scrive, riprendendo gli studi di
eminentissimi antropologi, il professor Umberto Galimberti sul settimanale “D”
del 18 di maggio 2013 – “Vale meno, la
vita di una donna” -: L'antropologo Claude Lévi-Strauss, in Le strutture
elementari della parentela, ci informa che nel regime degli scambi, oltre a
"le cibarie, gli oggetti fabbricati, rientrava anche la categoria dei beni
più preziosi, ossia le donne". Un altro antropologo, Bronislaw Malinowski
ci informa che nelle isole Trobriand, dove gli abitanti ignorano il contributo
maschile alla procreazione, tutti i figli assomigliano al padre, a cui la madre
ha offerto solo la materia. Questo motivo è ripreso da Aristotele, e qui siamo
già in una cultura notevolmente avanzata, e tuttavia: "La femmina offre
sempre la materia, il maschio la forma. Il corpo ha dunque origine dalla
femmina, l'anima, che è l'essenza del corpo, dal maschio". A questo motivo
non si sottrae neppure il dogma cristiano dell'incarnazione, dove la Madonna
offre la materia, ma suo Figlio, come lui stesso dice, è tutt'uno col Padre:
"Io e il Padre siamo una sola cosa" (Gv, 10, 30)". Ho
ripensato a questo passaggio della riflessione dell’illustre studioso rivedendo
il film “La foresta dei pugnali volanti”
– ieri sera su Rai Movie -. Gli
strani accostamenti della memoria! Il film è dell’anno 2004 a firma di Zhang Yimou.
Adoro il cinema di Zhang Yimou. È un cinema che fa della visione dei colori il
suo punto forte. È un cinema che indugia sulla natura e sull’animo degli umani
che in essa si addentrano come smarriti di fronte alla sua maestosità. Adoro il
cinema di Zhang Yimou che ci conduce in
luoghi ed in tempi tantissimo lontani dalle nostre esperienze di vita. Zhang
Yimou ci rende della Cina lo spirito più nobile e delicato al contempo. Come
per l’appunto nell’opera cinematografica citata. Zhang Yimou ambienta la Sua storia
nella Cina del nono secolo dopo Cristo, regnando la dinastia Tang, in pieno
declino. È quando un consorzio umano volge al suo declino che la corruzione e
le ingiustizie regnano sovrane, come al tempo della storia narrata. La storia
dipana la sua matassa raccontando delle molte sette nate per ribellarsi al
corrotto governo dei Tang, la più famosa delle quali è la setta della “Casa dei
pugnali volanti”. E nella storia di Zhang Yimou intervengono le figure notevoli
di due guardie imperiali, Leo - Andy Lau - e Jin - Takeshi Kaneshiro – ai quali
viene ordinato di catturare il nuovo capo della setta della “Casa dei pugnali
volanti”. Jin si finge amico di una splendida danzatrice, Mei - Zhang Ziyi -, danzatrice
cieca conosciuta in una casa di divertimenti della quale si sospetta
appartenere alla setta dei ribelli. Nella storia non può mancare l’amore. Amore
che, nel viaggio intrapreso per condurla nella foresta che accoglie la setta, scoppia
fulmineo tra il giovane Jin – l’infiltrato del governo corrotto – e la bellissima
Mei. Tutto come da copione. Ma che hanno in comune lo scritto del professor
Galimberti e la storia di Zhang Yimou?
Tanto, tantissimo. Dovuto al terzo incomodo, quel Leo già innamorato pazzamente
della bellissima Mei. Respinto a causa del nuovo amore della tanto amata per
Jin non trova di meglio che ucciderla riconoscendo al contempo l’impossibilità
di impedirle di amare un altro uomo ma ritenendo la sua morte atto necessario
al suo desiderio inappagato. E Mei muore in un paesaggio innevato dalla
scenografia mozza fiato. Un film notevole, per la regia, per la fotografia e
per le magistrali interpretazioni dei tre protagonisti. Si diceva della storia
ambientata nel secolo nono dopo Cristo. Siamo nel ventunesimo secolo. Ne sono
passati di secoli, ma si continua ad uccidere le donne come fa il Leo di Zhang
Yimou, della filmografia del quale ritengo siano da considerarsi imperdibili “Sorgo rosso” (1987) – nel quale Zhang
Yimou è anche attore -, “Lanterne rosse”
(1991), “La storia di Qiu Ju” (1992),
“La locanda della felicità” (2001),
il celeberrimo “Hero” (2002) - che
assieme al successivo “La foresta dei pugnali volanti” entra a far parte della
serie dei cosiddetti film di "wuxia", che letteralmente significa
"cappa e spada"-, “La città
proibita” dell’anno 2007.
Mi auguro d’avere risvegliato la curiosità dei pochi
naufraghi della rete approdati a questo blog per il bravissimo regista Zhang Yimou.
Ed il professor Galimberti? Scrive, dottamente, in quella Sua riflessione: Per i
processi di identificazione dei figli con i genitori, che la psicoanalisi ha
ampiamente spiegato, i maschi acquisiscono come valore la prevaricazione
maschile, e le femmine la sottomissione femminile. Così viene rafforzato un
archetipo antichissimo, che gli antropologi hanno ben descritto come cultura
diffusa in tutto il mondo primitivo, e la filosofia da un lato e la religione
dall'altro, con i loro argomenti e dogmi, hanno rafforzato. Sto parlando
dell'indiscussa superiorità dell'uomo sulla donna e del conseguente potere che
spesso si traduce in violenza. (…). …smontare questo archetipo radicato
nell'inconscio più inconscio del maschio non è cosa facile, e la scuola, oltre
a insegnare giustamente la cultura dei tempi trascorsi, dovrebbe insegnare
anche gli errori di questa stessa cultura, responsabile di tutte le violenze
perpetrate nella storia sulle donne. Ma in una scuola come la nostra dove
fatica a farsi strada l'educazione sessuale, è mai ipotizzabile un'educazione
sulla differenza di genere che faccia comprendere, oltre alle differenze
sessuali, quanta ideologia, quanta prepotenza, quanta violenza sono state
esercitate a partire da questa differenza? Si tratta di un insegnamento che
dovrebbe essere impartito per modificare non solo la mentalità dei maschi ma,
(…), "anche delle donne", perché il potere e la violenza del maschio
non sta solo nell'esercizio della sua forza, ma anche nell'acquiescenza della donna
alla propria subordinazione. Oggi che le donne sono sempre meno acquiescenti,
sembra che debbano pagare un prezzo altissimo per questo loro tentativo di
ribaltare la crudeltà di una cultura che si perde nella notte dei tempi.
È la cronaca amarissima, intrisa del sangue di tante donne innocenti, di uomini
che uccidono donne di questi travagliati nostri giorni.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
venerdì 28 giugno 2013
giovedì 27 giugno 2013
Cronachebarbare. 15 “La Politica in ostaggio”.
Ha scritto Ilvo Diamanti su la
Repubblica del 24 di giugno – “Perché
abbiamo bisogno di politica” -: (…). …viviamo tempi provvisori. Di
passaggio. Verso non si sa dove né cosa. Sicuramente, senza più futuro. Perché
il futuro è stato abolito, dal nostro linguaggio e dalla nostra visione. Finite
le ideologie, che sono narrazioni di lunga durata. Oggi tutto è marketing.
Storie e slogan. Da rinnovare di continuo. Il futuro: se ne sta fuggendo
insieme ai giovani. D`altronde, siamo tutti giovani. Adulti e anziani: non
invecchiano mai. Nessuno accetta lo scorrere del tempo. Così i giovani, quelli
veri, se ne stanno sospesi. Sono una generazione né-né. Né studenti né
lavoratori. (…). È questo senso di “provvisorietà”, di precarietà
personale ma anche sociale, che mi crea da giorni il cosiddetto blocco dello
scrivere. A cosa serve continuare a scrivere su questo blog se la “provvisorietà”,
la precarietà ci hanno come inghiottiti tutti lasciandoci senza futuro, senza
speranza? È da giorni che, come un insetto molesto, questo pensiero mi “ronza”
nella mente. Capisco però che cedere, lasciarsi andare, è come darla vinta a
quella strategia della “distrazione di massa” che ha
portato anche a quello stadio, forse irreversibile, che definisco da tempo di “scarnificazione”
del pensiero collettivo. È quel che è avvenuto. È quello che si voleva che
avvenisse. È contro questa strategia che bisognerebbe mobilitarsi. Lottare. Poiché
la “scarnificazione”
del pensiero, seppur non dichiarata come strategia dell’”antipolitica” al potere,
è da tempo nell’aria, impregna i nostri pensieri ed i nostri difficili giorni.
Ed il primo degli obiettivi di quella strategia è stata la “Politica”, quelle buona,
ovvero l’altra politica invocata. “Scarnificandone” il pensiero
complesso che, nella “Politica”, è sempre complesso. Non ha semplificazione
alcuna. Non ammette scorciatoie. Definendo, per dirla con Diamanti, come “finite
le ideologie, che sono narrazioni di lunga durata” e riducendo la
complessità del pensiero della politica ad un disgustoso “marketing”. E dopo aver
dichiarate morte le ideologie ne veniva di conseguenza che si potessero
dichiarare superate, anacronistiche, morte quelle organizzazioni che nel tempo
hanno dato sostanza al pensiero complesso della politica, i partiti. Ha scritto
Furio Colombo su “il Fatto Quotidiano” del 16 di giugno – “Storie di uno. La politica ostaggio dei singoli” -: Il
capitolo della storia politica italiana su cui sto riflettendo oggi comincia
con Bossi e – al momento – arriva fino a Grillo. (…). Diciamo che questa breve
storia si apre con Berlusconi che “scende” in un campo che inventa lui, e nella
sua saga one man si trascina dietro vari modelli di partito e pattuglie
intercambiabili di personale dipendente, attraverso decenni. E arriva a Grillo
che si annuncia da solo, arriva da solo, e resta solo dopo la vittoria, pur
avendo portato al seguito, dal nulla, nove milioni di elettori. Di Berlusconi
sappiamo tutto, arriva munito di una ricchezza oscura, usa il privilegio, poco
capito (o volutamente ignorato) di un immenso conflitto di interessi che ne
genera continuamente altri (e potere, e profitto), vive la vita politica come
uno sceneggiato che si gira in tempo reale con piena libertà di aggiungere o
togliere battute, o di smentirle liberamente. Di lui resterà memorabile non la
vastità e il peso del dominio esercitato, ma la straordinaria e inspiegabile
sottomissione dell’intera classe politica e di una vasta parte della
corporazione giornalistica. Ed è la prima figura - o maschera - nella
breve storia di Furio Colombo, maschera che, come nella migliore tradizione
della commedia dell’arte, ha calcato le tavole di quell’avanspettacolo che ha
condotto inesorabilmente alla “scarnificazione” del pensiero
collettivo sottostante alla buona “Politica”. Ed ecco avanzarsi la seconda
delle maschere – secondo Furio Colombo - dell’”antipolitica” al potere:
Il
gioco di Bossi non è stato molto diverso: mettere insieme ed esibire in modo
esasperato ed esagerato i peggiori sentimenti di rivalsa e vendetta di un
gruppo di persone senza reputazione, e vedere l’effetto che fa. Nel vuoto
culturale ha fatto effetto. Ma era troppo grossolano e misero per poter
continuare, fino a che ha fatto il patto di Arcore nelle cene del lunedì e ha acquisito
una vita in simbiosi, libera da preoccupazioni economiche e in grado di
beneficiare dello stesso clima di intimidazione e sottomissione giornalistica
imposto e goduto da Berlusconi. Ma Bossi non è un partito, è una vita di
espedienti che si è agganciata in tempo a un livello molto più alto e più
grande di imbroglio. (…). Ed infine la terza tragicomica maschera presentata
da Furio Colombo, di quella che è oggigiorno la politica “scarnificata” e contro
la quale, a parole almeno, il movimentista si mobilitava con inusitata
violenza: Grillo è arrivato a mani piene (persone e promesse) ma mai nessuno
nonostante i seguaci, ha realizzato programmi o promesse senza dare ruolo e
valore e senso al lavoro di chi si è offerto di partecipare ed è stato eletto.
Governare attraverso ordini indiscutibili uccide, e si può solo aspettare. E
dunque ci resta solo un’interessante “storia di Grillo” ma niente da scrivere,
per ora, sul Movimento Cinque stelle. Forse in questo schema (storie di
persone, ma non di movimenti e partiti) sta il nocciolo pericoloso della crisi.
Molti personaggi si aggirano, con buone e con cattive intenzioni, per le strade
deserte di un Paese spaventato che non può più mettere niente in comune,
neppure la paura. Un paese impaurito. Un paese disorientato. Ascoltavo
giorni addietro, nelle mie rare scorribande tra le onde della radio sempre più
infide e “scarnificate”, Flavia Perina – già direttore del “Secolo
d’Italia” e transfuga con Gianfranco Fini - lamentare la “pochezza” della sua
parte politica che così facilmente si era lasciata come fagocitare da una
politica d’assalto, contravvenendo e contrabbandando i propri dettami della “legge”
e dell’”ordine” per associarsi spensieratamente e spudoratamente ad
una politica di “rapina” dei novelli predoni. Un tardivo, colpevole
ripensamento. Chiude Ilvo Diamanti il Suo “pezzo” sul quotidiano la Repubblica:
È
questo il nostro problema più grande, oggi: l`abitudine alla
"precarietà". La rimozione del futuro. Perché il futuro è passato.
Emigrato. All`estero. E ci ha lasciati qui. Sempre più vecchi, ma incapaci di
ammetterlo. Noi, passeggeri di passaggio in questo Paese spaesato: abbiamo
bisogno di Politica. Perché senza Politica è impossibile prevedere. Progettare
il nostro futuro. E senza prevedere, senza progettare o, almeno, immaginare il
futuro, senza un briciolo di utopia: non c`è Politica. Ma solo
"politica". Arte di arrangiarsi. Giorno per giorno. Ma come “prevedere”,
come “progettare” un futuro che sia a questo disastrato paese senza
un pensiero compiuto, anche complesso, ché solo i partiti di quella che è
divenuta oramai sterile “memoria”, prima d’essere anch’essi “scarnificati”,
amorevolmente coltivavano? Di quella “memoria” forse perduta se ne fa
interprete e testimone Furio Colombo quando scrive: Qual è il vecchio senso? È il
muoversi relativamente compatto e omogeneo di tante persone, cittadini,
famiglie, padri e figli, insegnanti e allievi, persone del mondo creativo (le
canzoni) e di quello organizzativo (i sindacati) che più o meno hanno un punto in
comune all’origine, vedono o immaginano un punto comune da raggiungere e si
muovono cercando, anche con un po’ di aiuto reciproco, di percorrere la stessa
strada. Non per disciplina (non tanto, non sempre). Ma per adesione e
persuasione, reclamata anche in pubblico. Sto parlando, naturalmente, di
qualcosa che ha a che fare con la costellazione comunista e la costellazione
cattolica. Entrambe hanno salvato il legame con la Resistenza e la
Costituzione. Entrambe hanno impedito a questo solo Paese europeo di essere
laico e di esplorare senza pregiudizi, né distruttivi né infatuati, i territori
del liberalismo. Tutto quello che è accaduto dopo, fino ai giorni che stiamo
vivendo e patendo senza sapere e senza capire, è l’avventura individuale di
alcuni personaggi. Si può scrivere e illustrare la loro storia, sapendo che è
quella storia che conta. Ma non “il partito” o “il movimento” che proclamano di
avere creato, che nasce e che scompare (o finisce di contare) con loro. È
forse anche la fine della Storia, che muore con la “memoria” non più condivisa.
martedì 25 giugno 2013
Lamemoriadeigiornipassati. 9 “Il predone”
C’era una volta un cronista, di
quelli coraggiosi ed attenti. Era il compianto Giuseppe D’Avanzo. E cosa
scriveva Giuseppe D’Avanzo il 25 di giugno dell’anno 2010 sul quotidiano la
Repubblica? Un pezzo che a rileggerlo con la mente e gli occhi d’oggi segna
inequivocabilmente ed amaramente lo stato disastroso nel quale è sprofondato il
bel paese. Quel Suo pezzo Giuseppe D’avanzo lo aveva intitolato “Il predone”. Scriveva: Osserviamo
(…) la scena che Berlusconi ha costruito in questi (…) anni di governo. Il
Parlamento è soltanto l'esecutore muto degli ordini dell'esecutivo. La Corte
costituzionale e la magistratura devono essere presto subordinate al comando
politico. La presidenza della Repubblica, priva della legittimità popolare, è
soltanto un impaccio improprio. Il governo, già consesso obbediente agli ordini
del sovrano, diviene ora e addirittura il premio per chi, con il suo servizio
al Capo, si è guadagnato il vantaggio di rendersi legibus solutus come il sovrano.
Tocchiamo qui con mano il conflitto freddo che si sta consumando tra una
concezione della democrazia incardinata nella Costituzione, nei principi di una
democrazia liberale basata sull'oggettività delle funzioni pubbliche e la
convinzione che il voto popolare renda onnipotenti e consenta ogni mossa anche
1'annichilimento delle istituzioni. Lo scriveva il 25 di giugno
dell’anno 2010. Profezie non avveratesi? Ma il disegno era chiaro. Allora come
oggi. Oggi, 25 di giugno dell’anno 2013, imperando le larghe intese e
aleggiando lo spirito leggiadro della pacificazione, si tocca con mano lo
sprofondo nel quale l’interesse di un uomo solo ha condotto la vita sociale,
politica ed istituzionale del bel paese. Oggi, quell’uomo solo, ha la forza politica
ed il potere mediatico d’anteporre i suoi problemi giudiziari ad ogni altro
problema e di barattare un salvacondotto alla necessaria stabilità di governo
per poter fronteggiare – ma solamente fronteggiare, ché gli scenari
internazionali sfuggono alla nostra portata - una situazione terribile di crisi
economica che distrugge l’impalcatura sociale e le prospettive future di
milioni e milioni di cittadini. Umiliante e illuminante, l'affaire Brancher (per
la memoria dei deboli, Brancher nominato inopinatamente ministro per meglio
affrontare i suoi guai giudiziari e subito invocante il legittimo impedimento
n.d.r.) è anche educativo perché liquida almeno un paio di luoghi comuni del
dibattito pubblico, specialmente a sinistra. Chi di fronte alle minacce
estorsive del sovrano (o impunità o processo breve che blocca centinaia di
migliaia di processi; o impunità o paralisi della macchina giudiziaria) trova
sempre conveniente scegliere la riduzione del danno e il male minore saprà oggi
quel che avrebbe già dovuto sapere da tre lustri: il Cesare di Arcore non ha
inibizioni. È un predone. È di questi giorni l’invocazione dei suoi
famigli per il rispetto di presunti accordi intercorsi tra l’egoarca di Arcore
e l’alto, irto Colle. Accordi che l’inquilino dell’alto, irto Colle avrebbe
disatteso. Ed ora che la condanna è sopraggiunta cosa farà il pover’uomo? Il “predone”.
Scriveva ancora Giuseppe D’Avanzo: Lo guidano i riflessi. Quel che serve, lo
trova d'istinto. Se gli si offre un arsenale, lo utilizza, statene certi,
perché è ridicolo aspettarsi da Berlusconi self-restraint. Non esisteranno mai
mali minori con lui, ma soltanto mali che annunceranno il peggio. Il secondo
luogo comune dice che l'antiberlusconismo non porta da nessuna parte. L'affare Brancher
conferma che non c'è altra strada che contrastare il berlusconismo se si vuole
proteggere il Paese e le sue istituzioni da una prova di forza pre-politica,
fuori delle regole che ci siamo dati. È anche questo il caso Brancher, una prova
di forza. Che toccherà non solo all'opposizione contrastare. Fini, la Lega, i
soliti neutrali potranno subirla senza mettere in gioco la rispettabilità di se
stessi? Finiva così il pezzo di Giuseppe D’Avanzo. Oggi Ezio Mauro,
direttore di quel quotidiano, gli rende il merito dovuto citandolo copiosamente
nell’editoriale che fa seguito alla sentenza del tribunale di Milano. Riporta
oggi Ezio Mauro, nell’editoriale “L’abuso
e la dismisura”, quanto ebbe a scrivere quel coraggioso cronista: «La
questione — scriveva D’Avanzo — non ha nulla a che fare con il giudizio morale,
bensì con la responsabilità politica. Questo progressivo disvelamento del
disordine in cui si muove il premier e della sua fragilità privata ripropone la
debolezza del Cavaliere, tema che interpella la credibilità delle istituzioni»,
perché tutto ciò «rende vulnerabile la sua funzione pubblica, così come le sue
ossessioni personali possono sottoporlo a pressioni incontrollabili». E
nel riproporre il pensiero che è stato del cronista coraggioso riporta ancora: (…).
…nel sistema berlusconiano, dice D’Avanzo, «il potere statale protegge se
stesso e i suoi interessi economici, senza scrupoli e apertamente. Con
l’intervento a favore di Ruby quel potere che sempre privatizza la funzione
pubblica muove un altro passo verso un catastrofico degrado rendendo pubblica
finanche la sfera privatissima dell’Eletto. In un altro Paese appena rispettoso
del canone occidentale il premier già avrebbe dovuto rassegnare le dimissioni.
Nell’infelice Italia invece l’abuso di potere è il sigillo più autentico del dispositivo
politico di Silvio Berlusconi. È un atteggiamento ordinario, un movimento
automatico, una coazione meccanica». È la forza della “memoriadeigiornipassati”.
Che la dice lunga sul disfacimento politico ma anche etico e morale di una “casta”
servizievole al potere. Ché forse gli avventurieri delle larghe intese non
fossero a conoscenza della natura del “predone”? Ad essi si attaglia alla
perfezione quell’intuizione per la quale “chi di fronte alle minacce estorsive del
sovrano (o impunità o processo breve che blocca centinaia di migliaia di
processi; o impunità o paralisi della macchina giudiziaria) trova sempre
conveniente scegliere la riduzione del danno e il male minore saprà oggi quel
che avrebbe già dovuto sapere da tre lustri: il Cesare di Arcore non ha
inibizioni. È un predone. E l’”oggi” di quel tempo andato era il
25 di giugno dell’anno 2010, per l’appunto. Ed i “tre lustri” riportano
indietro le lancette dell’orologio alla disastrosa – per il bel paese – “discesa
in campo”. È da allora che “il predone” di Giuseppe D’Avanzo
scorazza impunito per le ubertose contrade del bel paese.
giovedì 20 giugno 2013
Cosecosì. 56 “Un professore e un Paese presi a schiaffi”
“Un professore e un Paese presi a
schiaffi” è il titolo di un “pezzo” della insegnante e scrittrice Mila
Spicola pubblicato sul quotidiano l’Unità del 16 di giugno. Ogni tanto mi garba
tornare all’antico amore, sollecitato in questa occasione dall’illustre Autrice
nonché collega. Scrive ad un certo punto del Suo pregevolissimo “pezzo”: La
nuova geografica del lavoro mondiale coincide con la geografia dei saperi, lo
hanno capito tutti nel mondo, tranne l’Italia, che si barcamena in ricette
improbabili per combattere la crisi rimanendoci sull’orlo perché non è capace
di comprendere quello che serve: innovazione, saperi qualificati e sguardo
lungo. Per innovare e guardare lontano si devono promuovere alti livelli medi
di conoscenza nella popolazione, e non lo fai attaccando un docente, ma
migliorando le condizioni del sistema che deve promuoverli. È che nel
bel paese si sono succeduti alla “cura” – si fa per dire – della cosa pubblica
degli improvvisatori se non degli approfittatori punto e basta. E quanto detto
trova riscontro nella crisi profonda nella quale vivono tutte le istituzioni
culturali e formative. Del resto basterebbe rammentare le professioni
d’incultura e di sprovvedutezza dei tanti improvvisati reggitori della cosa
pubblica perché ci si possa dare tutte le risposte del caso. E Mila Spicola lo
certifica nel Suo “pezzo”. Ebbe a dire un improvvisato di turno che con la
cultura non si mangia. Ed un supremo – si fa per dire – si vantava di non leggere
alcunché – tranne i fruttuosi bilanci aziendali – da una ventina di anni ed
oltre. Nulla quindi che si possa definire come imprevisto. Continua Mila
Spicola: A parole tutti lo desiderano nei fatti non sanno metterlo in atto,
semplicemente perché ci vogliono azioni efficaci e competenti decise da chi di
problemi complessissimi come l’innalzamento dei livelli medi si occupa da anni.
Quasi tutti i rapporti relativi ai sistemi d’istruzione individuano come motore
vero dell’innovazione dei sistemi d’istruzione e dunque dei paesi l’esercito
degli insegnanti, non le strumentazioni da fornire agli insegnanti, o la
valutazione dei docente, ma la formazione, la selezione e la qualificazione
continua degli insegnanti. Qualcuno ha confuso la riqualificazione dei docenti
con la valutazione dei docenti, quello è l’ultimo anello della catena. Non
cambi il risultato in un sistema se ti limiti alla valutazione delle variabili
dipendenti (l’operato dei docenti, i livelli cognitivi degli studenti), devi
agire sulle cause dì quelle variabili. Formazione. È il tema cruciale
di sempre. Affido alla straordinaria scrittura di Manara Valgimigli la
rappresentazione dell’eterno problema della scuola pubblica del bel paese. La
citazione l’ho tratta da “La mia scuola”
– Vallecchi editore (1924) -, brillante lavoro editoriale pubblicato nell’oramai
remoto 15 di gennaio dell’anno 1920 e che ho riportata nel mio volume “I professori” – AndreaOppureEditore
(2006) – alla pagina 63: Nel primo anno
del mio insegnamento, capitato in un ginnasio del Mezzogiorno, un collega
anziano mi disse: - Collega, tieni in ordine il registro e poi
"fottetinne". – Obbiettai, ingenuo: - Non sarebbe il caso piuttosto
di invertire i termini - Collega, non farete carriera. – E una volta, alcuni anni fa, un ministro
pedagogista, di questi registri ne inventò tre: uno, per ogni singolo
insegnante, che recava i voti e la materia spiegata e le lezioni e i lavori
assegnati; uno in comune per tutti gli insegnanti, che stava su la cattedra e
dove gli insegnanti diversi, man mano che si succedevano, indicavano ciascuno
la materia spiegata e le lezioni e i lavori assegnati; e finalmente, un terzo,
il così detto diario, per gli scolari, ai quali ogni insegnante dettava quello
stesso che egli aveva scritto nel proprio registro e nel registro collegiale.
Con questi tre registri l'insegnante modello poteva ridurre di mezz'ora la
propria lezione. - Collega, tieni in ordine il registro e poi
"fottetinne" . Il precetto del collega anziano aveva ricevuto da Sua
Eccellenza il Ministro pedagogista la consacrazione ufficiale. Nel paese
degli improvvisati e degli intrallazzatori di professione la cultura e la
scuola non hanno mai potuto avere la giusta rilevanza e considerazione. È
mancata anche la cosiddetta “considerazione sociale”. Ed il cerchio si chiude.
Oggi, quella arretratezza la si paga a caro prezzo: la “crisi” morde con morsi
feroci laddove l’arretratezza culturale è più marcata. Sostiene Mila Spicola: Tre
sono i passi. Il primo: riqualificare la formazione universitaria. Diventi
insegnante chi ha nel proprio bagaglio formativo non solo le conoscenze
disciplinari (accade oggi) ma anche un bagaglio di «attrezzi del mestiere» che
sono discipline come la pedagogia, la docimologia, la psicologia infantile e
adolescenziale, la gestione e il management scolastico. Il secondo passo: la
selezione dei docenti. Concorsi seri e veri. Che accertino non solo le
conoscenze con batterie ridicole di test (spesso sbagliati, spesso oggetto di
ricorsi, spesso abbonati a tutti per non incorrere in procedimenti
d’infrazione) ma che prevedano prove che accertino anche le competenze
necessarie per diventare insegnanti, comprese le predisposizioni
psicoattitudinali a un mestiere difficilissimo. Il terzo passo. Rivoluzionare
la professione. Un docente torni ad essere un intellettuale: deve studiare,
deve avere il tempo di farlo e deve avere il riconoscimento perché lo fa. ‘È un
lavoro intellettuale, che va praticato e riconosciuto come lavoro
intellettuale, perché ciò accada bisogna, semplicemente porre in essere le
condizioni affinché sia così. Non è peregrino immaginare che almeno ogni 4 anni
un docente possa trascorrere sei mesi fuori dalle classi, a rotazione, per fare
ricerca, dentro e fuori la scuola, per qualificarsi, studiare, partecipare a convegni,
produrre sperimentazione, effettuare lavoro di supporto, organizzazione e
produzione di saperi e attività dentro la sua scuola. Come dire, tutto
qui? Ed allora propongo un’altra amena lettura. È stata riportata anch’essa
nella mia pubblicazione prima citata – alla pagina 71 – ed è stata tratta da “La scala di Giocca” – Edizioni EDES
(1984) - di Paolo Teobaldi: Il tema che
il nostro gruppo doveva affrontare era: "Società agropastorale e attività
ciclistica in Sardegna". Originariamente l'argomento doveva essere
soltanto "Attività ciclistica in Sardegna" in quanto io la ritenevo
una questione interdisciplinare, atta cioè a sviluppare tutte le tematiche
congiunte con autonomi strumenti d'indagine; per esempio, sostenevo - e potrei
ancora sostenere anche se ho cambiato mestiere - la pratica ciclistica
favorisce un allacciamento con la geografia in quanto, prima di partire per una
pedalata, o sgambatura, anche solo di 15-20 chilometri,
occorre bene documentarsi sulla natura del terreno, del territorio diremmo
oggi, controllando sulle tavolette dell'Istituto Geografico Militare, scala
1:25.000, quante fontane ci sono, quanti bar e quante trattorie; una pedalata
circolare, in scioltezza, favorisce la circolazione sanguigna (qui si innesta
la medicina!), cioè una migliore irrorazione delle vene e dei capillari di
tutti gli arti, e di tutti gli organi cervello compreso, con conseguente
miglioramento del livello medio delle spiegazioni e della capacità di
sopportazione. Nodo fondamentale da esaminare sarebbe stato la mancanza, nelle
squadre ciclistiche nazionali, di professionisti sardi, la ragione del quale
fenomeno - io l'avevo solo accennata a Vincenzo - era nella storia stessa della
regione, cioè nello stratificarsi di invasioni a opera di popoli poco amanti della
bicicletta, fenici in testa, romani, pisani, spagnoli (che pure potevano essere
buoni scalatori, o grimpeur, vista la loro complessione fisica), piemontesi,
che lasciarono il cavallo solo per l'automobile.(…). A commento della
stupenda pagina del Teobaldi avevo osato chiosare nella stesura di quel volume:
E chi non ricorda di quegli anni i famosi
o famigerati “corsi abitanti”, che furono di certo una panacea per risolvere
l’allora precariato nella scuola pubblica, ma per i quali non si può avere
rimpianto alcuno? Poiché essi hanno rappresentato indubbiamente l’affossamento
di qualsiasi idea di miglioramento del servizio scolastico e la messa in
soffitta di qualsiasi idea e strumento per una differenziazione meritocratica
della carriera degli operatori scolastici, tanto per tornare ad usare una
definizione al tempo molto in voga anche per designare altri operatori di
attività di ben diverso peso culturale, ma non sociale. Leggere comunque la
prosa del Teobaldi per averne una convincente prova; non si potrà alla fine non
lasciarsi sfuggire un amarissimo e tenero sorriso, per un tempo che è stato.
Un tempo amaro. È questo lo stato dell’arte. Chiude il Suo “pezzo” Mila Spicola
così: Studiare vuol dire coltivare parole, coltivare pensieri, discernere per
agire e trasferire queste capacità agli alunni: è la qualità della democrazia,
la pregiudiziale del lavoro. E la “scarnificazione” del pensiero dove
la mettiamo? Sta tutta qui, in questo vuoto pneumatico della menti volutamente
creato.
giovedì 13 giugno 2013
Cosecosì. 55 Philip Roth ed il “Maestro”.
Tutti abbiamo avuto almeno un “maestro”
nella vita. Almeno. Da intendersi per “maestro” colui il quale “ti
aiuta a conquistare uno stile, ovvero il contrassegno di quello che sei in
quello che fai. Possedendo e mostrando il suo ti aiuta a conquistare il tuo. I
grandi maestri (…) arano a fondo nel terreno dell’umano, sono primitivi e
inattuali, non si gingillano con le cose senza peso, escono e fanno uscire dal
quotidiano, non fermano quando li si incontra, né inducono a fare la loro
strada, ma invogliano a cercare liberamente ognuno la sua e percorrerla”. Fine
della stupenda citazione, tratta da “Essere
insegnanti, divenire maestri” del professor Raniero Regni, apparsa sulla
rivista “School in Europe”. Miserevole colui il quale non abbia incontrato
nella sua vita almeno un “maestro”. Philip Roth ne ha scritto
– sul quotidiano la Repubblica del 5 di maggio 2013 - col titolo “Al mio maestro”. Un ritorno inatteso, e
sperato, alla scrittura del grande romanziere. Ha scritto Philip Roth: (…).
Il primo insegnante che mi trovai di fronte, la prima ora del mio primo giorno
all’Annex, fu Bob Lowenstein. Il dottor Lowenstein. Doc Lowenstein. Era fresco reduce dalla
seconda guerra mondiale, diversamente da quasi tutti i professori di liceo era
in possesso, senza darsi arie, di un dottorato, e quello che perfino un
dodicenne poteva capire era che si trattava di un uomo straordinario che non
tollerava di buon grado i cretini. (…). …non l’ho dimenticato. Chi l’ha
dimenticato a Weequahic? Come tutti i “maestri”. Difficile
dimenticarli, anzi impossibile. Ne ho scritto per personale esperienza. Pochi
sono essi, i “maestri”, capaci di riempire il cuore e la mente dei giovani
che la vita ha loro affidato. Ed il dottor Lowenstein è stato il “maestro”
per il grande scrittore. Scrive di seguito Philip Roth: Di
conseguenza, quando toccò a lui finire sbranato dalla crociata anticomunista
degli anni Quaranta e Cinquanta, seguii le sue vicende come meglio potei
attraverso gli articoli dei giornali di Newark che mi facevo ritagliare e
spedire dai miei genitori. Sin qui i ricordi del grande Autore. Apro
una parentesi per dire di quel fatto tragico che è stato il “maccartismo”
negli Stati Uniti d’America. Mi soccorre il grande Woody Allen – interprete - ed
il film – per la regia di Martin Ritt - che ha per titolo “Il prestanome”. Il film è del 1976. Narra di quel tempo e della "caccia
alle streghe" alla quale vennero spietatamente sottoposti gli
intellettuali di quel grande Paese. E si narra, in quello scenario tragico, di
un certo Howard Prince – Woody Allen - , cassiere in un bar della periferia
newyorchese, grande scommettitore ed abile bookmaker, che accetta di soccorrere
Alfred Miller - Michael Murphy -, sceneggiatore perseguitato per le sue sospette
"attività
antiamericane". È il “maccartismo” più feroce, per
l’appunto. Un delirio dei tempi. Il soccorso che Howard Prince offre all’amico è
di fare da “prestanome”, firmando i lavori letterari avendone per
ricompensa una percentuale sugli introiti. La scorciatoia, come suol dirsi, è
trovata. Altri scrittori in odore di “sovversione antiamericana” cominceranno
ad utilizzare il nome di Howard Prince per la pubblicazione del proprio lavoro
e ciò permetterà all’astuto profittatore delle disgrazie altrui di divenire ricco
e famoso. Ma i tempi scorrono cupi con l’inevitabile inverarsi di dirompenti e
tragici casi umani, come sarà il suicidio dell'attore Hecky Brown - Zero Mostel
-, che aprirà una breccia nella disincantata coscienza di Howard Prince, un
uomo senza ideali e senza scrupoli. Fino a quando egli stesso non verrà
sottoposto alla sorveglianza della "Fredom Information" e denunciato alla
commissione per le attività antiamericane. È il ricordo caro dell’amico Hecky e
del suo disperato atto finale di rinuncia alla vita che gli daranno la forza
per trovare una risposta di dignità ritrovata da esibire ai delatori
professionali di quella tragica stagione della storia americana. Questi i crudi
“fatti” ai quali rimanda – per chi ne abbia memoria - lo scritto di Philip
Roth: Non ricordo come ci ritrovammo negli anni Novanta, più di cinquant’anni
dopo che mi ero diplomato al Weequahic High. (…). Bob per me è una delle voci
persuasive che ancora sento parlare. I suoi discorsi erano permeati del sapore
intenso del reale. Come tutti i grandi insegnanti, personificava il dramma
della trasformazione attraverso la parola. (…). Bob è stato il modello di un
personaggio di primo piano del mio romanzo “Ho sposato un comunista”, un libro
del 1998 in
cui rievocavo il periodo anticomunista a cui ho accennato in precedenza e la
crudeltà e la ferocia con cui persone come Bob vennero sbranate con le unghie e
coi denti dalla marmaglia al potere all’epoca. (…). Il tema di “Ho sposato un
comunista”, in fondo, è l’educazione, l’insegnamento, il rapporto
mentore-allievo: in particolare un adolescente diligente, zelante e
impressionabile che impara come diventare — e anche come non diventare — un
uomo coraggioso, onesto ed efficace. Non è un compito facile, come sappiamo,
perché ci sono due grandi ostacoli: l’impurità del mondo e l’impurità di se
stessi, per non parlare delle enormi imperfezioni di intelligenza, emozione,
lungimiranza e giudizio di un individuo. (…). Ora non sto parlando
dell’educazione di un ragazzo, ma dell’educazione di un adulto: l’educazione
alla perdita, al dolore e a quell’inevitabile componente della vita che è il
tradimento. Bob era fatto di ferro e resistette all’atrocità dell’ingiustizia
con un coraggio e una prodezza straordinari, ma era un uomo e provava i sentimenti
di un uomo, e quindi soffrì anche. (…). Concludo con qualche riga dalle prime
pagine di “Ho sposato un comunista”, dove descrivo l’immaginario professor
Ringold, meglio noto nel mondo al di fuori della pagina scritta come Doc
Lowenstein: «Negli atteggiamenti e nelle pose era assolutamente naturale, ma
nel parlare piuttosto prolisso e, sul piano intellettuale, quasi minaccioso. La
sua passione era spiegare, chiarire, farci comprendere, col risultato che ogni
argomento di cui parlavamo veniva smontato nei suoi elementi principali con una
meticolosità non inferiore a quella con cui divideva le frasi sulla lavagna.
(...). Il professor Ringold portava con sé in aula una carica di viscerale
spontaneità che, per dei ragazzi come noi, docili ed educati al rispetto,
ragazzi che dovevano ancora comprendere che obbedire alle regole del vivere
civile dettate dall’insegnante non aveva nulla a che vedere con lo sviluppo
mentale, fu una rivelazione. C’era più importanza di quanto, forse, lui stesso
immaginasse nell’accattivante abitudine che aveva di tirarti il cancellino
quando la risposta che davi non colpiva il bersaglio. (...). Si sentiva la
forza, in senso sessuale, di un insegnante liceale come Murray Ringold (maschia
autorevolezza non viziata da commiserazione), e si sentiva la vocazione, in
senso sacerdotale, di un insegnante come Murray Ringold, che non si era perso
dietro l’amorfa aspirazione americana di sfondare, e che — diversamente dagli
insegnanti di sesso femminile — avrebbe potuto scegliere di fare qualunque cosa
o quasi e che invece aveva scelto, come lavoro della propria vita, di dedicarsi
a noi. Per tutta la giornata non voleva far altro che occuparsi dei giovani che
poteva influenzare, ed era dalle loro reazioni che ricavava la sua massima soddisfazione».
Addio, stimato mentore. Dobbiamo al grande Woody un aforisma terribile
sugli insegnanti. Lo si ritrova nel Suo straordinario film “Io e Annie” dell’anno 1977: - Ricordo il corpo insegnante della mia
scuola pubblica. Sapete, avevamo un detto: chi non sa far niente insegna e chi
non sa insegnare insegna ginnastica. Quelli che neanche la ginnastica, credo li
destinassero alla nostra scuola -. Ma parlava il grande Woody
semplicemente degli insegnanti, non già dei “maestri” che, quando
li si incontra, non “inducono a fare la loro strada, ma invogliano a cercare liberamente
ognuno la sua e percorrerla”.
sabato 8 giugno 2013
Lamemoriadeigiornipassati. 8 “Ritrovare i legami perduti”.
“Lamemoriadeigiornipassati”
è dell’8 di giugno dell’anno 2011. È a firma di Michele Ciliberto e venne
pubblicata sul quotidiano l’Unità col titolo “Un rebus tutto di sinistra: ritrovare i legami perduti”. “Lamemoriadeigiornipassati”
è esercizio di memoria, per l’appunto. Un misurare, se la si voglia intendere
così, i passi che sono stati fatti in avanti o all’indietro nella storia
politica e sociale di questo derelitto paese. È esercizio che richiede
determinazione e coraggio al contempo, senza i quali i problemi marciscono ed
il paese affonda nell’inettitudine e nelle forme più perverse di populismo
anarcoide e plebeo. Poiché un paese che rifiuta un sono esercizio di memoria
non riuscirà mai ad uscire dalle pastoie nelle quali l’”antipolitica” al potere,
ovvero la politica quale negazione della “politica buona”, lo ha condotto nei
decenni. E tutto si trasforma in un “irrisolto” con il quale è facile sì
convivere ma rinunciando a tutto ciò che sta a fondamento e corredo di una
democrazia matura. Ha scritto di recente - “Il
pericolo del non voto”, sul quotidiano l’Unità del 28 di maggio 2013 -
Michele Ciliberto: (…). …in Italia è da tempo aperto, e ora sta venendo alla luce, un
problema che tocca le fondamenta della democrazia, cioè della Repubblica. Se ne
stanno riducendo le basi, e quindi la capacità di rappresentanza, quindi la
legittimità. Quando l`astensione è così ampia, vuol dire che i principi della
democrazia rappresentativa appaiono logori e che si sta incrinando il patto
originario che costituisce una comunità. Significa, simmetricamente, che la
politica e le istituzioni si sono chiuse in una sorta di spazio separato, che
non ha molto a che fare con la vita della gente e dei singoli individui e che
ha poco da spartire con i problemi quotidiani. Non serve enfatizzare le
situazioni di crisi, ma noi siamo seduti su un vulcano anche se molti
continuano a non voler sentire i campanelli di allarme, i mille segnali in cui
si esprime un distacco che ha ormai preso. L`astensione non nasce da un
generico qualunquismo ma è l`effetto del distacco tra gente e politica la forma
di un vero e proprio risentimento politico, sociale, individuale (e non solo in
Italia). È una crisi strutturale, che non si risolve con le armi della pura
tecnica politica. Quale illusione! Oggi è la politica che per prima deve
ritrovare un fondamento, se si vuole rianimare la democrazia. Sono
queste le parole Sue ultime. Che vanno lette con quanto l’illustre studioso
aveva scritto in quell’8 di maggio dell’anno 2011: Se (…) il carattere proprio della
democrazia dispotica è quello di rompere i legami fra gli individui
precipitandoli in una condizione di reciproca solitudine, compito di una
cultura democratica è quello di ricostituirli ad ogni livello. Dei “legami” e
di ciò che essi significano - insisto su questo punto - occorre dunque fare il
pilastro di una democrazia moderna, contrastando frontalmente le ideologie
moderate e conservatrici. Ma i legami che bisogna costituire oggi devono essere
diversi da quelli del passato. Occorre anzitutto partire dagli individui; e su
questa base costruire legami che siano capaci di mantenere vive ed operanti le
differenze individuali e se necessario anche il conflitto. Ed a
proposito di quei “legami”, che una vera forza di sinistra dovrebbe avere a cuore,
ne ha scritto Alain Touraine sul numero 8 della rivista MicroMega – pag. 43 -
dello stesso anno 2011: L’elemento di definizione che per primo
viene alla mente è che la destra pensa in termini di oggetti e di rapporti tra
gli oggetti, e che definisce gli attori tramite le loro situazioni oggettive.
(…). Ciò che definisce, all’opposto, la sinistra, è che pensa e agisce in
termini di diritti. Il populismo di destra, che lamenta le deplorevoli condizioni
dell’infanzia, dei poveri, delle donne e dei prigionieri è sempre esistito. Ma
il pensiero e l’azione diventano di sinistra solo quando il pensiero si
interroga sulle ragioni della disuguaglianza, o della dipendenza e della
violenza, cercando nelle vittime i possibili protagonisti di volontà e
desiderio d’azione. È in questi ambiti che la rottura dei “legami”
ha portato a quell’”irrisolto” che caratterizza la condizione propria della (pseudo)-democrazia
nel bel paese. Soprattutto quando una forza che si voglia dire della sinistra
non “si
interroga sulle ragioni della disuguaglianza, o della dipendenza e della
violenza” tranciando così di fatto quei legami che ne giustifichino
l’esistenza e la sopravvivenza. Scriveva ancora Alain Touraine nello stesso
numero della rivista che ha per titolo di copertina “A sinistra!” - pag. 37 -: Il teorema da tempo accettato secondo cui il
centro della vita sociale è il sistema economico, cioè la stretta
corrispondenza delle categorie della vita economica con quelle della vita
sociale, non è più accettabile e dev’essere respinto malgrado i molti servizi
resi. L’economia si è separata dalla vita sociale: è questo il significato
profondo della globalizzazione. (…). Siamo fin troppo consapevoli che
l’edonismo avvantaggia i ricchi e i potenti, e distrugge quanti ne adottano gli
obiettivi senza avere i mezzi per raggiungerli. È il paradosso dei
nostri giorni e delle nostre vite. La proposizione martellante di un “edonismo”
incompatibile con l’ambiente e con le risorse naturali ha abbacinato
larghissimi strati sociali i quali hanno preferito abbracciare quell’illusione
con la rinuncia e lo scioglimento di quei “legami” che ne avevano
caratterizzato le esistenze. Scrive Michele Ciliberto in quella memoria dell’8
di giugno dell’anno 2011: I legami, infatti, possono essere declinati
sia in chiave democratica che in termini autoritari e anche dispotici. Un
esempio: l’idea di nazione può essere declinata in termini di piccole patrie,
chiuse in se stesse come monadi (e qui basta pensare alle politiche della
Lega), oppure e questo è il compito proprio di una nuova cultura democratica
interpretando in modi nuovi il rapporto fra nazione e territorio, ponendo al
centro un nuovo concetto di cittadinanza, in grado di aprire la nazione a nuovi
popoli, nella prospettiva di un nuovo concetto anche dell’Europa. Bisogna
saperlo: la democrazia vive di differenze e anche di conflitto. Senza conflitto
non ci sono né libertà né democrazia, se è vero come è vero, che la crisi della
democrazia la sua patologia consiste proprio nel quietismo, nella indifferenza,
nella staticità. I legami di cui si avverte oggi l’esigenza, e che occorre
costituire, non sono quelli otto-novecenteschi, tipici anche del movimento
operaio: la massa, la classe, insomma le vecchie identità sociali e collettive.
Il conflitto fra capitale e lavoro ha cambiato forma, globalizzandosi; si è
esaurita la vecchia ideologia del progresso che era stata una bandiera della
classe operaia; si sono consumate le tradizionali forme di rappresentanza politica
e sindacale; sono cambiati anche i rapporti con il mondo, con la vita: gli
“individui” non sono più disposti a sciogliersi nella massa, nella classe, come
nel XX secolo. Essi sono estranei oggi a queste vecchie forme di legami: come
dice in una bella pagina Adam Zagajewski, «le epoche muoiono più delle persone,
e non ne resta nulla». Quelli che bisogna dunque costruire sono legami in grado
di coinvolgere la dimensione della generalità, ma in termini nuovi. Sono i
legami che possono sorgere dalla comune consapevolezza dei limiti delle risorse
naturali; dalla comune assunzione della centralità del rapporto, oggi, fra
nativi e immigrati, per il futuro dell’Europa e tendenzialmente del mondo;
dalla comune coscienza della necessità di nuove forme di esperienza sociale e
di lavoro; dalla comune persuasione dell’esaurimento delle vecchie forme di
rappresentanza politica e soprattutto sindacale; da un comune impegno intorno
al destino dell’Europa, mentre sono venuti meno i vecchi modelli identitari e
antropologici ed è diventato indispensabile, specie per una forza riformatrice,
individuare nuove rotte ideali, culturali, politiche lungo le quali
incamminarsi. Sono legami che devono coinvolgere anche i problemi del genere
(…); del rapporto individuale con la vita e con la morte; delle nuove frontiere
e metamorfosi del corpo dischiuse dalle moderne tecnologie; della relazione con
la natura. È su questo terreno che è possibile stabilire campi di confronto
anche con le religioni, tutte le religioni, imperniati sul reciproco
riconoscimento dell’altro e dei suoi valori, anche di quelli della cultura
laica. È sbagliato infatti identificare storico e relativo: dalla storia
salgono e si affermano legami che tendono anch’essi alla universalità, e che
come tali sono stati vissuti, e continuano ad essere vissuti, da coloro che si
battono per essi e vi si riconoscono. In una parola, quello cui bisogna
lavorare sono nuovi legami democratici. Un punto però deve essere chiaro:
pensare di costruire nuovi legami ignorando il piano dei rapporti materiali
sarebbe insensato: come sapevano già i classici (a cominciare da Hegel) è il
lavoro la struttura costituiva dell’uomo, la condizione originaria sia della
sua libertà che in generale della democrazia. Oggi come ieri, il lavoro è il centro
archimedeo di ogni legame democratico”. Ritrovare i “legami”
perduti. Il lavoro al centro della “struttura costituiva dell’uomo”. Quale
forza politica del bel paese ha posto con forza queste “cose” come le
priorità, come i progetti o i traguardi, a più o meno breve termine,
irrinunciabili? L’assunto proposto da Alain Touraine che nelle moderne società “il
centro della vita sociale è il sistema economico” distorce il senso
della nostra storia, delle nostre vite presenti e future.
giovedì 6 giugno 2013
Strettamentepersonale. 11 “La scelta di vivere”.
(…). Quanto viveva il pre-uomo
dei paleontologi? Se arrivava a vent'anni era molto, poi qualche animale
selvatico con denti enormi s'incaricava di togliergli le pulci. Milioni d'anni
di vita breve ci hanno educati a comprendere meravigliosamente l'infinita
sacralità della morte, a collocare la reale durata della vita in un ignoto
Altrove. Un mattino del secolo in cui gli attuali longevi sono nati, ci siamo
svegliati, ed ecco la sacralità della morte era sparita, il suo nome diventato
impronunciabile, un delirante apparato medico-chirurgico a sbranarne i resti, a
far vivere in coma di spavento senza limiti di durata uno stuolo di sventurati (…).
La morte desacralizzata si vendica: “Ah, avete cambiato le regole, e allora
godetevi l'accanimento, le dialisi senza fine, gli Alzheimer senza barlume, i
trapianti d'organi strappati a ragazzini sani venduti per fame e trafficanti da
immonde Tortughe di malavita!”. Un segno di disumanità della cosiddetta
politica, uno dei tanti: non preoccuparsi che dei giovani, senza altro saper
fare per loro che condannarli al lavoro, al salario, alle riunioni di
condominio, a riprodurre in anime innocenti l'infelicità e i vizi dei loro
padri e madri. Ma ehi, la Vita, cosa dichiari ai controlli? Questa
moltiplicazione insensata e tragica di vecchiaie perché non entra nelle
diagnosi dei predicanti? (…). E tutti ci curiamo per durare di più, perché
tutta la ricerca, minimamente interessata alla restitutio in integrum
dell'essere umano, è massimamente occupata dalla conservazione indefinita di
corpi malati in condizioni esistenziali e ambientali che non abbiano speranza
di migliorare. Perciò la vecchiaia è la patologia sociale per antonomasia; una
società che non voglia essere di assassini legali è obbligata a farsene carico,
e allora l'assassinio assume la grinta dell'assistenza seminegata, tinta o
impregnata di sadico, gridante carenze sempre, o fondata sulle possibilità
individuali di spendere senza limiti il risparmiato. Ma l'essere o no
maltrattati o mal-tollerati dipende da più o meno di sfortuna; va meglio in
rari casi di affetti perduranti, di simpatia alonante. Così Guido
Ceronetti su “il Fatto Quotidiano” del 10 di maggio col titolo “Longevità, patologia sociale”. Ed ora
la storia. Conosco A. E., come suol dirsi con una ricorrente esagerazione, da
una vita. Ma lo conosco bene. Ho saputo sin dal principio del suo convivere con
il Wolf, una sindrome che gli ha tenuto sinora compagnia ma della quale aveva
imparato a fidarsi. È che negli anni il suo Wolf, da tutti i luminari incontrati
in passato definito del “tipo buono”, aveva smesso di fare
le bizze iniziali e così ci conviveva come con un amico che è preferibile
tenersi buono. E così i rituali controlli annuali e le terapie dispensate e
doverosamente assunte. Wolf aveva cominciato ad annunciarsi sulla trentina di
A. E., giusto per dare valore alle tabelle ed alla casistica medica. Tutto in
regola, tutto nella norma. Oggi A. E., andato avanti negli anni, 6*, è sulla
settantina, come suol dirsi. Ha incontrato, giusto nei giorni scorsi – ma ci
son voluti giorni e giorni prima che me ne parlasse –, l’ultimo dei luminari.
Una scelta nuova, diversa dai precedenti specialisti che lo avevano sinora visto.
Mi ha raccontato di avergli parlato di sé e del suo Wolf, della esperienza
maturata in un buon trentennio abbondante. Come in tutte le altre occasioni di
visite mediche. Solo che questa volta si è sentito rispondere dal nuovo
luminare: - Bene, bene. Ma lo sa che lei
è a rischio di morte improvvisa? -. “Morte improvvisa”! Che botta! E mi
ha raccontato di non aver provato, incredibilmente, timore alcuno, di non aver
pensato per nulla a sé stesso, alla nuova condizione della sua esistenza ed
alla sua vita, così sacra secondo alcuni, esposta a rischi tali da poter essere
interrotta all’improvviso da quel Wolf definito da tutti del “tipo
buono”. Mi ha detto che il suo pensiero è andato subito ad un amico
carissimo, F. L., recentemente scomparso di “monte improvvisa”. Ché
F. L. non fosse, inconsapevolmente, anch’egli in compagnia di un Wolf del “tipo
buono”? Non ci sarà mai una risposta. E dopo la botta, mi diceva, un
distendersi di pensieri. Lunghi. Non ultimo, uno in particolare: - Ma guarda un po’ che fortuna mi portavo
dietro. Nel mazzo di carte che la vita mi ha consegnato all’inizio della mia
esistenza c’era pure questa, una carta di libertà che se fosse possibile
ciascuno degli esseri umani dovrebbe possedere e tirare fuori al momento buono
e secondo le proprie convinzioni -. Come non dargli ragione. Quel suo
parlare, con pudore anche, mi ha fatto ricordare della riflessione di Guido Ceronetti.
Avrei voluto accennare, all’amico A. E., di F. L. ed della sua “morte
improvvisa”, ma ho lasciato cadere il discorso. Sul suo volto ho visto
passare come un’espressione di pace, quasi di raggiunta serenità, come se in
cuor suo avesse deciso di giocarsi sino in fondo la “carta” di quel mazzo che
la vita gli aveva preparato sin dall’inizio. Sfidando così le certezze
medico-scientifiche che gli assicurerebbero un futuro garantito. Di essere
umano risanato. E se poi… Avrei voluto parlargli, leggergli magari, la
riflessione di Guido Ceronetti; ho lasciato perdere. Senza rimorso alcuno.
Scriveva oltre quell’illustre Autore: (…). La nostra longevità ha un risvolto di
delitto perché la sperimentazione farmacologica costa lo sterminio di milioni
di piccoli, e a volte grandi, animali per museruolare e frenare il Tempo
divoratore. Si tratta di torture indicibili, si può dirlo un lavorare degno di
un uomo questo bell'incremento di Pil a prezzo di deboli lamenti dietro la
parete bianca, rossi semafori di carneficine in corso? Nelle case di cura la
concentrazione di vecchiaie spezzate dall'anca, dal femore, dal polso, dal
gomito, che vedi accompagnate negli ascensori, nei refettori, nelle palestre di
riabilitazione, è un continuo pugno di pietà. Esistono esclusivamente per
durare e per aver paura di quel che gli accadrà il giorno dopo. I figli li
tormentano perché non mangino “quel che gli può far male” e ubbidiscano alle prescrizioni:
temono di far trapelare il loro desiderio di accorciargli la vita, perciò li
cacciano sempre più spietatamente nella buca senza fondo della perseveranza nel
tempo. Amore non ne vedi, è impalpabile o del tutto inesistente negli infernali
rapporti familiari, il refrigerio dei sentimenti, della gratitudine manifesta,
nella società tecnologica è lingua mozza. I vecchi sono problema e niente,
niente, niente altro... Un problema. (…). I bambini ignorano che i vecchi sono
stati declassati a problema. Insolubile, s'intende. Un problema, riconosciuto
insolubile, si riscatta dalla facilità e dalla volgarità. Longevità in eccesso:
insolubilità sociale dal volto ambiguo. Il bambino, (…), sente nei vecchi la
vicinanza al luogo anteriore del nascimento, e questa è la ragione della sua
confidenza, anche per quelli non della sua famiglia. Noi vecchi siamo
consapevoli, ogni minuto lo siamo, ed è una tremenda sofferenza trovarsi
tuffati nella Rimozione, di essere costretti a fingere che più la nostra vita
di penuria e di noia si prolunga, più siamo felici di leccarne le impronte
sulla sabbia, che sono le stesse dell'Angelo Sterminatore. Vivere in Morte di
Dio è diventato difficilissimo, soltanto gli imbecilli (in verità molto
numerosi) non se ne accorgono. (…). Sono passati giorni da
quell’incontro con A. E., incontro che è divenuto quasi una confessione. A
tutt’oggi non ho avuto il coraggio di sapere – telefonandogli magari – delle sue
risoluzioni. Si sottoporrà all’ablazione del “fascio di Kent” – come
consigliato dall’ultimo luminare - o si giocherà sino all’ultimo la “carta”
che custodisce nel mazzo che la vita gli ha consegnato all’inizio dei suoi
giorni? Un bell’azzardo. “Az-zahr”, che per gli arabi
significa “dado”, per l’appunto. Poiché ha tanto il sapore di un azzardo,
di un giocare la vita ai dadi, qualsivoglia risoluzione A. E. giungerà a
prendere. Auguri a te, A. E.
lunedì 3 giugno 2013
Cosecosì. 54 I media ed il fallimento dell’”Io”.
Ha scritto lo psicoterapeuta
Massimo Recalcati sul quotidiano la Repubblica del 5 di maggio una riflessione
che ha per titolo “Se fallisce il nostro
io esplode la violenza”: (…). …uccidere il proprio fratello non
appartiene al mondo animale, ma al mondo umano. È un aspetto – terrificante –
dell’umano sul quale non bisogna chiudere gli occhi. Il crimine non è infatti
la regressione dell’uomo all’animale – come una cattiva cultura moralistica
vorrebbe farci credere –, ma esprime una tendenza propriamente umana. Questo è
il dramma che il moltiplicarsi recente di atti erratici di violenza ci
costringe ad affrontare. Se l’umanizzazione della vita avviene come un
attraversamento della violenza che ci abita – della nostra ombra più scura –,
essa non può mai cancellare la violenza, ma decidere casomai, ogni volta, per
la sua rinuncia. È questo uno dei compiti più difficili che incombe sugli
esseri umani: saper rinunciare alla violenza in nome del riconoscimento dell’Altro
come prossimo, come essere singolare. Si tratta di un riconoscimento che non è
mai indolore perché ci obbliga ad accettare che “Io non sono tutto”, che la mia
vita non esaurisce quella del mondo e quella degli altri. Significa sopportare
quella che Freud considerava una “frustrazione narcisistica” necessaria per
riconoscersi appartenere ad una Comunità umana. Ma c’è dell’altro che
ho cercato di sintetizzare nel titolo di questo post. I media. Vi siete mai
chiesti quale balordo possa fare delle riprese per i servizi televisivi nelle
quali la sua macchinetta infernale sembra quasi volersi immergere nelle pozze
di sangue che, immancabilmente, gli atti di violenza producono? Inquadrature da
balordi, per l’appunto. L’obiettivo sembra voler cogliere non tanto la notizia –
che diventa quasi secondaria - ma andare oltre, come per approfondire il tema, quasi
a voler contare il numero dei globuli rossi che danno il colore tragico a
quelle pozze. Una vergogna, un obbrobrio. Cose da balordi. Quale senso e quali
risultanze psichiche possano dare allo spettatore inerme quelle inquadrature è
stata da sempre la mia ossessionante domanda. Evidentemente inquadrare il
sangue versato dalla vittima e raccolto nelle pozze nelle quali immergere l’obiettivo
dell’infernale macchinetta è un dettato irrinunciabile per ogni cronaca di
sangue che valga la pena d’essere raccontata. Ma se non c’è stato un direttore
che abbia ripreso quel balordo spedendolo ad altre più innocenti mansioni è
evidente che la vista del sangue torna comoda alla notizia e di riflesso al
ritorno di pubblicità per l’emittente. I media per l’appunto. Nefasti per il
loro indecente uso. Che fanno leva su quell’assioma che da tempo mi accompagna:
la scarnificazione del pensiero. Il pensiero collettivo è scarnificato. Non ha
più una complessità sua. Non si ha contezza di alcuni fatti se non si parte da
questo assunto. Scarnifica oggi, scarnifica domani, il risultato è sotto gli
occhi di tutti. Ha scritto Vittorio Zucconi in una delle Sue ultime
corrispondenze dagli Stati Uniti d’America – sul settimanale “D” del 25 di
maggio, “Se il mostro abita nella
villetta accanto” -: Conosciamo tutti quelle inutili
dichiarazioni raccolte dai Tg nei casi dei delitti più feroci. "Una coppia
tranquilla". "Un signore educato". "Gente normale".
Mai uno che dica davanti alla telecamere: "Mi pareva un demente".
"Lei era una belva". Mai. Non sono testimoni idioti o bugiardi. Sono
soltanto la manifestazione di qualcosa che persino nell'America dello
"spirito di quartiere" sta accadendo: è la "solitudine della
porta accanto" il crescente isolamento nel quale tutti viviamo,
sprofondati nelle finte comunità virtuali della Rete, nella luce azzurrognola
del televisore, negli affaracci e guai nostri. (…). Il senso del quartiere,
della "vicinanza" come la chiamavano gli emigrati italiani nei loro
ghetti, si va disperdendo, come l'odore del barbecue nella sera. Puoi
fabbricare bombe in casa tua, come i fratelli Tsaraev a Boston, senza che
nessuno se ne accorga. Puoi tenere tre ragazze per sette anni chiuse in
cantina, violentarle, farle abortire, e i vicini non ne avranno sospetto. Good
morning America. Quella rete di controllo sociale, che era tanto utile quanto
fastidiosa (…) si è smagliata. Viviamo in piccoli castelli, con sempre più
ponti levatoi elettronici, allarmi, fotocellule, sensori, quando non armi da
fuoco nei cassetti. (…). È la cronaca impietosa che ci giunge
dall’altra parte dell’Atlantico. Ma è una cronaca con la quale conviviamo. Come
fosse la cosa più naturale di questo tempo balordo. E quei balordi che ficcano
il loro strumento quasi in bocca al familiare, o al vicino di casa? Fanno esclusivamente
il loro stupido, sporco mestiere. Ma chi si presta a che il balordo di turno
faccia quel suo stupido, sporco mestiere a quel modo non è meno stupido e balordo
di lui. Ecco perché c’è dell’altro che ha a che fare con la scarnificazione del
pensiero. Continua infatti a scrivere Massimo Recalcati: Il problema è che questa
difficoltà soggettiva a simbolizzare la violenza viene oggi drammaticamente
amplificata da quelli che mi paiono i due nuovi comandamenti sociali che
sembrano dominare il nostro tempo e che l’attuale crisi economica rende a sua
volta ancora più tossici. Il primo comandamento è quello del nuovo. È la spinta
a ricercare sempre altro da quello che si ha, a scambiare quello che si ha con
quello che ancora non si ha nella illusione che è quello che non si ha a
custodire la felicità. L’esperienza clinica della psicoanalisi mostra invece
che il Nuovo – al cui miraggio molti consacrano la loro esistenza – anziché
rendere la vita soddisfatta, non fa altro che riprodurre la stessa identica
insoddisfazione. Il secondo comandamento è quello del successo. Nessun tempo
come il nostro sembra togliere diritto di cittadinanza al fallimento, all’errore,
al ripiegamento, all’insuccesso. Nessun tempo come il nostro ha enfatizzato
come una questione di vita o di morte la realizzazione del proprio successo
personale. Ebbene la violenza su di sé o sugli altri viene al posto di questo
lavoro di simbolizzazione del proprio fallimento. Accade, per esempio, nei
rapporti tra uomo e donna quando uno dei due non sopporta il tradimento o
l’allontanamento dell’altro e si sente autorizzato ad agire violentemente per
ristabilire l’autorevolezza della propria immagine narcisistica infangata e
umiliata dalla libertà dell’Altro. Il femminicidio non ha altra ragione
psichica – ne ha altre e profonde di tipo culturale – se non questa: utilizzare
la violenza, il passaggio all’atto brutale, al posto di assumere su di sé il peso
della propria solitudine e del proprio fallimento. (…). Come meglio non
lo sarebbe potuto dire. Poiché scarnificare il pensiero è come togliere l’humus
ad una pianticella. Al pari della pianticella che da quel sottile strato trae
il suo necessario stabile radicamento ed il suo sostentamento vitale, il
pensiero più o meno complesso ha rappresentato sempre il substrato ed al
contempo il nutrimento di quell’Io che stenta sempre a crescere e che nella
fase della crescita ha bisogno di nutrirsi di pensieri sempre più complessi. Se
li si scarnifica riducendoli ad un osso nudo si perde progressivamente la
qualità umana dei singoli che, dal confronto/scontro con gli altri, alimenta e
sostenta per l’appunto la crescita dell’Io. Affonda Massimo Recalcati nelle Sue
profondissime conoscenze e competenze: …Lacan affermava – suscitando scandalo – che
la depressione è una vera e propria “viltà etica”. Si tratta di una tesi non
del tutto estranea al giudizio di condanna che i padri della Chiesa esprimevano
sull’accidia e ha l’obbiettivo di mostrare che nella depressione c’è sempre una
responsabilità del soggetto che non va mai dimenticata. Essa coincide con la
difficoltà ad assumere, ad elaborare simbolicamente, il proprio fallimento, il
proprio insuccesso, la ferita narcisistica subita dalla propria immagine. Se
non sono l’Io che credevo di essere (narcisismo), nulla ha più senso di
esistere (depressione). Di fronte ad una cultura che sembra rigettare il valore
formativo dell’esperienza del fallimento e che insegue i miraggi del Nuovo e
del Successo, il ricorso alla violenza sembra apparire allora come un talismano
malefico per esorcizzare l’appuntamento fatale con la nostra vulnerabilità e
insufficienza dalla quale, poiché – come canta il poeta – dai diamanti non
nasce niente, potrebbero sorgere invece fiori nuovi. Quali e quante
sono le responsabilità dei media a fronte della creazione, perpetuazione e
divulgazione ossessiva di quelli che l’illustre psicoterapeuta definisce “i
miraggi del Nuovo e del Successo”? Responsabilità sociali enormi che
fanno dire ai volenterosi protagonisti di quei servizi televisivi – o della
carta stampata – ideati e realizzati dai soliti balordi, le stesse scempiaggini
da pensiero scarnificato che si sentono e sui vedono sui media da una parte all’altra
dell’Atlantico. Vittorio Zucconi ce ne rende testimonianza.
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